L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Bellini e Verdi, Verdi e Muti

di Francesco Lora

Norma, Nabucco e un’antologia di musiche verdiane, sotto la direzione di Riccardo Muti, formano una “trilogia d’autunno” con la quale Ravenna Festival mostra denti e fasti anche a nome della provincia italiana, tale nel pregiudizio e assai meno – evviva! – nei fatti.

RAVENNA, 16, 17 e 22 dicembre 2023 – Trilogia d’autunno ovvero Una trilogia secondo Riccardo Muti è il titolo commerciale dell’iniziativa, nella quale però – ed è una fortuna – il valore della somma finisce miracolosamente raddoppiato da quello degli addendi presi uno per uno: Norma di Vincenzo Bellini, Nabucco di Giuseppe Verdi e un’antologia di musiche verdiane. Date, luoghi, istituzioni: due esecuzioni in forma di concerto per ciascuna delle due opere, tra il 16 e il 20 dicembre scorsi, e una sola esecuzione dell’antologia, il 22, nel Teatro Alighieri di Ravenna, per conto di Ravenna Festival; ma l’antologia ha avuto una replica l’indomani nel Teatro Verdi di Busseto, così come ambe le opere erano già passate per la Fondazione Prada di Milano (guai però a farne, nella stampa locale, una notizia degna del decano dei maestri concertatori italiani: nella città del Teatro alla Scala vige una damnatio memoriae che tanto più s’irrigidisce quanto più è ridicola). Rinvigorente full immersion mutiana, dunque, nell’ennesimo e ormai canonico caso di provincia italiana, tale nel pregiudizio e assai meno nei fatti: essa sa del resto mostrare denti e fasti negli stessi giorni ove, presso le massime fondazioni liriche e le rispettive inaugurazioni di stagione, non tutte le ciambelle riescono col buco o – peggio ancora – latitano un modello, un’idea, un esempio artistico.

Se poche sono le sorprese nel lavoro di Muti, ciò è per la bontà delle aspettative seminate. Sia Bellini sia Verdi sono da lui riconfermati nei vertici della rifinitura sinfonica e drammatica, e così sottratti a chi pensi di risolverli nella pigrizia, nell’automatismo e nella manomissione testuale: suonano pertanto vividi, potenti, studiati, integrali, assimilati; storicamente connessi ma condotti diversamente. Norma incede indugiante, legatissima, con recitativi coturnati che pretendono spazio inedito e con una timbrica dalle pennellate cariche. Se fosse la tavolozza di un pittore, vi si riconoscerebbero il giallo, il rosso e il blu, poi i colori secondari, ma solo col contagocce un rosa o un celeste, a sfumare con delicatezza una narrazione che risulta anzitutto caliginosa, introversa, militaresca: mai s’era ascoltato prima, neppure da Muti stesso, il coro «Guerra, guerra! Le galliche selve» in un assetto più metallico, tellurico, armato fino ai denti. Quanto poi a Nabucco, bastano meno parole: dieci anni prima, al Teatro dell’Opera di Roma, Muti aveva finemente intrapreso la via posata della cantabilità, mentre a Ravenna riabbraccia quella – inimitabile – del passo stretto, diretto, energico, impetuoso, irresistibile, virtuosistico. Con un pregio oggi raro: s’intende sempre dove e perché, in posizione di fiero attacco e non di comoda difesa, il discorso stia andando a parare.

Ciò significa, nel contempo, che sia il concorso dell’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini”, sia quello del Coro del Teatro Municipale di Piacenza risulta ottimo, esuberante, entusiastico, mentre l’apparato di video-proiezioni – vista la carica teatrale già eccitata nella lettura musicale – finisce col distrarre inutilmente e nulla aggiungere, tanto più che si tratta qui di un’esecuzione nemmeno semiscenica: cantanti e coro rimangono immobili sui loro praticabili, alle spalle dell’orchestra. Cantanti, appunto, e si sta scabrosamente parlando di Norma e di Nabucco, nonché di una carrellata di pagine verdiane che costituiscono di caso in caso una vetrina per ciascuno: il punto d’unione poetica è lo studio fatto sotto il concertatore, ma rimangono evidenti diversità di stile e di mezzi, di tecnica e di mercato, di cultura e d’esperienza. In Bellini, la parte protagonistica finisce per stare larga a una Monica Conesa che, dopo i recentissimi, impegnativi, lusinghieri debutti italiani, da Aida alla Gioconda, sembra più involversi che sbocciare; accanto a lei, Pollione è il puntuale e un po’ timido Klodjan Kaçani, Oroveso il timbrato e un po’ rustico Vittorio De Campo, Adalgisa non il soprano sempre preferito da Muti rispetto al mezzosoprano di tradizione, bensì Paola Gardina, corsa con ansia per lei inconsueta a sostituire Eugénie Joneau (altro mezzosoprano).

Stravince il versante verdiano, capitanato da Lidia Fridman come Abigaille voluminosa ma agile, veemente ma espressiva, spontanea ma elegante, infaticabile al cospetto di una bacchetta che non concede sconti e restituisce un’interprete perfetta. Ben sbozzata ne esce anche la pietra grezza, ma caparbia e simpatica, di Serban Vasile come Nabucco, mentre Evgeny Stavinsky fa valere lo ieratico esotismo di fonica slava come Zaccaria, e Riccardo Rados e Francesca Di Sauro, rispettivamente Ismaele e Fenena, si distinguono per l’uno per franchezza tenorile e l’altra per semplice naturalezza. Quanto all’antologia del 22 dicembre, la scivolosa e insussistente fenice della “voce verdiana” si consuma presto nel confronto con ben altre studiose priorità – o fisiche dimostrazioni – di spessore e fraseggio. La palma della forbitezza superiore spetta a Rosa Feola, nelle arie dal Trovatore e dai Vespri siciliani; quella del lirismo fremente a Juliana Grigoryan, nelle scene dalla Forza del destino; quella della commozione inattesa a Elisa Balbo, nella preghiera da Otello; quella dell’autonomia intellettuale a Luca Micheletti, nei monologhi da Macbeth e Otello; a Ildar Abdrazakov, infine, nelle scene da Simon Boccanegra, l’innominabile-ma-già-nominata e Don Carlo, quella – meno invidiabile – delle doti di natura che vanno sbiadendo dietro la macha sommarietà del porgere.


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