L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Haendel inglese, spirito tedesco

 di Roberta Pedrotti

Bologna Festival inaugura la sua stagione con il raro e affascinante Solomon di Haendel, affidato - in quest'unica data italiana - ai complessi della Kölner Akademie, che offrono una lettura in filigrana, che alla teatralità e alla magniloquenza predilige la severità oratoriale.

BOLOGNA, 20 marzo 2019 - Rispetto alla bruciante teatralità di altri oratori haendeliani, Solomon (Londra 1749) sembra avvolgere intorno all'episodio del bimbo conteso, l'unico momento di pathos reale, una drammaturgia quantomai composta e contemplativa: nel primo atto si annuncia la costruzione del Tempio di Gerusalemme e si canta la perfezione dell'amor coniugale fra il sovrano e la sua regina; nel terzo la visita della Regina di Saba è l'occasione per consacrare lo splendore della corte e la saggezza di Salomone. La grande allegoria celebrativa di un'illuminata età dell'oro – specchio idealizzato del regno di Giorgio II – si anima, però, in una scrittura particolarmente rigogliosa, quasi sfrontata nel trionfo corale di effetti imitativi (il celebre Nightingale Chorus che chiude il primo atto, ma anche l'inno sacro a suggello del secondo fra aromi d'incenso), l'esuberanza strumentale della sinfonia del terzo atto (nota anche come Arrivo della Regina di Saba), per non dire del grandioso Masque in onore dell'esotica ospite, con episodi lirici, amorosi, marziali e naturalistici.

Michael Alexander Willens, per quest'esecuzione in un'unica data italiana a inaugurazione del Bologna Festival 2019, sceglie tuttavia una visione essenziale più che lussuriosa del Solomon. Il maestro statunitense a capo del coro e dell'orchestra della Kölner Akademie opta per tempi per lo più distesi, ricerca la chiarezza in un organico snello – sostanzialmente a parti reali o poco più – predilige l'elegia e la riflessione alla grandeur della celebrazione reale. Ha buon gioco per l'esatta pulizia delle voci e degli strumentisti, fra i quali anche più di un italiano, che non temono le insidie dell'intonazione dei fiati e, soprattutto, degli ottoni naturali. Purtroppo l'ampiezza e l'acustica del Teatro Manzoni non sono i più amichevoli verso questo repertorio e in particolare un taglio interpretativo siffatto si concentra su qualità apprezzabili soprattutto dai primissimi settori di platea. A distanza più ravvicinata la partitura appare come in filigrana, un'incisione dai contorni netti e fini senza la pompa vertiginosa della maestà. La stessa saggezza di Solomon ha il tratto naturale, quasi cordiale, di una nobile semplicità spoglia da ogni solenne apparato nella vocalità chiara di Marian Dijkhuizen, d'evidente estrazione stilistica, nell'emissione e nel fraseggio, più oratoriale e sacra che teatrale. Parimenti Bethany Seymour ha il suo terreno d'elezione nella musica vocale non strettamente operistica, antica e barocca, d'area anglosassone e tedesca. Caratterizzata da un vibrato più percepibile rispetto agli altri interpreti, porge la frase con una franchezza espressiva che rende non solo la pura ammirazione della Regina di Saba, ma anche e soprattutto il pathos materno della prima Meretrice, in quella scena del secondo atto che già solo per la concatenazione dei numeri (sublime il terzetto centrale fra il Re e le due contendenti) si impone come uno dei capolavori di Haendel drammaturgo musicale. La leggiadra Hanna Herfurtner completa il trio delle tre voci principali con una liliale Regina e una seconda Meretrice acida come si conviene, sempre nell'ideale di contegno ed equilibrio ricercato da Willens, per un oratorio che sia allegoria, più che dramma.

Caduto, infine, in quest'esecuzione, il personaggio del Levita, resta a far da contorno alle figure principali il solo tenore Mark Heines, che fatica un po' qualora venga sollecitato il registro grave, ma risolve con competenza le arie e i recitativi del sommo sacerdote Sadoc e del servitore. Tutti i solisti si staccano all'occorrenza dalle file del coro, nelle quali rientrano in un continuo gioco di maschere e rilievi che esalta ancor più la tendenza all'astrazione di questo Solomon, più che una virtuosistica prospettiva teatrale del coevo Tiepolo, un trittico sacro di scuola nordica. Ogni atto espone il suo tema – la virtù privata, l'amministrazione della giustizia, lo splendore del regno – arricchendosi via via di dettagli che sviluppano l'architettura musicale in un organismo ordinato e compiuto, non nella tensione di un'azione drammatica – per lo più assente nel testo – o nell'ostensione di tutta la maestà di una Golden Age. Così, l'estremo Haendel ritiratosi dall'opera italiana in favore dell'oratorio in lingua inglese sembra rimarcare non solo nuovi approdi dell'elaborazione di un teatro musicale paradossalmente senza teatro, ma si riallaccia qui, quasi omaggio alle radici del complesso tedesco, a tradizioni più severe di musica drammatica, in una curiosa commistione di riserbo e lusinghe, sorretta dalla qualità e della coerenza dell'esecuzione.

Il pubblico apprezza e applaude con pari convinzione.

 

foto Roberto Serra


 

 

 
 
 

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