L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Puccini, Alfano, Berio

di Luca Fialdini

Il Nuovo Teatro Verdi di Montecatini celebra il centenario della scomparsa di Giacomo Puccini con l’interessante proposta dell’esecuzione di alcuni finali di Turandot nella stessa serata

MONTECATINI TERME (PT), 9 dicembre 2024 – In coda a questo tanto celebrato centenario pucciniano non terminano le iniziative attorno (più) al nome (ch)e all’opera del sor Giacomo, ma una riprova del fatto che le sorprese nascono dove meno te le aspetti è l’insolita proposta del Nuovo Teatro Verdi dove il sipario si è alzato sul concerto Turandot e i suoi finali. La forma è quella, semplicissima, della selezione di numeri musicali in forma di concerto, anche se in questo caso i personaggi principali erano in costume; ciò che rende davvero interessante la serata è la presenza di due finali eseguiti consecutivamente, vale a dire quello composto da Luciano Berio e quello originale di Franco Alfano, fatto che nella memoria di chi scrive non ha precedenti.

L’intera operazione, nata da un’idea di Fabrizio Moschini, è condotta in collaborazione con la Fondazione Festival Pucciniano di Torre del Lago (infatti è da qui che provengono costumi, orchestra e coro) e prevede una selezione particolarmente generosa che consente comunque di apprezzare l’arco narrativo della vicenda, un risultato raggiunto anche grazie alla scelta intelligente di accendere un focus importante sui personaggi principali e in particolare sulla figura di Liù che per certi versi assurge allo stesso rango di Turandot; difatti il pezzo d’apertura è proprio la preghiera “Signore, ascolta” seguito dall’intero finale del primo atto (“Non piangere Liù”) e in questo modo è fisiologico che la centralità della giovane schiava emerga in modo assai diretto, il che risulta essenziale per il momento clou della serata: porre così tanto l’accento su Liù significa chiarire perché per Puccini l’opera poteva considerarsi compiutamente conclusa già con il coro funebre del terzo atto, che effettivamente ha un fortissimo sapore di conclusione e può essere considerato in tutta serenità il “finale Puccini” di Turandot.

Il gran merito di questa serata – e in tutta onestà sarebbe stato bello averne altre del medesimo spirito in questo 2024 – è quello di mettere al centro della questione il teatro di Puccini dalla prospettiva della drammaturgia perché è pacifico che Turandot sia un titolo drammaturgicamente irrisolto ed è proprio l’impossibilità di sciogliere questo nodo che aveva spinto il compositore a fermarsi nel 1923, a quasi un anno dalla morte, al coro funebre per Liù senza avventurarsi nel duetto. La parte conclusiva del libretto, da “Principessa di morte” in poi, fu accantonato per l’impossibilità di concepire un lieto fine che piomba così, ex abrupto, e in quattro e quattr’otto trasforma Turandot da principessa di gelo in donna innamorata; il successivo ripensamento com’è noto si deve alle insistenze di Ricordi e qui davvero la partitura rimane incompiuta perché la morte tolse la penna a Puccini, ma è lecito affermare che l’autore stava iniziando ad abbozzare qualcosa di malavoglia e con poca convinzione dopo, ripetiamo, aver terminato il proprio lavoro da circa un anno. Forse bisogna ricercare in questo la motivazione del perché i vari completamenti risultino tanto insoddisfacenti: da una parte lo sono perché scritti da altri compositori che, buoni o meno, non avevano accesso alla mente di Puccini, dall’altra perché ogni proposta non centra veramente il bersaglio. Questa sera – è proprio il caso di dirlo – si è potuto assistere a un vero confronto diretto e i risultati non sono così scontati come si poteva ritenere a priori; il finale Berio è senz’altro quello più complesso sotto il profilo musicale e, tecnicamente parlano, anche migliore di quello di Alfano ma ha la problematica di inserirsi con grande fatica in un discorso molto circostanziato, pertanto lo scalino linguistico è davvero forte, inoltre porta a rapido spegnimento una situazione che (e si torna al nodo che affliggeva Puccini) aveva bisogno di più tempo e di un libretto diverso per arrivare alla risoluzione finale. Di contro, il finale Alfano originale, senza i tagli e le modifiche di Toscanini, propone una scrittura molto più omogenea con il resto della partitura e ha non poche raffinatezze come la riproposizione non pedissequa del “Nessun dorma” in salsa corale con qualche guizzo notevole nella strumentazione, tuttavia resta la vecchia problematica di un fastosissimo happy ending che stride in modo invero brutale con il sangue di Liù ancora fresco e l’aura pesante del coro funebre che ha appena esalato l’ultimo «Liù! Poesia!». Mettendo concretamente sul piatto tutto quanto non resta che la realtà dei fatti a cui dopo cento anni ancora non ci si vuole arrendere: l’unico vero finale possibile per Turandot è quello immaginato da Giacomo Puccini, chiudendo la vicenda prima del duetto. È una conclusione di una potenza teatrale incredibile (come sperimentato la scorsa estate proprio al Festival Puccini), dopo la quale nessun’altra musica ha senso di esistere ed è perfettamente sensato che l’opera più spietatamente novecentesca di Puccini si chiuda con una catastrofe che lasci persino scosso lo spettatore.

