L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’arte di essere riconoscibile

di Irina Sorokina

La bohème è uno di quei titoli perfetti che sembrano destinati al successo senza sforzo, ma la produzione del Teatro Bol’šoj, povera di idee e tutta affidata alla forza intrinseca dell'opera, dimostra che in realtà è tutt'altro che facile. Musetta, Marcello e un barboncino bianco risultano i veri trionfatori della serata.

Mosca, 25 gennaio 2020 - Quando il baritono torinese Giuseppe Valdengo fu invitato dal grande direttore d’orchestra Arturo Toscanini a preparare ed interpretare la parte di Jago in Otello, questi gli disse che esistono dei personaggi che sono già fatti, cioè disegnati dal compositore in modo così chiaro da non essere difficili da interpretare. A questa categoria, secondo il Maestro, appartenevano Rigoletto, Otello, Boris Godunov, Don Basilio, Mefistofele di Boito e altri. Parafrasando il Toscanini, possiamo affermare che La bohème pucciniana appartiene ai cosiddetti titoli “già fatti”. Infatti, la storia di sei giovani, quattro uomini e due donne che patiscono la miseria e vivono le storie d’amore travagliate, è raccontata dal compositore in modo molto chiaro e i personaggi sono scolpiti con la massima vivacità.

Detto questo, si può coltivare una convinzione che La bohème sia un titolo facile e mettersi comodamente su una poltrona a teatro per goderselo. Non è andata così al Bol’šoj, che a conclusione della stagione 2017-2018 aveva presentato il nuovo allestimento del celebre titolo. La “facile” Bohème ha smentito di essere tale.

Abbiamo visto tantissime Bohème condannate al successo, tra cui quella berlinese messa in scena l’anno scorso dall’ormai mitico Barrie Kosky. La bohème moscovita l’aveva preceduta di pochissimo e, purtroppo, non era altro che una serie di cose già viste prima messe insieme da gente che, simile a Rodolfo, “conosce il mestier”. A mettere in scena la storia di Mimì e Rodolfo, Marcello e Musetta era stata chiamata la squadra giovane senza partecipazione di un artista locale: direttore d’orchestra Evan Rogister, regista Jean-Romain Vesperini, assistente di Peter Stein, scenografo Bruno de Lavenère, costumista Cedric Tirado, light designer Christophe Chaupin, video designer Etienne Guiol. Abbiamo assistito alla recita numero ventiquattro e ammettiamo che la promettente squadra non è riuscita a sorprenderci, giocando su molti cliché che siamo abituati a vedere in moltissime Bohème.

Quindi nulla di aggiunto, originale o, addirittura, scioccante: la storia è quella raccontata dal maestro lucchese e i suoi librettisti, come la sua ambientazione. Siamo a Parigi e Bruno de Lavenère, evidentemente, ci tiene a farci vedercela interessante e attraente, una Parigi che corrisponde all’immaginario collettivo. Riesce a inventare una trovata per la mansarda: occupa addirittura tre piani, al pianoterra c’è un letto matrimoniale (dove dormono gli altri due “quattro moschettieri”?). Il regista pure lui propone una cosa poco chiara che desta un sorriso, la ricerca della chiave perduta da Mimì al primo piano, mentre lei non è mai salita lì. Si esprime così l’attrazione reciproca de giovani ragazzi. I tre livelli, ovviamente, favoriscono una certa vivacità dei movimenti nel primo quadro. Il secondo, si sa, è il più facile da risolvere, si salva sempre e la nuova Bohème moscovita non fa eccezione. Anche qua la regia vanta trovate come Musetta che viene accompagnata da un bellissimo barboncino bianco, addestrato a meraviglia, Parpignol che, vestito di rosso abbagliante, continua a fari giri in bicicletta e un militare che nella marcia finale si toglie i pantaloni per scoprire sotto un tutù. Il terzo quadro sfoggia tinte cupe, sempre come vuole il libretto di Illica e Giacosa; nel quarto ritorniamo nella mansarda. Qualche trovata, ma nessuna sorpresa da parte di Bruno de Lavènere e Jean-Romain Vesperini, nessun tentativo di ricerca dei sensi diversi o nascosti, mentre il costumista Cedric Tirado propone abiti di ogni taglio e colore, senza riferimento a un’epoca precisa.

