Complicità, il tuo nome è donna
di Lorenzo Cannistrà
Torna alla Scala Susanna Mällki, una delle direttrici più talentuose dell’attuale panorama mondiale, in un eterogeneo programma comprendente la Serenade op. 7 di Strauss, Ma mère l’oye di Ravel e la Sinfonia n. 1 op. 21 di Beethoven
Streaming da Milano, 23 aprile 2021 - Il ritorno di Susanna Mälkki alla Scala è un evento denso di significati. Non è solo l’occasione di riascoltare un talento della bacchetta, la prima donna a dirigere al Piermarini (ha debuttato nel 2011), una direttrice apprezzata in tutto il mondo, ma coincide anche con una presa di posizione forte da parte del top management dell’Ente Lirico. É proprio di questi giorni infatti l’annuncio del sovrintendente Meyer circa l’adozione di un codice di comportamento a tutela della dignità delle lavoratrici, una misura quanto mai opportuna, considerato che, piaccia o no, i tempi non sono ancora del tutto maturi per accettare che una donna possa legittimamente affermarsi in ruoli di primo piano, se non di direzione.
Gli esempi di tale “immaturità” purtroppo non mancano. Tempo fa ho dovuto assistere, principalmente sui social, ad una ignobile gragnuola di insulti (dall’ironia più o meno pesante alla vera e propria shitstorm) cui è stata vittima la violinista Laura Marzadori, primo violino di spalla dell’Orchestra del Teatro alla Scala, a causa di un banale ed umanissimo lapsus musicale durante una trasmissione televisiva. Episodio davvero incomprensibile se pensiamo all’indiscusso e cristallino talento della Marzadori; e dubito fortemente che questa gogna sarebbe stata riservata con tanta veemenza anche ad un suo collega di sesso maschile.
Ancora, di recente sui principali organi di informazione ha campeggiato una stucchevole polemica terminologica innescata al Festival di Sanremo dalla direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, che preferisce essere chiamata “direttore”, nonostante le inequivocabili sembianze femminili. Tediosaquerelle non solo per l’evidente errore grammaticale, ma anche perchè afferma ancora una volta una resistenza quasi ideologica ad utilizzare la desinenza femminile, come se essa rappresentasse, in questo caso, un minus rispetto al maschile. Si badi bene, parlo di resistenza quasi ideologica, giacchè tale atteggiamento è in realtà spesso il frutto di un semplice pregiudizio, di un’inveterata abitudine, o, per usare le parole della scrittrice Vera Gheno, di “un riflesso pavloviano, non del tutto cosciente, che quasi non passa dal giudizio raziocinante”. Si tratta quasi dello stesso paradosso linguistico che ci fa invece sorridere nell’esilarante commedia Harry ti presento Sally,in cui un cinico Billy Crystal, convinto che uomini e donne non possano essere amici, deve poi ammettere che con Meg Ryan sta nascendo proprio quel tipo di sentimento, finendo per esclamare: “fantastico! un amico donna!”.
Sono consapevole che si tratta, ahimè, di un argomento piuttosto scivoloso, capace anche di innescare vistosi effetti di segno contrario. A farne le spese, qualche mese fa, è stato Giangiorgio Satragni, autorevole critico musicale de La Stampa (non certo quindi l’ultimo arrivato), che è stato tacciato di bieco sessismo da parte di una certa pseudo-intellighènzia per aver scritto che la direttrice d’orchestra Joanna Mallwitz dirige esattamente come un uomo e l’ascoltatore non percepisce la differenza. Per la verità (ma è solo il mio debol parere) rileggendo l’articolo senza malizia si avverte chiaramente che l’autore vuole dire esattamente il contrario di quanto viene invece attribuito con protervia al suo pensiero. Tuttavia non è questo il punto. L’isteria, lo sdegno, l’orgoglio ferito di tante superficiali progressiste di facciata ci dice che la suscettibilità sull’argomento è a livelli elevatissimi. Eppure tale permalosità non è del tutto pretestuosa: non di rado capita ancora di sentire persone, anche di cultura elevata, affermare che "sì, ok, brave queste donne, però tutto sommato dirigere non è cosa per loro". Un po’ ciò che maliziosamente si è sempre detto, sorridendo sotto i baffi, delle donne al volante….
