L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La zampata del leone

di Irina Sorokina

Circondato da ottime voci e con una scelta del programma più accorta, Placido Domingo trova un riscatto e ispira tenerezza dopo gli esiti tristi del galà areniano dello scorso anno, ma non dissipa i dubbi sulla scelta di ruoli baritonali.

Verona, 6 agosto 2023 - Nell’anno del centenario l’Arena di Verona offre un cartellone ricco di produzioni, opere e eventi speciali: alcune cose sono entusiasmanti, altre meno, ma sempre in buona media. Tra gli eventi speciali, incontri con alcuni divi del passato e del presente, tutti tenori: il primo è stato Juan Diego Flórez, l’ultimo sarà Jonas Kaufmann, in mezzo c’è Placido Domingo, della categoria dei vecchi leoni. In questa sede non ripetiamo cose dette da sempre, che il tenore spagnolo avrebbe potuto “correggere” la sua vera età: dichiara di essere nato nel 1941 e quindi nel momento del galà veronese di avere ben ottantadue anni. Da tempo canta da baritono, una cosa discutibile fin dal momento in cui si è proclamato tale. Ma per capire il fenomeno chiamato “Placido Domingo oggi” ci conviene di fare un tuffo del passato: potrebbe essere profondo e richiedere del tempo per risalire in superficie.

Il tenore, una voce assolutamente speciale, una vera regina. Tra tutte le voci, maschili e femminili, proprio il tenore è capace di portare il pubblico ad un delirio felice quasi incontrollabile: nel Novecento ci sono stati grandi come Mario Filippeschi, Jussi Björling, Mario Del Monaco, Franco Corelli, Giuseppe Di Stefano, Gianni Raimondi, Beniamino Gigli, Carlo Bergonzi, Alfredo Kraus, Giuseppe Di Stefano, Franco Corelli, Mario Del Monaco, Carlo Bergonzi, Nikolaj Gedda, Jon Vickers, Alfredo Kraus, Fritz Wunderlich, Franco Bonisolli , Vladimir Atlantov... ma soprattutto coloro i quali sono entrati nella storia come “i tre tenori”, Luciano Pavarotti, Placido Domingo, Josè Carreras. Tutti e tre per molti anni hanno occupato il trono insieme e hanno suscitato l’amore del pubblico grazie alle personalità e alle qualità diverse. Pavarotti dotato del timbro più bello, lucente e gioioso, di acuti meravigliosi e una tecnica imbattibile; Domingo, un artista unico nel suo genere, in cui il cantante e l’attore sono andati di pari passo; Carreras, in un certo senso “fratello minore” dei due grandi, ma dotato di fascino irresistibile. Anche i loro destini sono risultati diversi: Pavarotti mancò nel 2007, Domingo oggi si esibisce ancora, con dei risultati contraddittori, Carreras ha avuto problemi a causa di una leucemia che lo ha portato a ridurre l'attività.

L’attuale galà veronese ha fatto sollevare domande e dubbi che sorgevano già un paio di decenni fa, prima che il Big Luciano lasciasse questo mondo. Prima che i Tre Tenori finissero le loro carriere (Domingo canta ancora), i teatri dell’opera, pur in modo indiretto, lanciavano già un disperato appello: “tenore cercasi”, “Abbiamo bisogno di un tenore”, “Tenori, fatevi vivi” e così via. La fame di questo tipo di voce esisteva vent’anni fa e esiste ancora: Pavarotti, Domingo e Carreras vengono nominati dai melomani su cinque continenti tutti i santi giorni.

Perché tutte queste grida, agitazione e disperazione? Già vent’anni fa si facevano i nomi degli eventuali successori dei magnifici tre, tra cui Salvatore Licitra, Roberto Alagna, Josè Cura, Marcelo Alvarez, Ramon Vargas, Juan Diego Florez e alcuni altri. Oggi molti di loro sono ancora in carriera, altri, per motivi diversi, non sono più attivi – qualcuno purtroppo non è nemmeno più con noi. Ce ne sono tanti altri che si esibiscono nei panni di Manrico, Radames, Cavaradossi e addirittura Otello. Il pubblico riserva a loro applausi generosi stando comodamente nelle poltrone, ma nessuno di loro ha più avuto tutte le qualità necessarie per riempire teatri e stadi, per portare i milioni di persone a un delirio felice e a volte assurdo.

Ieri sera l’Arena di Verona gremita accoglieva di nuovo Placido Domingo, dopo l’esito poco felice dell’esibizione di un anno fa quando il grande tenore apparì decisamente fuori forma fisica e vocale e addirittura dimenticò le parole. Fortunatamente, le stelle ieri sera si sono dimostrate buone e compiacenti verso il vecchio leone, permettendo al numeroso pubblico di perdonare l’infelice esibizione del 2022 e non soltanto rinnovare la solita simpatia per il tenore spagnolo, ma provare qualcosa simile ad una tenerezza profonda.

