L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Barbiere di fine estate

di Antonino Trotta

Con Il barbiere di Siviglia volge al termine la stagione estiva del Teatro Regio di Torino: nel cast si apprezzano le prove dei giovani Miriam Albano e Jack Swanson.

Torino, 11 settembre 2021 – Se volessimo insignire Il barbiere di Siviglia di un altro inutile primato, di quelli che ne celebrano superficialmente il mito senza però arridere alla piena comprensione e valorizzazione del capolavoro rossiniano, si potrebbe tranquillamente etichettarla come l’opera più eseguita dell’Italia convalescente. Sulle ragioni di tanto successo non bisogna discervellarsi più di tanto. Date per scontate le proprietà musicali e teatrali inarrivabili del Barbiere, così come quasi sempre le si danno per scontate ogni qual volta la si mette in scena, è sufficiente osservare la risposta del pubblico torinese all’ultimo titolo del cartellone estivo del Teatro Regio per rendersi conto del perché quest’opera si faccia così tanto: tre recite a Torino tutte esaurite e un successo che nell’impegnativo percorso della rassegna Regio Opera Festival trova un risultato numericamente comparabile solo nel concerto di Valčuha, giustamente amatissimo qui ai piedi della Mole. Cosa ancor più strana, tutti hanno fatto nell’ultimo anno Il barbiere, e tutti – Pesaro a parte, dove sarebbe stato sacrilegio – l’hanno fatto commettendo l’errore di tagliare l’aria finale di Almaviva. Se in una Cenerentola si tagliasse «Non più mesta», che tra l’altro è «Cessa di più resistere»sotto mentite spoglie, il pubblico si leverebbe dalla platea con le forche, qui invece pare il mutilamento si accetti ancora di buon grado, come se il rondò del conte fosse un numero riempitivo, un’aria di sorbetto senza peso alcuno nell’economia drammaturgica dell’opera.

A fronte dell’ingiustificabile taglio il naso si storce ancor di più in maniera direttamente proporzionale alle qualità del tenore schierato in campo. Nel caso specifico, Jack Swanson sembra avere tutte le carte in regola per cimentarsi nel micidiale ruolo di Almaviva e di fatto lo interpreta molto, molto bene: il fraseggio nobile e musicale ben suggerisce la caratura aristocratica del personaggio – si apprezza particolarmente la cavatina per l’eleganza nel porgere e l’attenta ricerca di colori –, affronta con perizia i recitativi, poi il timbro è bello, l’emissione omogenea, le agilità scattanti, il registro acuto, sollecitato con generosità e senza timore, sicuro. C’era tutto per un elettrizzante rondò, peccato. Anche Miriam Albano, nel ruolo di Rosina, fa molto bene. Sulla natura puramente mezzosopranile del suo strumento si potrebbe sollevare qualche perplessità perché il registro grave fioco – a onor del vero risolto, con intelligenza e buon gusto, quasi sempre sul fiato – e la baldanza in acuto inducono a pensare a un altro tipo di registro vocale – che troverà certamente piena valorizzazione in altro repertorio –. Albano comunque sfodera una coloratura agguerritissima, fluida, accattivante, tanto dell’aria di sortita quanto nel duetto con Figaro o in «Contro un cor che accende amore», canta con grazia e temperamento, ben caratterizzando nel complesso l’eroina buffa rossiniana.

Più in sordina il resto della compagnia. Andrej Žilikhovskij ha tanto margine di miglioramento giacché si ritrova con uno strumento di pregio ma una tecnica, tanto nell’emissione quanto nel canto d’agilità, decisamente da affinare – «Largo al factotum» è abbastanza pasticciata –. E serve soprattutto più attenzione al testo: la teatralità del motore comico dell’opera va espressa prima nello scioglimento esplosivo dei recitativi e nel contraltare istrionico dei numeri d’assieme, poi nelle macchiette sul palcoscenico. José Fardilha, don Bartolo, ha più esperienza nella lettura e nella messa in scena del personaggio però il canto non è sempre a fuoco e soprattutto molto spesso risultano piuttosto approssimativi i sillabati della fatidica aria. Marko Mimica è un don Basilio dalla voce statuaria ma dal fraseggio a tratti generico. Lorenzo Battagion, ottimo baritono della scuderia del Regio, nei panni di Fiorello si lascia apprezzare per una voce piena e rotonda. Laura Cherici si disimpegna con brio e disinvoltura nel ruolo di Berta. Riccardo Mattiotto, un ufficiale, e Alberto Deichmann, Ambrogio, completano correttamente il cast. Meno ineccepibile del solito la prova del Coro del Teatro Regio di Torino.

Giuseppe Finzi guida l’Orchestra del Teatro Regio in una concertazione tutto sommato ordinaria, che limita i danni – c’è più di uno scollamento col palcoscenico – ma non brilla certo per estro – soprattutto nell’accompagnamento dei recitativi –. Sulla regia di Vittorio Borrelli, con scenografia di Claudia Boasso, costumi di Luisa Spinatelli e luci Andrea Anfossi, infine, si potrebbe addirittura sorvolare, e per due ragioni. La prima è che l’allestimento è notissimo al pubblico visto che il Regio ce lo rifila un anno sì e un anno no; la seconda riguarda la natura intrinseca dello spettacolo, che al solito infarcisce la narrazione di siparietti e gag. Senz’ombra di dubbio, nel far ciò, Borrelli dimostra di conoscere il mestiere, però si vedono accader cose che a ben riflettere son completamente avulse dal contesto. Ad esempio, nel terzetto finale, Rosina si prepara alla fuga facendosi portare decine di valigie, in una scena che avrebbe fatto impallidire persino la Contessa di Folleville. Il siparietto dovrebbe far ridere, certo, però dall’altro lato, se non svilisce il personaggio, certamente rischia di fuorviarne l’immagine della primadonna che poi, a leggere bene il libretto, rivela avere ben altra tempra.

Però il pubblico gradisce, molto, e tributa a tutti gli artisti applausi entusiasti.


 

 

 
 
 

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