L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La lezione di Madame Rossini

di Gina Guandalini

L'America Academy di Roma organizza tre giornate di master class per giovani cantanti con Marilyn Horne. Quello che, però, voleva essere un perfezionamento, si rivela più che altro una sessione intensiva sulle basi stesse del canto lirico. Un'occasione di riflessione i cui semi potranno, si spera, germogliare in futuro.

ROMA, 2, 4 e 6 giugno 2014 - All’estero le master classes di una Marilyn Horne o di un Itzak Perlman, con le interruzioni, i commenti (molto spesso spiritosi) e i consigli del docente, sono veri e propri spettacoli, per i quali si paga il biglietto, ai quali un pubblico melomane eterogeneo accorre in massa. Sarebbe ora che anche lo show business italiano scoprisse questo segreto. E’ venuta in Italia, colei che mi ostino a considerare la più grande cantante del secolo XX ! E ha intensamente e pazientemente instradato aspiranti cantori – quasi sempre sopra i trent’anni di età – ad appoggiare la voce sul diaframma, a mettere il suono in maschera, a cercare un timbro giovane e luminoso. Ai tre pomeriggi organizzati a Roma dall’American Academy si sono presentate in stragrande maggioranza ragazze e giovani donne. Una sola voce era maschile, di tenore. Le nazionalità erano svariate: cinque Italiane, quattro americane, due canadesi, una svizzera, una cinese e una giapponese. Tutti hanno trascorso diversi anni con docenti privati e di istituzioni pubbliche; ma non sono state loro insegnate, evidentemente, le basi – le assolute basi tecniche - del canto. Si è rivissuta anche in questo caso, dunque, la situazione che avevo segnalato nel 2012 e nel 2013 in occasione delle master classes (anch’esse a Roma) di Rockwell Blake; e cito dunque, a proposito delle lezioni romane della Horne, quello che scrissi due anni fa nel caso di Blake: sono dell’opinione che musicisti di questo livello dovrebbero essere chiamati a perfezionare cantanti già in carriera; e – aggiungo un’opinione mia, non del tutto condivisa da i due artisti - in quel repertorio in cui sono stati inarrivabili. Le tre master classes della mitica “Madame Rossini” si sono tenute il 2 giugno nella sontuosa Villa Aurelia in cima al Gianicolo, e poi il 4 e il 6 in una sede più modesta davanti a Villa Sciarra. Spiccavano per la loro assenza i dirigenti delle massime istituzioni operistiche e musicali italiane; come brillava l’assenza (per fortuna, probabilmente) di critici musicali dei principali quotidiani e schiamazzanti loggionisti radiofonici.

Villa Aurelia è una magione originariamente appartenuta ai Farnese e nei secoli passata per diversi proprietari illustri prima di diventare un centro congressi con limonaia e piscina; e vale la pena di segnalare la sontuosa raffinatezza del buffet che alla fine ha accolto gli ascoltatori – una cinquantina, perlopiù americani - con tanto di gamberetti in savòr e crema fritta all’ascolana. Mark Robbins direttore della prestigiosa American Academy, ricorda che l’illustre docente, orgoglio e vanto della musica statunitense, ha cantato in ognuno degli stati americani, e per Clinton nel ’93; Timothy Martin, direttore del settore musicale, ha presentato Marilyn Horne con pochi sentiti elogi. Lei, a un piccolo tavolo, i candidi capelli cortissimi, sedeva concentratissima sugli spartiti. Ha dichiarato subito di voler insegnare nella sua lingua madre. Con gli allievi italiani la nostra lingua sarebbe poi, ogni tanto, sgorgata dalle sue labbra precisa ed energica; ma queste “sedute di istruzione” si sono svolte in americano. La vedremo poi cacciare con fermezza una ragazza che scatta fotografie e una che tenta di registrare la lezione. Al pianoforte il simpaticissimo Steven Kramer, americano residente a Roma, che ha tratto il miglior partito possibile da un pianoforte non accordatissimo. A Villa Aurelia la prima volontaria è una trentatreenne con la voce completamente “indietro”, che non ha del tutto chiari i sentimenti del personaggio di Adalgisa da lei stessa scelto. Qui la Horne deve subito indicare le proprie guancie per cercare di ottenere l’emissione che noi definiamo “in maschera”. Lo farà costantemente, con tutti. Interviene anche sulla dizione, esigendo il rispetto delle consonanti singole e doppie, ed esortando tutti gli italiani a sfruttare “your gorgeous language”. E al tenore canadese che si presenta subito dopo ordina “Don’t learn Italian tomorrow: learn it yesterday!”. Non è mai troppo presto, infatti, per italianizzare l’emissione del suono e capire quello che si canta. La brutale franchezza si rende necessaria con la terza apprendista ( che già canta al Puccini Festival): la tua voce al centro è “malata”, questo brano non è per te. Vizi probabilmente “ingrained”, radicati, affliggono l’emissione del soprano spinto che si presenta alla prima Master Class nella sede più modesta; è Marilyn dedica una buona mezz’ora a schiarirle e a “ringiovanirle” la voce. Insistere su un timbro “da ragazzina” è poi l’unico metodo con cui tenta di recuperare la voce fortemente traballante del soprano susseguente. Il problema è serio, la Horne non lo nasconde, ed è perentoria nel consigliare un altro metodo di canto e un altro docente. Per trentenni già bene o male in carriera l’audizione si rivela scioccante.

