Ritorno alle origini
di Roberta Pedrotti
Il primo vero Festival Toscanini si apre con l'interessantissimo recupero della prima stesura delle Villi (anzi, Le Willis) di Puccini. Ma il cartellone presenta anche piacevoli sorprese e divagazioni, come la serata dedicata al Cabaret degli anni '20 e '30 in trasferta a Reggio Emilia.
PARMA 5 giugno e Reggio Emilia 6 giugno 2022 - Dopo un numero zero sperimentato nel 2021, sotto la spada di Damocle di chiusure e restrizioni, il Festival Toscanini apre ufficialmente la sua prima edizione. A un paio di settimane dalla rassegna farnesiana tutta dedita al barocco [Parma, Settimane musicali farnesiane, 20-29/05/2022], ora ci immergiamo nell'ambiente in cui visse il maestro eponimo, fra Otto e Novecento, con uno sguardo esteso al di là dei fatti strettamente sinfonici e operistici. D'altra parte, scelta azzeccatissima, il direttore musicale del Festival è Omer Meir Wellber: bacchetta, sì, ma anche penna e cervello, artista e intellettuale vero, oltre che vero e completo uomo di spettacolo capace anche si suonare, cantare, intrattenere e raccontare.
L'apertura è di quelle che lasciano il segno, perché si dà la prima versione delle Villi, anzi: Le Willis com'era il titolo iniziale. Una primizia assoluta in Italia, dove praticamente non si era mai ascoltata dalla prima assoluta, il cui successo spinse Ricordi a sollecitare un ampliamento in due atti per garantire una migliore circolazione del titolo. In effetti, Le Villi come noi le conosciamo – ammesso e non concesso che si conosca davvero quest'opera – hanno il vantaggio di una drammaturgia meno ellittica e di arie (su tutte “Se come voi piccina” del soprano) d'immediato impatto. Tuttavia, l'originalità, la forza del debutto teatrale di Puccini stava anche nell'estrema sintesi di un libretto che non spiega quasi nulla: Fontana non era né Boito né Illica e Giacosa, il fallimento di Edgar lo dimostrerà ben presto, tuttavia è interessante notare come la zoppicante scapigliatura del testo offra al giovane toscano il modo per una sperimentazione formale gestita con notevole maturità. Le parole dicono poco? Sappiamo appena appena che Roberto e Anna si amano e lui parte, poi il padre di lei ci informa che la fanciulla è morta d'amore, che esiste la leggenda delle Willis, spiriti di giovani tradite pronte a vendicarsi, e le invoca come tramite della giustizia divina che prontamente piomba sul fedifrago. Il canovaccio diventa allora l'intelaiatura di un poema sinfonico che ha il suo cardine proprio nell'intermezzo scandito in due movimenti, la Nebulosa e la Tregenda. Non male per un autore che si diceva nato per il teatro e che la vulgata ha tramandato come fucina di melodie strappalacrime. In realtà, il teatro c'è eccome, ma in una veste sperimentale, vivida, che si abbevera dell'ultimo Verdi (e pure di Boito), che conosce bene le féerie di Mendelssohn e tutti i filoni fantastici nordici, che individua la melodia portante che si imprime nella memoria (“Ah! dubita di Dio, ma non dell'amor mio”), ma ne fa tema strutturale, Leitmotiv, attore vero e proprio, non certo facile appiglio per sospiri melomani. Wellber giustamente prende di petto la partitura impetuosa e ne evidenzia l'irruente sinfonismo teatrale. La Nebulosa appare straniata, fra il trasognato e il livido, è mal d'amore ma non è mieloso struggimento, bensì un sentimento che si fa cosmico e trascende il dolore della piccola montanara in una dimensione sovrannaturale, senza tuttavia che le tinte ne risultino artificiosamente caricate. Così l'energia si condensa nella violenza della Tregenda, con quel moto danzante che sa di sabba boitiano, spirale grottesca e spietata in cui un determinatissimo Wellber coinvolge la Filarmonica Toscanini. Da questo fulcro a contrasto, yin e yang, poi si irradia tutta la lettura: i cori dei montanari hanno già qualcosa di sinistro e rustico, le Willis sono inquietanti, così diafane e taglienti; la preghiera ha un respiro solenne e pacato, ma anche così ampio da segnare il presagio di una prossima rovina, come del resto il duetto degli amanti, agile e privo di fronzoli, e soprattutto il precipitoso finale, in cui in poche battute si lascia intendere come la fine di Roberto e la vendetta di Anna fossero già tutte nella Tregenda e ora non serva che un colpo di coda. Difatti, gli applausi sono tanti, prolungati, entusiasti per tutti e non senza ragione: se abbiamo detto che la concertazione di Wellber è l'anima della riscoperta, l'orchestra e il coro (la Camerata musicale di Parma preparata da Martino Faggiani) sono perfettamente all'altezza dell'importanza che Puccini conferisce loro. Selene Zanetti, poi, presta ad Anna una voce morbida quanto autorevole, senza mai cadere nel cliché della candida e spaurita verginella mutata in furiosa Erinni. Kang Wang è un Roberto solido e un po' ruvido, come si confà a questo effimero traditore che vediamo un istante giurare eterna fede e un istante dopo pagare il fio dell'abbandono. Vladimir Stoyanov si beve come un bicchiere d'acqua quello che si presenta a tutti gli effetti come un padre verdiano firmato da Puccini, un Rigoletto o Miller che invece di agire in prima persona affida alle forze sovrannaturali. A proposito di sovrannaturale, e quindi di apparizioni e immagini, c'è in realtà anche un abbozzo teatrale in questa ripresa, a cura di Filippo Ferraresi con elementi scenici di Guido Buganza. I movimenti dei solisti sono essenziali ed efficaci, pochi tratti delineano da subito la forte femminilità di Anna, la schiera delle Willis come donne di oggi è ben caratterizzata, anche se le azioni (parate di immagini sacre, ostensione di palindromi) risultano talora superflue.