Il programma nutrito ha presentato i brani celebri da Pagliacci, Adriana Lecouvreur, Andrea Chénier, Attila, I vespri siciliani e La forza del destino nella prima parte, nella seconda, pur continuando la linea dell’opera opera italiana, si è felicemente virato verso i generi leggeri d’operetta, di musical e di zarzuela.

La prima apparizione del grande Placido è avvenuta con un celebre brano per baritono, “Nemico della patria” da Andrea Chénier: lo fece anche l’anno scorso e non possiamo considerare felice questa scelta. Il brano di grande effetto drammatico, caratterizzato da un declamato sorprendentemente espressivo, ha rivelato, più degli altri, la vera natura di Placido, quella del tenore. Si poteva ammirare l’accento e la parola cantata, ma la verità veniva fuori da tutte le parti: Placido, non sei baritono. Lo stesso effetto veniva prodotto da uno dei brani più belli della produzione verdiana, il duetto da La forza del destino, “Invano Alvaro tu celasti al mondo”, con un grande Angelo Villari nei panni dell’innamorato infelice di Donna Leonora, sicuro, virile, stilisticamente impeccabile e dotato di un grande senso drammatico. Il dannato Alvaro come per magia è apparso sul palcoscenico dell’Arena, mentre il suo persecutore, Don Carlo, ha fatto timido capolino , sempre “per colpa” del mattatore della serata che ha cercato inutilmente vestire i suoi panni. Ha perso il registro acuto, ma è rimasto perfettamente riconoscibile come tenore nei registri medio e basso. Lo stesso giudizio per un altro brano verdiano, il duetto “Udiste? Come albeggi… Vivrà contende il giubilo” da Il Trovatore, con una musicalissima Mariangela Sicilia, Leonora sensibile e mai sopra le righe, e il Conte di Luna privo della grinta sufficiente e dei colori scuri adeguati.

Nella seconda parte il grande Placido ha fatto una scelta saggia : ha affiancato la giovane Daria Rybak nel duetto di Tony e Maria da West Side Story di Bernstein ed è andato sul sicuro cantando un celeberrimo brano d’operetta, “Dein ist mein gamzes Herz” da Das Land desLachelns di Lehar, e un altro, pure conosciutissimo, dalla zarzuela La Tabernera del puerto di Pablo Sorozabal, entrambi i suoi cavalli di battaglia: una scelta che garantisce il successo considerando il suo stato vocale d’oggi.

Nel corso della serata il vecchio leone si è visto circondato da buone voci, alcune affermate come Michele Pertusi, Amartuvshin Enkhbat, Mariangela Sicilia, Angelo Villari, Jessica Pratt, altre giovani come Daria Rybak e Giulia Mazzola.

Da alcuni anni si ascolta volentieri la bella voce del baritono mongolo, ormai la presenza fissa in Arena e in questo caso posto in condizioni non facili. È stato lui ad aprire la serata con il Prologo di Pagliacci e non ha deluso per niente: sicurezza scenica, voce limpida e ben timbrata, pronuncia chiara. La regia lo ha fatto cantare in mezzo alla platea, e, ovviamente, la voce si è sentita meglio dalla parte verso quale il cantante è stato girato. Non ha battuto il ciglio, il discendente dei cavalieri delle steppe, ha iniziato bene e ha finito meglio, coperto da applausi convinti.

Gli è succeduto Angelo Villari con un altro brano celeberrimo di Pagliacci, “Vesti la giubba”. Al tenore è bastato un attimo per coinvolgere il pubblico nel dramma di gelosia che degenera in omicidio; ma mai e poi mai il cantante siciliano è ricorso al grido, all’esagerazione, al cattivo gusto. Il dramma del personaggio è stato trasmesso attraverso un perfetto controllo dei fiati, buon legato e declamato ben studiato. Un successo ancora più grande e pienamente meritato è toccato a Villari con la perfetta esecuzione della pericolosa Pira da Il trovatore, cantata con grinta autentica e senza un minimo sforzo; la puntatura finale , un Si naturale, è stata eseguita con sicurezza capace di convincere della sua bravura qualcuno che, forse, non è stato prima il suo fan.

Il terzo uomo della serata è stato Michele Pertusi; il cantante parmigiano da sempre si distingue per la capacità di coinvolgere il pubblico puntando all'essenziale una dignità immensa, una capacità innata di stare in scena e un modo di cantare corretto e sostenuto, ma con un fuoco interno. Nel galà Domingo ha cantato un brano nobile, “O tu, Palermo, terra adorata” da I vespri siciliani, e uno comico, “Udite, udite, o rustici!” dall’Elisir d’amore: nella sala sotto il cielo aperto sicuramente si trovava qualcuno che non conosceva il grande Pertusi e questo qualcuno avrebbe potuto pensare che si trattasse di due bassi diversi. Il nobile Giovanni da Procida e il ciarlatano Dulcamara sono apparsi come per magia davanti al pubblico e anche la voce non sembrava appartenere alla stessa persona: profonda e vellutata nell’aria di Procida, chiara e leggera in quella di Dulcamara. Una vera lezione di canto e di teatro.