Bibiana Carusi, flautista e musicista svizzera, si esibisce nei teatri da diversi anni, soprattutto nell’operetta, ma ha avuto l’umiltà di venire a farsi giudicare qui. Ha eseguito la difficile aria con recitativo di Donna Elvira Elvira ”In quali eccessi…Mi tradì” con professionalità più che sufficiente. Ad aria conclusa tutti la applaudiamo. La diagnosi di Marilyn? “Very good”, le dice; e poi cominciano le critiche. Adesso deve “zero in” (puntare tutto) sulla tecnica; ma l’inglese di Bibiana è incerto, avrà capito? Al finissimo orecchio horniano la sua voce suona “heiser”(cioè roca in tedesco) nel registro grave, per mancanza - anche qui – di immascheramento. L’esilissima ventunenne Katy Wilson presenta uno degli Hermit’s Songs di Samuel Barber, nel quale si parla di Immacolata Concezione e del bambino che la fanciulla stringerà al seno. E’ discretamente impostata tecnicamente, ma la docente vuole lavorare sull’espressione; e qui subentra la Horne “materna”: “Non sai ancora che cos’è un baby, ma lo saprai un giorno; è la cosa più meravigliosa che possa capitarti”. C’è poi la questione dell’immedesimazione emotiva in un testo di argomento religioso, e qui la Horne strappa al pubblico anglofono una risata: “Se credi che Gesù sia nato, bene; se no, recita!”. Un consiglio che ripeterà anche nel caso di un’altra giovane cantante: “mettiti una cintura alta, di cuoio, e stringila bene: ti aiuterà a sostenere il fiato”. La terza master class vede Marilyn esordire con considerazioni amare: ha appena visto e sentito alla televisione italiana cantanti che esibiscono un misto di tecnica classica e di emissione pop. Chi vuole cantare deve prima di tutto padroneggiare l’ABC della tecnica di emissione. Con i primi due soprani di quel pomeriggio, entrambi americani, è costretta ad alzarsi, a toccare loro il viso e il diaframma per spiegare i soliti fondamentali concetti della fonazione “avanti” e del sostegno del fiato. “Devo parlarti di appoggio del fiato: non vedo niente all’altezza del tuo diaframma! ”, “Usa più aria!”, “Porta la voce agli zìgomi e sparirà il suono ballante”. Ricompaiono vecchi trucchetti efficacissimi: mettendo la mano sotto il mento, la voce diventa più facile e bella. Una pausa di benvenuto professionismo è il canto piacevole della giovane cinese Ivao Chen: Liù ideale fisicamente, con la sua esecuzione di “Tu che di gel sei cinta” strappa pochissime correzioni all’illustre maestra e viene congedata con un eloquente “Buona fortuna” Una ragazza di Frosinone - ventunenne, per fortuna - che studia da cinque anni a Santa Cecilia, canta l’aria di Norina dal Don Pasquale senza suscitare commenti. Alla fine il responso: il tuo metodo di fonazione è “too tight”. Deve ricantare tutto usando solo la vocale “i”: e il suono è chiaramente più “avanti” e facile. Tre anni a S.Cecilia non hanno dato alla giovane giapponese che affronta “Una voce poco fa” davanti a Marilyn Horne una base tecnica professionale; non c’è appoggio né maschera. Viene costretta a ripetere tutto “tirando fuori” ogni nota. E’ grave che tante importanti sedi storiche dell’opera e del concerto e tante istituzioni musicali, che dovrebbero avere tra gli obiettivi prioritari l’offerta della base tecnica fondamentale ai giovani studenti e ai musicisti desiderosi di perfezionarsi, non offrano niente di tutto ciò. Con la Horne il miracolo si ripete ogni volta: cinque minuti di applicazione del metodo ortodosso – evidentemente sconosciuto allo studente o applicato casualmente e senza rigore – e già l’orecchio un po’ esercitato dello spettatore, e dello stesso cantante, sente che il suono diventa scorrevole ed è ascoltabile, se non addirittura bello. “Non è questo ciò che avrei voluto fare” dichiara in conclusione Marilyn Horne alla piccola assemblea. E’ ovvio, sperava di aiutare elementi ormai professionali a perfezionarsi in ruoli difficili. Pure, e in questo concordo con la “postlusione” (si dice così?) del direttore musicale Timothy Martin, la presenza e l’autorità di questa immensa artista ha provocato riflessione, ha ispirato, ha dato materia di dibattito, ha lasciato il segno, insomma. I consigli giusti e illuminati devono lasciare un piccolo germoglio nella mente di chi aspira a diventare un grande cantante; e siamo certi che verranno rielaborati in futuro.


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