Che soave zeffiretto
di Antonino Trotta
Non è il vento del cambiamento a soffiare contro l’uscio del nuovo anno ma una soave brezza che spira nelle tortuose ritorte di uno strumento a fiato per plasmare l’inanimato flusso d’aria in un effluvio sonoro dall’irresistibile charme: così il quintetto “Les vents français”, ospite dell’Unione Musicale, battezza l’agenda 2019 dei cultori torinesi con un concerto dal programma raffinatissimo.
Torino, 09 Gennaio 2019 – Negli episodi da camera, quando la musica si libra sorretta dalla portanza del respiro comune, soffermarsi sull’eccezionale talento del singolo potrebbe ridursi a un superfluo esercizio di destrutturazione che sottrae – in parte – attenzione all’esperienza d’insieme. Eppure l’effetto sortito dalla commistione sonora densa e avvolgente, la connaturata diversità timbrica delle parti e soprattutto la curiosità uditoria invitano a isolare le voci narranti per esplorare nel dettaglio l’universo di strumenti che troppo spesso schivano i momenti di vero approfondimento nei cartelloni delle società concertistiche. È allora un privilegio per il pubblico torinese poter prendere parte al recital del quintetto “Les Vents Français”, ospiti dell’Unione Musicale che, dopo la breve pausa natalizia, riapre le porte del Conservatorio “Giuseppe Verdi” con un raffinatissimo programma di musica per pianoforte e fiati. Tra bagliori solistici e alchimie strumentali ricche di charme, i cinque solisti dell’ensemble si alternano sul palcoscenico dell’auditorio in combinazioni sempre differenti regalando al pubblico, attraverso pagine più o meno note, un’esaustiva dissertazione sulle caratteristiche, individuali e cumulative, di legni e ottoni.
Di scrittura accademica e privo di quello slancio nazionalistico che spianerà la strada al “Gruppo dei Cinque”, il Trio pathétique in re minore di Glinka offre da subito l’occasione per innamorarsi della sensualità del fagotto (Gilbert Audin) che, insieme al clarinetto (Paul Meyer), intreccia nel Largo un canto languido e appassionato. Le otto variazioni in do maggiore sul tema di «La ci darem la mano» WoO 28 di Beethoven fanno invece da vetrina espositiva al minuzioso tecnicismo dei tre solisti, impreziosito da un brioso gioco di riflessioni, contrappunti ed echi che nella visione globale del pezzo attesta un’omogenea comunione di intenti, scevra da ogni sorta di protagonismo. Diverte e impressiona, ad esempio, la pulizia della serrate terzine staccate del fagotto nella seconda variazione, impeccabile nelle note ribattute, oppure la gragnola di trentaduesimi del flauto (Emmanuel Pahud, celebre flautista dei Berliner, il cui strumento brilla per la bellezza del colore ambrato) nella quinta, questa volta fluidi e legati, così come quelli del clarinetto nell’ottava.
Nel quintetto per fiati e pianoforte op. 52 di Louis Spohr fa finalmente ingresso anche il corno (Radovan Vlatković) che nell’Allegro moderato iniziale espone il tema con sopraffina morbidezza, palesando una finitura nelle dinamiche spesso oscurata dalle esecuzioni orchestrali. La certosina capacità di soppesare i contributi delle varie sezioni diventa fondamentale in questa partitura, piuttosto squilibrata, dove il pianoforte monopolizza l’intera composizione. Eric Le Sage, tuttavia, sa tenere le redini del discorso con spiccato senso della misura e intessere nel flessuoso velluto dei fiati una trama pianistica luminosa e garbata, valorizzando gli accennati richiami chopiniani (soprattutto nel Finale si fanno evidenti le influenze dei concerti per pianoforte del genio polacco), ben serviti dal tocco preciso e delicato.
Accattivante la Tarantella op.6 di Saint-Saëns affidata al pianoforte, al flauto e al clarinetto. Sibilando con un fraseggio cristallino e un meccanicismo sadico nelle sinistre scalette ascendenti, il trio esalta il lato demoniaco dell’opera, quasi questa fosse il bozzetto della futura Danza Macabra op.40.
Con la complicità dell’estrosa grafia, si giunge all’apice della serata nel quintetto in si bemolle maggiore di Rimskij-Korsakov. È qui, di fatto, che la peculiarità timbrica si fa ancillare a una lettura umorale del testo musicale: il tema dell’Allegro con brio iniziale assume di strumento in strumento un’intensità drammatica e una carica emotiva differente, glorioso con il corno, solenne con il pianoforte, trasognante con il flauto, riflessivo con il fagotto. E se nella liquidità dell’impasto sonoro dell’Andante, dove i colori si mescolano in un acquerello dai contorni sfumati e indefiniti, il soave zeffiretto dei fiati pizzica le corde di un eroico romanticismo, la verve istrionica del Rondò conclusivo (eseguito, senza i da capo, anche come bis) trascina il pubblico in un turbinio di applausi.