L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La materia di cui sono fatti i suoni

di Roberta Pedrotti

Splendido concerto diretto da Philippe Herreweghe per Bologna Festival fra Haydn e Beethoven.

BOLOGNA, 26 maggio 2023 - Il 26 maggio raggiungere Bologna dalla Romagna è un'impresa. Per buon senso lo sciopero generale è sospeso nelle terre colpite dall'alluvione, ma il traffico ferroviario è comunque alterato, ad aggravare il caos causato dal tratto sospeso e sostituito da autobus fra Forlì e Faenza. Si fa fatica, ma non pesa: noi stiamo bene, mentre qui c'è chi ha perso tutto. Sotto un bel sole e un cielo terso il verde torna a splendere e sembrerebbe quasi un idillio se a terra l'occhio non cadesse sul pantano che si secca e screpola, sui cumuli di detriti e macerie, se in treno con noi non si notassero tanti volontari infangati. La terra e il cielo, la rinascita e la devastazione, la disperazione e la ricostruzione. Se viene da sbuffare per la calca, la confusione, il ritardo, ci si vergogna e si abbassa lo sguardo.

Il concerto ci riporta in una normalità ideale: uno spazio dello spirito lontano dalle catastrofi terrene, ma anche una di quelle consuetudini che sembrano scontate finché non s'interrompono e ci ricordano la fragilità dell'esistenza. Il suono dell'Orchestre des Champs Elysées rappresenta questa coesistenza di opposti, sublima quasi gli elementi che avevamo visto nella loro natura primitiva, senza forma e contegno. La musica dà quella forma, quel contegno, un ordine e un argine nel fluire del tempo, ma materia rimane, solida, tangibile, a tratti perfino ruvida. Philippe Herreweghe fa quel che da un grande direttore ci si aspetta e fa la differenza rispetto a chi, anche benissimo, si occupa solo di tempi e intensità: costruisce il suono, lo plasma, rischia. Non insegue l'utopia della precisione assoluta e fine a sé stessa, ma pare calcolare esattamente un grado di leopardiana vaghezza, di indeterminatezza poetica che crea il colore, la sostanza tattile della musica.

Il Concerto n. 1 per violoncello e orchestra di Haydn, con Andreas Brantelid solista primus inter pares, ha un calore discreto, un senso di legno e di antico ben levigato, così da rendere un classicismo vivo, nell'elaborazione formale come nei rapporti timbrici. Dopo il bis bachiano di Brantelid, nell'Eroica di Beethoven trovano la massima espressione e fioritura tutte le premesse della prima parte.

In un'esecuzione storicamente informata la potenza rivoluzionaria della sinfonia emerge con forza ancor più prepotente, se la qualità è di questo livello: la linea di continuità rispetto al mondo haydniano è palese, ma nondimeno è palese la componente tellurica, l'importanza della tinta, del carattere, la capacità di piegare la materia alla poetica romantica della passione – in senso quasi sacro – dell'Eroe. Basterebbe citare l'importanza che assume l'uso di ottoni naturali e non a pistoni: non un vezzo per specialisti e nemmeno un rischio – strumentisti eccellenti non sbagliano un colpo –, bensì il valore imprescindibile di quel suono un po' rustico, affatto lontano dallo squillo lucente e impertinente a cui siamo abituati con orchestre moderne. E in tutto questo, Herreweghe sa essere elegante, imprimere un senso di verità che non è mai volgare o scomposto, ci ricorda ancora il colore, il calore, le venature del legno, materia viva, dai mille dettagli, levigati o porosi, torniti o irregolari. Il coinvolgimento che ne deriva non è quello epidermico che travolge con tempi rapinosi, contrasti a effetto e dinamiche esasperate, ma quello che scava nella profondità di un suono denso, tridimensionale plasmato con coraggiosa sapienza e consapevolezza, privilegiando un fraseggio fatto di spessori e colori. La materia si sublima in arte, l'esperienza e l'esistenza concreta si fanno articolazione del suono, dalla forma haydniana al cosmo tematico beethoveniano. Il pubblico risponde con calore, entusiasmo, non travolto da irrazionale istinto, ma partecipe dell'incontro fra natura e ragione.

foto Dino Russo


 

 

 
 
 

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