L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Cenerentola, ieri

di Antonino Trotta

La Cenerentola di Rossini inaugura la stagione d’opera 2022 del Teatro Coccia di Novara: se il nuovo, tradizionalissimo allestimento affidato a Teresa Gargano lascia piuttosto indifferenti, la concertazione di Antonino Fogliani entusiasma per slancio e brio; tra nuove leve e vecchie glorie, ben si amalgama il cast.

Novara, 20 gennaio 2022 – Tornare nella sala del Coccia, messa a nuovo, dopo due anni dall’ultima visita è ragione di sincera emozione: qui dove l’attività non s’è mai fermata, anzi, qui dove la pandemia s’è affrontata quasi con spirito pioneristico – si pensi ad Alienati, la prima opera in smart working, si pensi alle tante nuove commissioni, spesso bellissime come Cassandra, in te dormiva un sogno di Marco Podda–, le stagioni cominciano a riprendere il proprio corso e i titoli di repertorio – o meglio, di gente morta – a ritornare in cartellone, pur conservando, almeno nella programmazione, quell’occhio di riguardo alla contemporaneità che per il virtuoso teatro di tradizione piemontese è motivo di vanto. Così, in apertura della breve stagione d’opera 2022, s’è optato per un nuovo allestimento di La Cenerentola, tra i massimi capolavori del genere e fonte di richiamo per un pubblico numeroso e insolitamente giovanile.

Introdurre ora lo spettacolo, dopo aver lodato lo spirito di iniziativa e di modernità del Teatro Coccia, ci pone leggermente in imbarazzo perché la regia firmato da Teresa Gergano è quanto di più lontano possibile da esso. Nonostante Gergano, va detto, dosi con equilibro le energie sul palcoscenico, prestando tanta attenzione all’aspetto comico quanto a quello romantico e facendo sì che nessuno dei due prevalga sull’altro – in soldoni, Rossini buffo senza gag a ripetizioni è già un trionfo –, con tele dipinte bellissime – Sormani-Cardaropoli SRL –, costumi fiabeschi – Arrigo Costumi – e belle statuine in proscenio, l’effetto museo è praticamente inevitabile. Curioso come la direttrice Corinne Baroni, nella piacevole introduzione allo spettacolo, si interroghi su chi sia Cenerentola oggi: a fine serata sapremo solo chi era Cenerentola cent’anni fa.

Se lo spettacolo ci lascia abbastanza indifferenti, la direzione di Antonino Fogliani sortisce effetti decisamente diversi. L’Orchestra Filarmonica Italiana sa fare il suo mestiere, ma non sono certo i Berliner; il solo fatto che a recita conclusa si rimane felicemente colpiti dal lavorìo sul suono dei complessi, dalla cura con cui il dettaglio più recondito in partitura è reso, dall’equilibrio instaurato tra le sezioni, dalla ricchezza di timbri e colori sfoggiati, dalla millimetrica precisione dei crescendo, è sufficiente a qualificare il lavoro del maestro. Sul podio Fogliani non legge Cenerentola, la racconta, la racconta con toni e accenti sempre interessanti, rivolgendo premure a ciascuna sfaccettatura della commedia romantica: si ascolta così l’orchestra fremere nei momenti di gioia godereccia senza vedere nessuno scapicollarsi sul palcoscenico; la si sente sospirare là dove il canto si apre in squarci di tenera affettuosità – magnifico il duetto Angelina-Ramiro –, pur garantendo costante mordente alla concertazione; si ascolta insomma Rossini valorizzato al massimo nelle sue immense risorse espressive.

Il cast, tra vecchie glorie e nuove leve, è nel complesso molto ben amalgamato. Mara Gaudenzi, nel ruolo del titolo, fa tutto quel che s’ha da fare per portare in scena un’Angelina toccante e credibile: canta con freschezza di timbro e vivacità d’accento, non sottovaluta mai colori e dinamiche, affronta i passaggi di agilità, pur non funambolici, con sicurezza e pertinenza di stile. Il Don Ramiro di Chuan Wang è una bella scoperta e si fa apprezzare per qualità che vanno ben oltre l’elettrizzante baldanza di acuti e variazioni nella temibile aria. Wang ha dalla sua una tecnica solidissima che gli agevola un canto controllato, proiettato, elegante nelle belle arcate legate, dolce nelle morbide mezze voci con cui nobilita la parte, dando così voce sia al principe azzurro che all’eroe. Emmanuel Franco è scoppiettante, padrone della scena senza mai accedere nella recitazione, impeccabile. Nel canto spianato sfodera volume a palate, in quello di coloratura, ben articolato, preferisce il fior di labbro, ma nel complesso il suo Dandini non perde mai né incisività né efficacia. Francesco Leone è un Alidoro con tanto margine di miglioramento. In luogo dell’impervia aria si è persino ripristinata quella composta da Luca Agolini, «Vasto teatro è il mondo», che per bruttezza e incongruenza di stile – sembra sottratta a Le nozze di Figaro – trova la sua unica ragione d’esistere nell’agio donato al basso. Più comprensibile è invece il ripristino, all’inizio del secondo atto, di «Ah! Della bella incognita», il coro con cui i cavalieri irridono Don Magnifico, che sospettoso nota lo scherno nel recitativo da cui solitamente si fa partire la seconda parte. Al debutto nel ruolo, Simone Alberghini porta in scena un Don Magnifico burbero e acidello, misuratissimo sulle scene e statuario nel canto che conosce tutti i segreti dello stile rossiniano. Completano correttamente il cast Caterina Dellaere e Maria Eleonora Caminada, rispettivamente Tisbe e Clorinda. Discreta la prova del Coso Colsper, istruito dal maestro Francesca Tosi.

La bella serata si chiude tra gli applausi e il calore del pubblico numerosamente accorso.


 

 

 
 
 

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