L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sempre libera... e bella

di Irina Sorokina

Torna all'Arena La traviata nell'allestimento postumo di Franco Zeffirelli. Convincono soprattutto le prove di Lisette Oropesa, Luca Salsi e Andrea Battistoni.

Verona, 14 luglio 2023 - “Esistono avvicinamenti strani”, diceva il sommo poeta russo Aleksandr Puškin: una frase che possa essere usata in molte occasioni e forse è adatta al caso della Traviata areniana. Un anno fa o, per essere precisi, esattamente un anno meno un giorno fa, il 15 luglio 2022, eravamo ad ascoltare La traviata verdiana e ieri, 14 luglio 2023, ci siamo trovati sui gradini roventi dell’anfiteatro veronese (a dir il vero, sulle poltroncine più comode riservate ai giornalisti) ad ascoltarla ancora. Non invecchia mai, La traviata, e nonostante qualche dubbio che suscita questa messa in scena, il piacere tratto dal suo ascolto arriva sempre.

“Sempre libera”: si può scommettere quasi che le parole iniziali della cabaletta di Violetta che conclude il primo atto della Traviata le conoscano in molti, non solo i devoti all’opera lirica. Le statistiche affermano che, dopo la Carmen di Bizet, il capolavoro verdiano sia la seconda opera più popolare al mondo. La memoria dell’autrice che proviene dall’Unione Sovietica e dei melomani del paese più grande del mondo contiene i ricordi delle Traviate cantate in ucraino, estone e alcune lingue delle repubbliche socialiste sovietiche dell’Asia Centrale: fatto che al melomane europeo potrebbe apparire non solo curioso ma anche eretico. La bellezza musicale e la forza comunicativa dell’opera di Verdi sono irresistibili e non c’è da stupirsi del fatto che il grande regista fiorentino Franco Zeffirelli si sia rivolto più volte alla storia di Violetta, vi abbia lavorato in diverse occasioni in teatro e ne trasse un film con veri divi nei ruoli dei protagonisti – la Stratas, Domingo, MacNeil – che all’epoca ottenne un grande e meritato successo.

Con La traviata concluse il suo cammino terreno: lavorò fino all’ultimo respiro alla versione “definitiva”, come la chiamava, destinata al grandioso palcoscenico dell’Arena di Verona. Non vide la première; la morte lo colse qualche giorno prima. Una marea d’inchiostro fu spesa per descrivere la sua Traviata postuma, che raccolse la lunghissima esperienza nel mettere in scena un’opera tanto amata dal pubblico, che già nell’Ottocento entrò nel repertorio degli organetti a manovella. Se ci furono attese di qualcosa di straordinario, non furono soddisfatte e sull’enorme e tanto impegnativo palcoscenico areniano avevamo visto un solito “panettone”, simpaticamente parlando, zeffirelliano: scenografie lussuose e dettagliate, molto affollamento in scena, scelte registiche banalissime come il corteo funebre di Violetta con sottofondo il liricissimo Preludio, e addirittura una generosa caduta dei lustrini alla fine delle danze al ballo in casa di Flora. I costumi hanno portato la firma di Maurizio Millenotti e le luci quella di Paolo Mazzon.

A distanza di quattro anni dalla prima tutto è stato detto e scritto ormai dell’operato del regista fiorentino che con un coraggio da leone si oppose alla modernizzazione del teatro d’opera, andando decisamente controcorrente. Ora gli animi si sono placati e si può assistere alle sue mega produzioni senza la voglia di polemizzare e con un sorriso bonario e un po’ nostalgico: appartengono alla storia ormai e come tali vengono prese.

La seconda recita della Traviata areniana ha presentato un ottimo cast capitanato dal soprano americano Lisette Oropesa che aveva già fatto il suo debutto trionfale nell’opera verdiana riscuotendo un successo folgorante: non c’era alcun dubbio che lo avrebbe confermato. Sarebbe banale se non noioso descrivere le sue doti di cantante e attrice; Oropesa è nata per interpretare il mitico ruolo e “condannata” a portare il pubblico ad un felice delirio: e così è stato ieri sera. Il fisico perfetto per Violetta, la naturalezza disarmante d’attrice, la voce dal vibrato caratteristico ma ben timbrata e dotata di una lucentezza particolare, la tecnica impeccabile hanno riscosso un grande successo; numerose chiamate a scena aperta e espressioni infinite d’ammirazione per lo stupefacente soprano statunitense.