La bohème da noi vista vanta, tutto sommato, un buon cast capitanato da Alexey Tatarintsev – Rodolfo, mentre non si può dire la stessa cosa di Mimì – Ekaterina Semyonova. Il primo, che certo non può essere considerato un giovincello e non è dotato una particolare carisma, disegna un Rodolfo sensibile e sincero, perdutamente innamorato e geloso. La scrittura pucciniana gli calza a pennello e, evidentemente, il tenore si sente a suo agio, soprattutto nel declamato, particolarmente leggero e versatile. La sua padronanza dello stile e l'accento perfetto meritano ammirazione, mentre accusa alcune difficoltà nel registro acuto dove mostra voce tesa ed affaticata. Una certa usura della voce influenza la riuscita della “Gelida manina”.

Al suo fianco, Ekaterina Semyonova, che dalle fattezze sembra una Mimì ideale, non risulta tale. Le cantanti liriche sembrano delle modelle ormai, e la Semyonova, snella, mora, attraente fa parte di questo “esercito”. La natura le ha fatto il dono di una voce naturale, gradevole e, soprattutto, omogenea in tutti i registri: nell’aria celebre “Mi chiamano Mimì” vola liberamente e non può che fare un grande piacere. A queste doti fantastiche non si aggiungono, però, la naturalezza e spontaneità dello stare in scena. Questa Mimì poco incisiva è davvero insolita, non tanto timida, quanto estraniata se non assente.

Con la protagonista così particolare è l’interprete del ruolo di Musetta che assume il ruolo di motore d’azione. Ad Anastasia Sorokina il personaggio dell’amante capricciosa del pittore Marcello è davvero congeniale. La Sorokina sembra ancora più modella della Semyonova, è in possesso del physique du role perfetto, sa portare ogni abito e riesce ad usare anche una certa asprezza della voce a favore del suo personaggio. Ha pure imparato un’altra arte, quella di interagire con gli animali; è in perfetta sintonia con la super star dell’allestimento, il barboncino bianco.

Vasily Ladyuk è condannato anche lui al successo; conosciamo la sua voce, ampia e morbida, e conosciamo la sua meravigliosa arte di stare in scena, da un vero animale di palcoscenico. Forma una coppia perfetta sia con Rodolfo sia con Musetta.

Si fanno notare anche gli altri “moschettieri”; Alexander Borodin – Colline e Yuri Syrov – Schaunard. Molto naturali e credibili, oltre a una buona interpretazione sono uniti da un’altra caratteristica sorprendente: sono entrambi in possesso di voci importanti che addirittura producono un effetto di rimbombo.

Formidabile Benoit di Alexander Naumenko, storica presenza al Bol’soj e danno il loro meglio gli altri comprimari: Otar Kunchulia – Alcindoro, Marat Gali – Parpignol, Andrey Denisov – sergente dei doganieri, Alexander Mashnin – doganiere.

Sul podio, Tugan Sokhiev appare affascinato dalla partitura pucciniana e si lascia andare parecchio; ciò, a nostro parere, lo porta ai tempi e sonorità un po’ grossolani. Riesce a ottenere dai suoi musicisti colori ricchi e brillanti e gioca molto sulle sfumature agogiche, ma a tratti copre le voci dei cantanti. Efficiente e partecipe il coro preparato da Valery Borisov e particolarmente bravo il coro delle voci bianche nel secondo quadro.

Una Bohème realizzata da gente giovane, ma di stampo decisamente tradizionale. Carina, simpatica, godibile, ma “tranquilla” e troppo riconoscibile. Applausi piuttosto generosi a tutto il cast e super generosi allo strepitoso barboncino bianco che accompagna Musetta anche alle chiamate a scena aperta e oscura addirittura il successo del tenore, soprani e baritoni.


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