L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'alba e il tramonto

di Alberto Ponti

Il direttore pesarese alla testa dell'Orchestra Sinfonica Nazionale dispiega il suo talento di concertatore in brani di Schubert e Richard Strauss

TORINO, 29 novembre 2019 - 43 anni. Tanto intercorse tra la composizione della Sinfonia in si minore D759 (Incompiuta) di Franz Schubert (1797-1828) nel 1822, e la sua presentazione al mondo avvenuta, dopo una abbastanza avventurosa scoperta, solo nel 1865. La storia è nota: l'autore donò il manoscritto all'amico Hüttenbrenner che lo conservò per oltre quattro decenni in un cassetto per darne poi notizia al direttore Johann Herbeck, organizzatore della prima viennese. Per rendere l'idea è come se oggi, alle soglie del 2020, venissimo a conoscenza di un capolavoro scritto nel 1977 da un autore scomparso nei primi anni ottanta del secolo scorso. Per chi abbia minima contezza del tempo trascorso e dei cambiamenti intervenuti nella storia recente, basta il semplice intervallo tra le due date ad evocare epoche assai diverse ed antitetiche. Alla stessa maniera un mondo differente nel profondo era quello del 1865 rispetto a quello di Schubert. Non solo, ad esempio, l'avvento di ferrovia, corrente elettrica, telegrafo (con buona pace del grande Franz che aveva lasciato questo mondo mettendo in musica i servizi di un piccione postale) ma anche la comparsa della successiva generazione romantica e di Wagner. Richard Strauss (1864-1949), nato l'anno precedente, muoveva i suoi primi passi nel senso stretto della parola ma, essendo egli genio precoce, entro la fine del successivo decennio avrebbe intrapreso un lungo cammino artistico destinato, con oscillazione perpetua e talvolta ambigua fra tragica consapevolezza e irresistibile ironia, a mettere la definitiva pietra tombale su quel romanticismo germogliato sotto l'astro schubertiano ma che non mancherà di agitare i compositori europei fino alla seconda guerra mondiale.

Tra l'alfa e l'omega di questa immensa e irripetibile temperie si snoda il bel programma diretto da Michele Mariotti all'auditorium Rai giovedì 28 e venerdì 29 novembre. La prima parte era dedicata, oltre che alla celebre sinfonia, a un altrettanto conosciuta pagina dello stesso autore quale l'ouverture D644 per il dramma Die Zauberharfe (1820), nota anche come Rosamunde dalle musiche di scena a cui fu premessa integralmente in edizioni successive. Il tratto rossiniano di Mariotti, tra gli eccelsi interpreti attuali del suo illustre concittadino, viene in particolare fuori già dall'Andante introduttivo, con un fraseggio luminoso, caldo e sensuale, sempre delicato ed espressivo nel portamento, mai smodato o sopra le righe; Schubert, che a Rossini guardò nelle due splendide ouverture 'nello stile italiano', avrebbe certamente apprezzato. Il seguente Allegro vivace è una letterale esplosione di colori: l'Orchestra Sinfonica Nazionale riesce a tradurre alla perfezione la visione di un direttore con cui può vantare notevoli collaborazioni culminate nell'ultima Semiramide al Festival di Pesaro. Tutta la gioia incontenibile del giovane viennese è portata ad un livello contagioso ed esuberante, dallo slancio degli archi del primo tema alla cura degli attacchi nei ritmi scalpitanti dei fiati, nelle note ribattute di certi accompagnamenti in apparenza banali ma che, sotto l'attenta bacchetta del maestro, cantano anch'essi con l'irruenza genuina di comprimari indispensabili. Altri mezzi poetici sono chiamati a raccolta nell'Incompiuta dove il pensiero di Schubert raggiunge esiti di vertiginosa intensità. Mariotti evita di esasperare i contrasti nell'Allegro moderato, lucida la caratteristica patina scura dei tromboni fino ad ottenere effetti di chiarore metafisico, riporta gli sforzando a piena orchestra nell'alveo di una confessione intensa e drammatica in sintonia con lo strisciare allusivo dell'idea iniziale dei bassi e la malinconica apertura cantabile della melodia dei violoncelli. E che dire allora dell'Andante con moto, dove con gesto controllatissimo ed occhio analitico ogni minimo aspetto, a partire dai pizzicati discendenti di violoncelli e contrabbassi, è incasellato dal podio in un più ampio respiro pittorico che fa convivere, al modo di elementi complementari di un unico affresco terribile e consolatorio a un tempo, gli scoppi burrascosi dell'intera orchestra con la speranza commovente del canto solitario dell'oboe?

Il cerchio si chiude, dopo l'intervallo, con due robuste pagine straussiane: la Danza dei sette veli da Salome (1905) e la Suite tratta nel 1945 da temi del Rosenkavalier (1911). Qui la concertazione si fa ammirare una volta di più per la sapienza timbrica capace di restituire, all'interno di una scrittura di elevata complessità, il dovuto respiro narrativo senza perdersi nell'elaborazione del dettaglio. Mariotti apre appena, tra il riconoscente applauso di un folto pubblico, due squarci sul lussureggiante universo straussiano. Ci auguriamo in un futuro non lontano di vederlo protagonista di un intero titolo del compositore bavarese al quale, ne siamo certi, potrebbe conferire un'interpretazione matura e personale.


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