Come la protagonista della serata, anche Vittorio Grigolo è specializzato nel ruolo che gli è affidato: la presenza scenica è indiscussa, la voce è notevole e ben calda e il personaggio di Alfredo è risultato vivo e coinvolgente. Il tenore come il suo solito, è risultato un po’ “galletto”, detto con simpatia, e ha peccato di un’eccessiva spavalderia come attore e di una mancanza di omogeneità ed equilibrio nella linea del canto, cosa quest'ultima evidente soprattutto in “De’ miei bollenti spiriti”. Si è notata anche un’emissione non sempre morbida e acuti non del tutto brillanti. Il suo Alfredo, tutto sommato è risultato credibile, un mix d’insignificanza e spavalderia, non dotato di troppa intelligenza, ma alla fine degno di compassione.

Una piacevole sorpresa è stato l’acclamato baritono parmigiano Luca Salsi nel ruolo del papà Germont. A tratti non sembrava nemmeno lui; ha saputo moderare la propria virilità a volte in passato trasformata in una certa rozzezza in una moderata eleganza del gentiluomo di campagna. Il poco simpatico padre di Alfredo con la sua pedante predica “Un dì quando le veneri” non ha perso certo i pregiudizi tipici della sua classe sociale, ma ha rivelato qualcosa di più umano del solito, dimostrato un disprezzo autentico verso il gesto del figlio che getta i soldi in faccia alla donna indifesa. Insomma, il grande Salsi è stato grande dall’inizio alla fine, colorando di sfumature sottili “Di Provenza il mar, il sol” e provocando qualcosa simile a un brivido nel declamato “Di sprezzo degno sé stesso rende”.

Efficace ed affiatato è risultato l’ensemble dei comprimari: Sofia Koberidze (Flora Bervoix), Francesca Maionchi (Annina), Carlo Bosi (Gastone Visconte di Letorières), Nicolò Ceriani (il barone Douphol), Giorgi Manoshvili (il dottore Grenvil), Roberto Accurso (il marchese d’Obigny), Francesco Cuccia (Giuseppe), Stefano Rinaldi Miliani (un domestico di Flora/un commissionario).

Sul podio, Andrea Battistoni ha fornito una lettura segnata da serietà e da profondità non indifferenti. Dal Preludio, in cui abbiamo ascoltato con piacere gli archi con l’effetto autentico della neve che si stava sciogliendo, alla fine ha guidato l’orchestra areniana con mano sicura e appassionata, perennemente al servizio della partitura verdiana. Nessun eccesso e tantomeno caduta di stile, il pubblico ha goduto della correttezza dei tempi e delle dinamiche in assoluto rispetto della priorità delle voci.

Sempre bella l’opera verdiana quando si tiene in mano la partitura o la si ascolta in disco, un po’ meno bella la sua messa in scena in Arena, parecchio appesantita per quanto riguarda le scenografie e banale quando si tratta di una regia che con difficoltà può definirsi tale. Tuttavia, se cantata bene, fa dimenticare gli eccessi dell’allestimento e porta il pubblico al delirio felice. Meravigliosa Lisette Oropesa, coinvolgente Vittorio Grigolo, vitale Luca Salsi, buona la tenuta di Andrea Battistoni, vivace e vocalmente perfetto il coro preparato da Roberto Gabbiani, affascinante la coppia dei primi ballerini Liudmila Konovalova (in possesso di un paio di gambe tra le più belle del mondo) e Davide Dato, esecutori delle coreografie firmate Giuseppe Picone. Viva Verdi, ci rimane ad esclamare, viva la sua musica immortale, fonte inesauribile di piacere e d’emozione.


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