L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le ombre e i veli

di Roberta Pedrotti

Nel Ticino si festeggia il ritorno dell'opera con La traviata, che debutta al Lac (il centro Lugano Arte Cultura dotato di una bella sala teatrale) fra calorosi consensi di pubblico. Convincono nel complesso il cast e la regia stilizzata quanto ricca di spunti di Carmelo Rifici.

LUGANO, 8 settembre 2022 - Lugano, in fondo, è dietro l'angolo: mezz'ora di treno da Como, un'oretta da Milano, la parlata – fatto salvo il diffuso bilinguismo Schweizerdeutsch – ha uno spaccato accento lombardo nordoccidentale. Eppure, venire all'opera qui ha un ché di esotico anche per gli stessi ticinesi, dato che di blasonati e attivi teatri ce ne sono parecchi a breve distanza, che le stagioni strumentali, fra Lugano Musica e Orchestra della Svizzera Italiana, sono ricche e stuzzicanti, ma che il melodramma, viceversa, ha messo radici da pochissimo: un Barbiere di Siviglia nel 2018 [leggi la recensione:Lugano, Il barbiere di Siviglia, 05/09/2018], poi la pandemia a scompigliare le carte e La traviata posticipata fino all'atteso debutto di questo settembre. Ora, non ci resta che auspicare che i prossimi piani si realizzino e che l'appuntamento con l'opera sia sempre più familiare nella sala del Lac.

Sala, peraltro, bella, semplice, funzionale, con un'ottima acustica, collocata in una struttura polifunzionale con bistrot, libreria e spazi espositivi. Così, prima dello spettacolo, vale anche la pena di fare un giro al MASI, il Museo d'Arte della Svizzera Italiana. Le collezione stabile offre una bella panoramica sulla pittura legata al Ticino: artisti locali o di passaggio, molti paesaggi e qualche sorpresa non banale. In questi giorni, poi, c'è anche l'occasione di esplorare i disegni e le incisioni di Paul Klee raccolti da Sylvie e Jorge Helft, un viaggio non solo alla ricerca dell'essenzialità primigenia del segno, ma, con essa, anche della più pura fantasia, dello spirito infantile e giocoso, di un pizzico di eros spontaneo e innocente o di fascinazione per la musica, il racconto, la danza, il teatro. Oppure, si possono trovare esposte le “placche” plastiche di Marcel Broodthaers, definite come poesia industriale, riflessione su unicità e riproducibilità, sull'essenza dell'arte nella società e nei suoi meccanismi.

E poi, la sera, c'è La traviata. Una delle opere più eseguite al mondo che al Lac viene eseguita per la prima volta. Un brivido straniante per uno spettacolo che ha meritato una folta partecipazione di pubblico e un calorosissimo successo ben distribuito per tutti gli artefici.

Come direttore artistico del Lac, Carmelo Rifici ha fatto e sta facendo senz'altro un ottimo lavoro e altrettanto si può dire come regista della Traviata, che legge con chiarezza drammaturgica e opportuni piccoli riferimenti alla vera Alphonsine Plessis e al romanzo di Dumas (Violetta si siede al piano, e sappiamo che Alphonsine era a sua volta discreta pianista; in casa di Flora si riconosce Olympe, la cortigiana con cui Armand Duval cerca di dimenticare Marguerite Gauthier). Tuttavia, è la musica posta al centro dell'attenzione e simboleggiata da un Giuseppe Verdi riconoscibile nella classica icona canuta e barbuta, né importa allo scopo che ai tempi della stesura della Traviata fosse semmai un baldo quarantenne. Rifici si avvale dei costumi di Margherita Baldoni e delle scene di Guido Buganza, il cui tratto elegante ed essenziale costituisce la cifra di uno spettacolo in cui elementi ottocenteschi, novecenteschi e contemporanei si compenetrano, i riferimenti e i piani di lettura sono molteplici (compreso il richiamo alla purezza dell'infanzia con giochi d'ombre e proiezioni), ma non c'è mai la sensazione di troppa carne al fuoco, di esagerazione o confusione. Questo grazie alla chiarezza dell'azione e alla definizione di un'estetica che ha il suo culmine nel bel labirinto di veli del terzo atto, davvero riuscito e suggestivo. Semmai, si potrà notare che, rispetto alla misura recitativa del resto del cast, talvolta la Violetta di Myrtò Papatanasiu calchi un po' la mano, anche con qualche parlato, riso o pianto oggi ci pare di troppo. Ma è evidente che, da un lato, questa linea interpretativa sia sostenuta dalla bacchetta decisamente a tinte forti di Markus Poschner, dall'altro corrisponda alle caratteristiche del soprano, che, pur venendo dal Belcanto, ha in sé, nel colore di voce e nell'articolazione della parola, una sorta di malinconia decadente, di velo crepuscolare, di stanchezza interiore che sembra rinnovare in termini contemporanei la tradizione delle Violette naturaliste.