Abbiamo detto che Ricordi sollecitò l'estensione dell'opera, che in effetti è brevissima e da sola non fa proprio serata, come si suol dire, tant'è vero che le si fa precedere in questo caso il Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra di Ravel. Un'idea intrigante, perché la propulsione ritmica, l'inventiva strumentale che sfocia in effetti quasi surreali sembra un'altra faccia della medaglia rispetto alla sinistra energia scatenata intorno alla Tregenda. Wellber dà, in effetti, l'idea di divertirsi molto giocando con swing e rubati, sebbene l'acustica del Paganini penalizzi un po' la brillantezza dell'orchestra e forse anche del solista, Daniel Ciobanu. Questi è senz'altro scioltissimo nel virtuosismo di matrice jazzistica, ma se non cerca una lettura classica del concerto, nemmeno abbaglia con un pizzico di follia in più che scompigli le carte. Tutto file liscio, ma il piatto forte della serata resta Puccini, senza dubbio.
La prima opera scritta dal Lucchese è, nella stesura in due atti, anche la prima che Arturo Toscanini si troverà ad affrontare, a Brescia. Da qui, sappiamo, il rapporto fra i due sarà stretto ma anche difficile, arriverà alla prima postuma di Turandot, passando attraverso tensioni e dissidi. Della prima fase delle rispettive carriere, del clima in cui Arturo e Giacomo si formano ed esordiscono, della Scapigliatura e della famiglia Ricordi si parlerà il giorno dopo la prima, in un convegno realizzato in collaborazione con il Centro Studi Giacomo Puccini di Lucca, due sessioni moderate da Michele Girardi ed Emanuele Senici.
Inaugurazione istituzionale, incontro accademico, ma anche, sempre il 6 giugno, la serata che non ti aspetti. O forse sì, conoscendo l'estro di Omer Meir Wellber, che ci conduce nel mondo del cabaret degli anni 20 e 30, presenta con la sua irresistibile spontaneità, insieme con un quartetto d'archi anche teatralmente complice (Mihaela Costea e Viktoria Borissova, violini, Behrang Rassekh, viola, e Pietro Nappi, violoncello) accompagna al pianoforte con pari ironica disinvoltura il soprano Hila Baggio (ricordiamo, in tema, la recensione del suo CD, The Yiddish Cabaret) in un florilegio di canzoni della tradizione yiddish, per lo più storie di ladri e prostitute (non si vive di soli Brecht e Weill), mentre Ernesto Tomasini esplora il repertorio in cui, un secolo fa da un lato all'altro dell'Atlantico, si cantava di fluidità di genere, uomini effemminati, donne mascoline, libertà e travestimento. È la prima volta che si fa musica al Reggiane Parco Innovazione, ma la struttura industriale riqualificata in suggestivo spazio aperto, sembra fatta apposta per eventi come questo. Perfino il treno che passa poco distante si integra con lo spirito ironico e sovversivo del Cabaret che dà il titolo alla serata. Il pubblico è a dir poco entusiasta e ne ha tutte le ragioni. Però, una cosa ci manca: Wellber è fisarmonicista e nella prima locandina era annunciato anche l'accordion. Ciò significa che si impone un bis, bisogna continuare a esplorare questo repertorio e a dare spazio alle idee del maestro: vogliamo ancora Cabaret, aspettiamo anche la fisarmonica!