La serata presentava ben quattro soprani giovani e belli, diciamo belli prendendo in considerazione la tendenza da tempo affermatasi sulle scene dei teatri lirici; dalle cantanti d’oggi spesso si pretende non soltanto una bella voce, ma anche un fisico da modella corredato da un indifferente fascino femminile. Si è abituati a questa tendenza da tempo, dicendo, con spirito di rassegnazione, “Perché no?”. I tempi dei donnoni tipo Birgit Nilsson e Montserrat Caballé sono archiviati ormai e Giuliette e Amine appaiono decisamente più credibili.

Insuperabile nel suo genere l’australiana Jessica Pratt, una vera Regina del belcanto, con la erre maiuscola, ma anche un animale di palcoscenico capace di giocare ogni carta che le viene in mente di scegliere: ha fatto la sua apparizione con “Ah, non credea mirarti… Ah! Non giunge uman pensiero” da La Sonnambula e, con una disinvoltura disarmante, ha mantenuto la linea di canto infinita, ininterrotta, celestiale nella prima parte ed è passata serena alla cabaletta vertiginosa sfoggiando un fa sovracuto simile ad un sorriso all’ingresso in un salotto. Nella seconda parte ha dimostrato di essere poliedrica trasformandosi in un’esilarante Cunegonde, protagonista di Candide di Bernstein, e cantando “Glitter and be gay”: anche qui cascate di passaggi virtuosistici e di staccati esilaranti: insomma, un fenomeno, ma lo sapevamo già.

È stata meravigliosa Mariangela Sicilia, conosciuta soprattutto come una dolce e fragile Mimì nella Bohème con la regia di Graham Vick al Teatro Comunale di Bologna. Il soprano ha fatto proprie qualità come delicatezza e raffinatezza e così ha intonato “Io son l’umile ancella”, la celebre aria di sortita da Adriana Lecouvreur, sfoggiando una linea infinita del canto, giocando sui piani e pianissimi, forse un po' troppo. È arrivata al duetto con il conte di Luna da Il Trovatore per convincerci che la dolce Sicilia non è capace solo di deliziare l’orecchio xon un canto cristallino, ma è in grado di attribuire al canto più sostanza e un autentico senso drammatico.

Carina è stata la giovane svizzera Daria Rybak già ascoltata al Filarmonico di Verona quale Musetta pucciniana, parte che le calza a pennello; nella serata Domingo si è rivelata cantante capace di padroneggiare diversi stili e si è trasformata nell’ ppassionata Maria dal celebre musical di Bernstein West Side Story.

Molto brava è stata Giulia Mazzola proprio nel valzer di Musetta dalla Bohème pucciniana: ha saputo disegnare il ritratto perfetto del personaggio in pochi passaggi e ha sfoggiato canto morbido corredato da una musicalità impeccabile.

Sul podio, Francesco Ivan Ciampa, che una settimana prima aveva diretto in modo efficace Tosca, ha guidato l’orchestra areniana con piglio e espressività ed è passato da un genere all’altro senza un minimo sforzo; i cantanti sono stati accompagnati amorevolmente e ibrani orchestrali dalla fisionomia diversa quali il Preludio dall'Attila verdiano e l'Intermedio da La Boda de Luis Alfonso di Geronimo Giménez hanno brillato per la comprensione perfetta del loro stile.

E poi? Un’immancabile Granada cantata da Domingo e un gran finale, O sole mio intonato da tutti i solisti sostenuti dalla maggior parte del pubblico, che cantava a squarciagola.

Il 6 agosto si andava in Arena con mille dubbi, con la paura di assistere ad un disastro imbarazzante come l’anno scorso. Ma il vecchio leone di Placido Domingo ha dimostrato di essere ancora capace di produrre delle energiche zampate: oggi non provocano delle emozioni fortissime, ma piuttosto destano tenerezza. L’anno scorso, parlando dell’esibizione del tenore spagnolo, ci toccò, pure a malincuore, a disturbare l’ombra del grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin che parlava dei sogni che “tremano dalla paura” per un “canto funebre selvaggio sotto l’accumulo delle pietre antiche”. Ecco, esattamente un anno dopo, le pietre antiche sono rimaste, ma il canto funebre non è apparso: il grande mattatore chiamato Placido Domingo ha avuto la forza sufficiente per non evocare più i versi del poeta romantico tedesco. Abbiamo visto, ascoltato e salutato con affetto uno dei più grandi personaggi dell’opera lirica del Novecento, un grande tenore con la paura di smettere di cantare e soprattutto di apparire in pubblico (entrambe cose comprensibili), un cantante che non ha saputo ritirarsi dalle scene in tempo, ma ancora in grado di regalarci qualche emozione.


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