Certo, non tutto appare facile nella scansione impressa da Poschner, che non solo ama gli estremi dinamici e una certa qual presenza tellurica del suono (saranno le sue affinità bruckneriane?), ma anche l'esasperazione di certi rubati e ritenuti, di certe sospensioni che non sempre sembrano respirare naturalmente con i cantanti quanto con l'Orchestra della Svizzera Italiana, di cui è direttore principale e che lo segue benissimo, con una prova d'indubbia qualità. Al di là delle scelte in termini di peso sonoro e articolazione del fraseggio, lascia un po' perplessi la concezione frammentaria perfino dei singoli numeri, con pause imposte là dove potrebbero arrivare gli applausi (che effettivamente arrivano, ma meglio sarebbe in un discorso più compatto); se, poi, si annuncia in locandina l'edizione critica di Fabrizio Della Seta, sarebbe anche gradita un'intenzione di integralità: passi per la ripresa dell'ostica cabaletta di Alfredo o di quella di Germont, ma dispiace vedere ancora cadere la seconda strofa di “Ah, fors'è lui” e gli interventi finali sulla morte di Violetta. Torna alla mente il dialogo – buffo nelle intenzioni, ma a conti fatti serissimo – dal film Mi permette babbo? in cui Rodolfo / Alberto Sordi protesta che quelle frasi Verdi le ha scritte e gli viene risposto che vanno tagliate “perché si fa sempre così”. Forse val la pena, giacché edizione critica non significa solo che il Marchese canti “diancin” invece di “diamin”, non cedere all'abitudine, tanto più che con le sue scansioni di tempi e metri Poschner sembra tutto tranne che un abitudinario.

Abbiamo citato Alfredo e suo padre per via delle loro cabalette, ora li ricodiamo anche per la bontà del canto: Airam Hernandez sembra all'inizio solo una gran voce più esibita che domata, ma via via che l'opera procede, e soprattutto dal secondo atto, il suo canto si fa più raffinato e mette in luce, con la qualità e la pienezza del timbro, un notevole potenziale e una buona propensione espressiva. Giovanni Meoni è un Germont collaudatissimo, dal canto forbito e dall'espressione compunta nel suo rigore borghese, capace di dare il giusto peso e il giusto ritegno al pentimento finale.

Ben assortito anche il resto del cast, con Sofia Tumanyan (Flora), Michela Petrino (Annina), Lorenzo Izzo (Gastone), Davide Fersini (Marchese), Laurence Meikle (Barone), Mattia Denti (Dottor Grenvil), Luca Dordolo (Giuseppe), Yiannis Vassilakis (domestico di Flora) e Marco Scavazza (commissionario), cui si unisce il Coro della radiotelevisione svizzera preparato da Andrea Marchiol. Con loro citiamo ancora il coreografo Alessio Maria Romano e tutti i tersicorei, le luci di Alessandro Verazzi, le ombre di TeatroGiocoVita e tutti coloro che, con precisione elvetica, giustamente enumera il dettagliatissimo programma di sala. E dato che il programma è così ricco di informazioni, ci sia concesso un appunto a una svista: i due celebri preludi erano già presenti nella prima versione della Traviata (1853) e Verdi non compose alcuna ouverture tradizionale per quest'opera.

Fuori dal Lac un violinista di strada accoglie il pubblico, il lago brilla sotto le luci della sera, la brezza è piacevole. Vien voglia di tornare.


 

 

 
 
 

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