L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’anima sacra di Mendelssohn

 di Stefano Ceccarelli

Il maestro Daniele Gatti dirige all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia l’imponente oratorio Elias di Felix Mendelssohn-Bartholdy; solisti sono: Marlis Petersen (soprano), Michèle Losier (mezzosoprano), Bernard Richter (tenore) e, nel ruolo del titolo, Jordan Shanahan (baritono).

ROMA, 9 febbraio 2023 – Testimonianza della fede inossidabile, una fede ponderata e matura, l’Elias di Felix Mendelssoh-Bartholdy è un monumento, un vero e proprio affresco veterotestamentario letto con la lente di un compositore musicalmente felice, talentuoso, ma sacralmente rispettoso della materia trattata. La storia del profeta Elia, infatti, coniugava le due anime della famiglia Mendelssohn-Bartholdy: quella ebraica e quella protestante. Mendelssohn, ebraico di stirpe, ma educato nella religione protestante, non poteva non cogliere questa stretta connessione, tradotta dal compositore in un’opera monumentale, che basa la sua sacralità proprio nel più assoluto (e puro) gigantismo musicale – qualcosa di simile a quello che (sul versante cattolico) proporrà Bruckner nelle sue sinfonie. La direzione di Daniele Gatti vuole proprio esaltare questa grandezza, tale monumentalità: il direttore concerta abbandonandosi alle sontuose architetture del pensiero musicale di Mendelssohn, non affrettando mai il dettato agogico, anzi rendendo tutto il tessuto chiaro, terso, senza però largheggiare o impantanarsi: insomma, una direzione ieratica. Lo si è notato nella resa delle parti corali: si pensi al concitato, angosciato coro d’apertura («Hilf, Herr!»), del quale Gatti non dà una resa espressionistica, ‘fisicamente’ dolorosa, ma, al contrario, proprio grazie alla regolarità agogica, all’appoggiarsi sul dettato del compositore, una resa che sublima il dolore in una dimensione celeste. Così, pure, il coro finale («Alsdann wird euer Licht») giunge all’unisono finale, poderoso raggio di luce, attraverso un tessuto contrappuntistico che Gatti spagina con meticolosa attenzione, senza affrettarne troppo la gioia. La performance del coro è forse quella più straordinaria, assieme all’orchestra; nel senso che il coro è, forse, il vero protagonista dell’Elias e quello degli Accademici coglie appieno ogni sfumatura della partitura; complimenti, inoltre, alle parti soliste del coro stesso, che hanno reso giustizia alla bellezza della musica di Mendelssohn.

Nel cast vocale, la compagine maschile è forse quella che si è distinta maggiormente. Su tutti svetta la performance di Jordan Shanahan ruolo del titolo; dotato di voce stentorea, chiara e squillante, Shanahan riesce a fraseggiare divinamente (è il caso di dirlo!) nei vari recitativi, mostrando di possedere una tessitura mediana di notevole fibra, ma è anche capace di melodiare e di svettare nei suoi assoli e negli ensemble. Sublime l’esecuzione dell’aria «Es ist genung!», che esprime tutto il dolore di Elias per l’apparente fallimento della sua missione evangelizzatrice presso gli idolatri. Di Bernard Richter si deve certamente lodare lo squillo ed il nerbo vocale, ma anche il limpido fraseggiare, come mostra nell’aria «So ihr mich von ganzem Herzen suchet». Le voci femminili, pur pregevoli, rimangono meno impresse di quelle maschili. Il soprano Marlis Petersen canta abbastanza bene, con voce chiara, ancorché lievemente ‘indietro’ (anche gli acuti sono leggermente legnosi, qua e là); il fraseggio è, comunque, chiaro e piacevole, come nell’aria in apertura della II parte, «Höre, Israel». La parte del mezzosoprano è sostenuta da Michèle Losier, dall’impasto vocale uniforme, lievemente brunito, gradevole, anche se manca, forse, di slancio: in «Weh ihnen», comunque, rende bene il senso di sacra oppressione che l’uomo deve provare di fronte a Dio.

Quando Gatti ha posato la bacchetta, l’applauso è esploso fragoroso e sonoro. In sostanza, la ben realizzata idea di Gatti è quella di una esaltazione trasfigurata della musica di Mendelssohn; il rischio, infatti, di leggere l’Elias come un’opera lirica ‘sacra’ è dietro l’angolo. Posto che, dal punto di vista di un profano, non vi sarebbe certo nulla di male, Gatti mostra di accostarsi alla partitura cercando il senso più divino della scrittura di Mendelssohn.


 

 

 
 
 

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