Rossini traslato
di Antonino Trotta
La migliore gioventù rossiniana e la polverosa prassi esecutiva fanno scintille nel Barbiere di Siviglia del circuito OperaLombardia: se Chiara Tirotta, Matteo Roma, Gianni Luca Giuga, Alberto Comes e Enrico Maria Marabelli si fanno apprezzare a fronte della poco convincente concertazione di Jacopo Rivani, lo spettacolo firmato da Ivan Stefanutti scivola via senza lasciare alcun segno.
Cremona, 10 ottobre 2021 – Con Ivan Stefanutti non si potrebbe essere più d’accordo, «mettere in scena un nuovo allestimento di Barbiere è una sfida dove ci vuole coraggio e disinvoltura». Smanie e paura però, continuando a citare l’italianissima Isabella, non sembrano essersi affatto dileguate nel nuovo allestimento del titolo rossinianoche ha inaugurato la stagione lirica del Teatro Ponchielli di Cremona, e di coraggio o disinvoltura, in fin dei conti, non s’è vista nemmeno l’ombra.
Già perché, a conti fatti, Stefanutti e la sua squadra – Fiammetta Baldisseri alle luci, Filippo Tadolini assistente a regia e scene, Stefano Nicolao assistente ai costumi, Gianni Bertoli assistente alle luci – si sono limitati a traslare matematicamente il Barbiere dalla solare Siviglia alla caliginosa Transilvania senza imprimere, nella trasformazione, una rotazione capace di mettere in luce una qualche nuova prospettiva o creare semplicemente un vero punto di interesse che tenga alto il livello di attenzione. Così si assiste al solito Barbiere, quello che inanella macchietta strappa risata dopo macchietta strappa risata ma ci propina gente immobile in proscenio durante i concertati, quello che rimpinza il palcoscenico di attori e mimi – stavolta ci sono Ambrogio-Chewbacca e quattro nutrie con la gorgiera – per riempire ogni spazio libero dell’azione, quello che parla tanto ma non dice nulla, un Barbiere in cui si aggiunge, aggiunge, aggiunge quantità sempre infinitesimali che al momento di tirar le somme, poi, non cambiano di una virgola il risultato atteso. I costumi son sgargianti e fantasiosi, le scenografie – specialmente nella prima scena, quando villa Addams si staglia imponente su un antro dall’aspetto cimiteriale – creano un appagante colpo d’occhio, però nel complesso lo spettacolo è un continuo déjà-vu.
Anche Jacopo Rivani, alla guida dell’orchestra I Pomeriggi Musicale, non convince più di tanto per una concertazione che percorre sostanzialmente il sentiero battutissimo del Rossini a cento all’ora: certo, la partitura lo legittima e non è una soluzione affatto disdicevole, purché dall’onda della musica rossiniana sempre in crescendo non ci si lasci mai travolgere, anzi la si cavalchi per meglio sbalzare la carica teatrale di un siffatto capolavoro. Qui invece gli attacchi spesso son sporchi, le strette si vivono con un po’ di tensione, talvolta ai cantanti sembra mancare spazio di manovra per scolpire una frase. Al netto poi di qualche opinabile cambio di tempo – nell’introduzione alla cavatina di Almaviva, ad esempio, la presentazione del tema con sestine affidato ai fiati è staccato al doppio del tempo del Largo d’apertura – o scelta dinamica – la lunga smorzatura sull’accordo che chiude la coda orchestrale dell’aria di Rosina –, che alla prova del palcoscenico sembrano assecondare un’estetica più che una drammaturgia, della direzione di Rivani si apprezzano comunque i preziosismi strumentali evidenziati in momenti come l’aria di Bartoli o quello del temporale.
Affiatato e ben amalgamato il cast, in gran parte composto dai vincitori del 71° Concorso AsLiCo per Giovani Cantanti Lirici. Su tutti s’impone Chiara Tirotta con la sua Rosina pepatissima, indisponente, volita, assolutamente degna della cattedra di malizia all’università della vita. Dotata di uno strumento di bel colore, dall’emissione morbida, Tirotta gestisce con furbizia gli affondi al grave, svetta baldanzosa in acuto, piroetta con destrezza tra i passaggi di coloratura, brilla dove la commedia incalza e mostra una liricità tutt’altro che scontata quando il testo lo richiede – peccato che «Contro un cor» sia proprio uno degli esempi in cui si ha la sensazione che la direzione limiti l’espressività canto –. Matteo Roma su Rossini si sta facendo le ossa e nel ruolo del Conte d’Almaviva sfoggia tutti i frutti di una voce istruita secondo i principi del belcanto: omogeneità tra i registri, una linea sempre elegante e sorvegliata, attenzione alle smorzature – molto bella la messa di voce nella ripresa della serenata - anche laddove la scrittura vibra per la domanda virtuosistica, puntualmente soddisfatta con precisione e carattere – Roma non si risparmia in variazioni o in puntature, rotonde e squillanti –. C’è solo un problema in questo Conte, l’aria finale espunta. Di questo taglio ci lamentiamo una recensione no e mille sì perché, purtroppo, è ancora prassi comune e incomprensibilmente ben accolta. Almaviva non è il principe azzurro Ramiro né quella palla al piede di Lindoro e senza l’autorevolezza della sua figura e del suo portafogli la commedia non addiverrebbe a risoluzione alcuna – le trovate di Figaro sono tutte buchi nell’acqua –. Eliminare l’aria, e il recitativo che la precede, significa sottrarre terreno a un ruolo creato non per un tenore di grazia ma per Manuel Garcia, significa relegarlo nel girone degli amorosi a cui appartiene solo in parte, significa non onorare il valore della Rossini Renaissance a cui pur si fa riferimento – invano – nel programma di sala.
Torniamo ai cantanti. Gianni Luca Giuga si fa notare per l’ottima tenuta del palcoscenico – la recitazione è naturalissima e garbata – e per una voce dal timbro caldo e avvolgente con cui modella un Figaro magnetico e misurato, dal fraseggio vario e istrionico, dalle agilità risolte con piglio – trascurabile un’impercettibile défaillance nel duetto con Rosina –. Con Bartolo c’è un pasticcio: Diego Savini, indisposto, rimane sulla scena a impersonare il tutore – dell’aria finale di Almaviva si può fare a meno, delle gag no – ma la voce è di Enrico Maria Marabelli, che canta dalla barcaccia. E canta molto bene, con voce piena, corposa, tecnicamente atletica – onore a lui per i sillabati da tachicardia –, animando così un Bartolo arcigno e mai caricaturale. Ottima pure l’attenzione rivolta al testo, tant’è che i recitativi meglio riusciti sono i suoi. Alberto Comes, nei panni di Don Basilio, sfodera uno strumento possente, ricco, suadente che gli permette di affrontare l’aria della calunnia senza forzature. Completano il cast Tiberia Monica Naghi (Berta), Pierpaolo Martella (Fiorella), Pietro Miedico (Ufficiale) e l’attore Federico Pinna (Ambrogio). Molto valida la prova del Coro OperaLombardia istruito dal maestro Massimo Fiocchi Malaspina.