La bacchetta chiamata a curare questa peculiare proposta è quella di Pietro Mazzetti, elegante nel gesto ed efficace nella tenuta di un’Orchestra del Festival Puccini ben determinata. Si lavora positivamente sui colori (e questa partitura, anche se in selezione, ne ha molti da offrire) e sulla compattezza nell’insieme; da segnalare la riuscita molto accurata del finale Berio; bene anche il Coro del Festival Puccini preparato da Roberto Ardigò.

Il cast solistico è frutto di una felice selezione, come nel caso di Francesco Marchetti che interpreta correttamente L’imperatore Altoum e Pong e di Nicolò Ayroldi (Ping/Un mandarino). Ben centrato il Timur di Paolo Pecchioli: il ruolo è naturalmente ridimensionato, però l’intervento dopo la morte di Liù è messo davvero a segno.

Doppia coppia per i protagonisti Turandot e Calaf, in modo da ripartire equamente i vari numeri. Da una parte Rebeka Lokar, di cui si nota la familiarità con il ruolo, e Renzo Zulian, con qualche difficoltà nella regione acuta ma disimpegnatosi con mestiere, titolari dell’intera Scena degli Enigmi e del finale Berio; dall’altra Valentina Boi e Paolo Lardizzone. Quest’ultimo, ascoltato proprio tre giorni fa come Alfredo in Traviata, firma un Calaf eccellente, con un’ottima proiezione del suono e un timbro limpido da lirico spinto assolutamente ideale per la parte; da parte sua, Valentina Boi conferma la sua grande perizia in ruoli notoriamente impegnativi, in grado di superare serenamente anche passi impervi come quella fila di do sovracuti nel finale Alfano.

Prova maiuscola da parte di Elisa Balbo che nelle vesti di Liù registra un grande successo personale. Anche nel suo caso la confidenza con il ruolo – o, ancor meglio, la sua interiorizzazione – è evidente e si esprime in un’interpretazione di dolente dolcezza, un lirismo delicato sinonimo di impeccabile controllo dello strumento vocale (in particolar modo in quei piani così belli), con una linea vocale nitida nel fraseggio. In breve, l’interprete ideale per una situazione come questa in cui era necessario avere una Liù di spessore.

Lunghi e sinceri applausi al termine dell’esecuzione a sancire il successo di questa serata un po’ concerto e un po’ esperimento, uno dei pochi eventi di questo anno del centenario che ha davvero messo al centro la figura di Giacomo Puccini.

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