Tutto ciò è inaccettabile, e mortifica già il semplice buon senso. Per fortuna, una volta sgombrato il campo da defatiganti polemiche, la parola resta alla musica, e su questo Susanna Mälkki mette (o dovrebbe mettere) tutti d’accordo.
La direttrice finlandese ha una solida formazione come violoncellista, vincitrice in importanti concorsi da solista e pluriennale esperienza in orchestre prestigiose; alla direzione d’orchestra è approdata non prestissimo, ma con una tenacia che l’ha portata, nel giro di pochi anni, alla testa dei più prestigiosi complessi orchestrali del mondo.
Susanna Mälkki ha un gesto naturale, ampio, che disegna la musica nell’aria come se la bacchetta potesse emettere anch’essa un suono. Avanza ed indietreggia continuamente sul podio, mantiene un contatto continuo con i musiscisti, quasi a voler suonare con loro. Ciò che colpisce maggiormente nel suo approccio è infatti proprio questa evidente intesa e complicità con i professori d’orchestra, pronti ad assecondare - all’impronta - il suo mobilissimo gesto.
Il risultato è indubbiamente di notevole bellezza.
La Serenade op. 7, opera giovanile (ma già perfetta) di Richard Strauss, è affrontata rispettando alla lettera l’indicazione Andante, senza scossoni o improvvide accelerazioni. Emerge tutto il voluto gusto classico che nell’ispirazione del compositore ha radici lontane, in Mozart ma anche in Mendelssohn (molto ammirato da Strauss nei suoi anni giovanili).
A seguire, la celebre suite orchestrale Ma mère l’oye viene eseguita senza l’introduzione e gli interludi scritti più tardi da Ravel, e sinceramente me ne rammarico perchè si tratta di pezzi di grande bellezza ed efficacemente integrati nell’opera. La Mällki riesce a conferire alla Pavane un carattere concentrato e un’astrazione dalla realtà davvero incantevoli (superbi gli attacchi dei violini, il cui suono sembra scaturire dal pensiero e non dalla materia). Meno convincente Petit Poucet, dove troviamo ben marcato l’incedere dei fratellini, ma non altrettanto ben caratterizzato il loro smarrimento. Sorprendente invece Laideronnette, attaccata ad un tempo assai ragionevole, e ciò diventa per la Mälkki l’occasione per esaltare le caratteristiche esotiche del brano, andando ben oltre le solite esecuzioni fin troppo uniformi e superficiali nell’evocazione delle sonorità orientali. Da riascoltare anche Les Entretiens de la Belle et la Bête, con la Bella leggera e civettuola, e la Bestia, affidata al raro controfagotto (ma lo troviamo anche nella Serenata di Strauss), forse poco sinistra nella sua entrata, ma adeguatamente pesante e orrida. Rimarchevole la bellezza dell’a solo che immortala la trasformazione della Bestia in principe, eseguito stupendamente dalla Marzadori (che replicherà di lì a poco in Le jardin féerique).
Infine, la Prima Sinfonia di Beethoven è frizzante, mobilissima (in particolar modo lo scatenato Minuetto). La Mälkki è attenta a conferire nerbo alle numerosissime sincopi (tanto amate da Beethoven) e all’umorismo mutuato da “papà” Haydn. Tutta la Sinfonia è pervasa, sotto il gesto della finlandese, da un vitalismo gioioso, mai pesante o isterico.
L’unico appunto che mi sento di fare alla magnifica serata scaligera riguarda la scarsità di inquadrature frontali della Mälkki, specialmente durante l’esecuzione di Ravel e Beethoven. Probabilmente vi è stata una ragione tecnica, ma di certo sarebbe stato interessante intercettare sul volto della direttrice la testimonianza del suo felice affiatamento con l’orchestra.
In conclusione, ciò che mi ha lasciato contento di questo concerto, impaginato con brani apparentemente senza alcun legame tra loro, è che non è stato inflitto neanche un minuto di noia al pubblico virtuale. La musica è filata via con una facilità e un incanto davvero disarmanti. Mi piacerebbe dire che tutto questo è stato opera del proverbiale tocco femminile, ma mi taccio: alle orecchie di qualcuno potrebbe suonare come insopportabilmente maschilista.