L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Quanto vale Čajkovskij?

 di Alberto Ponti

Concerto trionfale per l'accoppiata Malofeev/Valčuha nel segno del grande repertorio

Il titolo non tragga in inganno. Nessuno intende mettere in discussione il valore di Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840-1896), ma anzi affermare, un po' come avviene per certi campioni del calcio del passato di cui, ammirando tuttora le gesta, si fantastica sulla quotazione che potrebbero avere nel mercato attuale, che il suo Concerto n. 1 in si bemolle minore op. 23 (1874-75) è un'opera di così irresistibile richiamo da continuare a riempire le sale non solo ieri ed oggi ma per molto tempo ancora. Il merito di aver fatto segnare il tutto esaurito, giovedì 21 e venerdì 22 marzo, tra gli oltre 1500 posti dell'auditorium RAI, il più amato tra i musicisti dell'Ottocento russo lo condivide per l'occasione con il diciottenne connazionale Alexander Malofeev.

Se la prima apparizione torinese del concertista, la scorsa primavera, stuzzicò il palato degli intenditori con un pezzo ricercato come la Rapsodia su tema di Paganini di Rachmaninov, diretta da un mostro sacro del calibro di Myung-whun Chung, il suo ritorno sotto la Mole, al fianco di Juraj Valčuha, passa ora attraverso un brano arcinoto. Malofeev possiede talento da vendere e non si lascia certo intimorire da confronti e paragoni, inevitabili quando si affronta un siffatto repertorio. La sua visione si conferma una volta di più distante dal virtuosismo fine a se stesso, nonostante il bagaglio tecnico agguerrito e formidabile. Prevale, nel vasto primo movimento (Allegro non troppo, un poco maestoso) un senso di equilibrio, di rado presente in un tratto compositivo spesso condotto all’estremo e in cui troppi pianisti eccedono in eccessi di drammaticità: il tocco è ardente ma sereno, l'uso del pedale non prevarica mai il necessario, il canto delle melodie profuse a piene mani dall’autore vibra, nella chiarezza risonante di ogni nota, dell’intima essenza dell’anima russa. Gli accordi grandiosi dell’introduzione, le impressionanti cascate di ottave, i cromatismi che rameggiano inquieti tra i bassi, le estese cadenze del solista acquistano, sotto le dita di questo ragazzo, una vitalità naturale e incontenibile capace di evocare, oltre la battaglia messa in campo da un animo tormentato, lo scorrere epico e fluviale della penna di un Tolstoj. Le tragedie e le confessioni più brucianti, messe a nudo senza repressioni e senza enfasi, si ricompongono in un racconto di superiore luminosità che rende giustizia a una pagina spesso indiziata di eccessivo sentimentalismo. L'intelligenza della direzione di Valčuha si palesa, da par suo, nel portare in primo piano l'orchestra nei passi di veemente impeto mantenendo allo stesso tempo il pathos e il respiro del discorso incessante col pianoforte.

Nell'Andantino semplice, il dialogo con il flauto acquista una sensualità di sapore rustico ma genuino, in contrasto con le geometrie taglienti della velocissima parte centrale, cruciale banco di prova dell'intero concerto: Malofeev la affronta con pulizia timbrica e rapinosa intensità. Anche nell'Allegro con fuoco finale la convivenza di irruenza e lirismo dà luogo a un impressionante crescendo emotivo destinato a sciogliersi nell'applauso infinito di un pubblico letteralmente in delirio portato, se possibile, a un livello di entusiasmo ancora maggiore dai tre encore concessi con munificenza: piccolo concerto nel concerto dove il Čajkovskij de Le stagioni e Lo schiaccianoci incornicia una strepitosa e trascendentale Toccata op. 11 di Prokof'ev che da sola sarebbe valsa il prezzo del biglietto.

Nell'ouverture Othello op. 93 (1892) di Antonín Dvořák (1841-1904), eseguita in apertura, così come nell'estremo lascito delle Danze sinfoniche op. 45 (1940) di Sergej Rachmaninov (1843-1943) la bacchetta di Valčuha dimostra quella notevole versatilità che, dopo le stagioni alla guida dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, lo sta portando ora alla ribalta in veste di direttore musicale del Teatro San Carlo di Napoli. Lo smalto tardoromantico di Dvořák appare nel suo splendore grazie a una conduzione opulenta e serrata, in grado di rendere interessante un lavoro che, nonostante la notevole sapienza di scrittura, non rimane, nella sua tensione verso un'aura tragica tutto sommato epidermica, tra gli esiti più memorabili del compositore boemo.

Di ben altro spessore è apparso il testamento spirituale di Rachmaninov, concertato con la dovuta snellezza e, verrebbe da dire, asciuttezza del suono che, nonostante la continua ricerca coloristica e l'utilizzo di una compagine molto ampia con tanto di sassofono, è l'icona più riconoscibile degli anni americani dell'autore. All'ascolto non sfugge la valentia di uno scavo analitico, frutto dell'intesa immediata e della comunanza di pensiero tra il podio e ogni strumento, grazie al quale è stato possibile gustare le molteplici gradazioni di una partitura oscillante tra le reminiscenze di un passato rivissuto con nostalgico distacco (le trombe liquide del secondo movimento Tempo di valse) e il vitalismo nervoso, talvolta grottesco, di un'orchestrazione in grado di assimilare gli influssi più disparati dei contemporanei, rimanendo tuttavia ancorata con originalità personale a uno stile definibile vera e propria summa di tanto sinfonismo dei primi decenni del XX secolo.

Termina tra le ovazioni per il maestro slovacco uno degli appuntamenti clou della stagione, che rimarrà nella memoria di molti presenti.

foto Maria Vernetti


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