Vaghe parole…e musica
Al Teatro dell’Opera di Roma va in scena un concerto che convince più sulla carta che nella sua realizzazione. Una soirée leopardiana troppo lunga, con ottima musica, certamente, ben diretta da Michele Mariotti, ma una squilibrata, ingombrante presenza di quella recitativa, con letture da Giacomo Leopardi ad opera di Sergio Rubini. Il trailer della sua serie RAI sul poeta, che apre il concerto, è una caduta di stile francamente evitabile.
ROMA, 8 dicembre 2024 – Si può uscire infastiditi da un bel concerto? Sembra un paradosso, ma ho l’impressione sia successo a molti la scorsa domenica, accorsi al Costanzi per gustarsi un promettente concerto di Michele Mariotti dedicato a Giacomo Leopardi. Come informa il programma di sala, infatti, Mariotti ha selezionato brani che, a suo dire, avessero una connessione con l’opera ed il pensiero di Leopardi, immaginando un percorso in cui recitazione e musica si armonizzassero. Fin qui, nulla da eccepire, anzi: l’idea di ascoltare un buon concerto accompagnato dalla recitazione dei componimenti di Leopardi non può che sollecitare il piacere e la fantasia degli spettatori.
Il problema è che, non appena seduti in sala, ci si è resi conto che qualcosa non andata. Più che un concerto di musica, infatti, è parsa una trovata pubblicitaria per sponsorizzare la serie televisiva su Leopardi, diretta da Sergio Rubini, che avrà a gennaio il suo battesimo in RAI. Sul fondale della scena del Costanzi, infatti, viene proiettato il trailer della serie, che ha una durata francamente spropositata – a naso direi sia durato più di un quarto d’ora. Dei musicisti nemmeno l’ombra, come pure del direttore. Il pubblico inizia visibilmente a spazientirsi. Qualche avvisaglia, però, la si poteva intuire ben prima di entrare in sala. La scala centrale, cui ci si trova di fronte entrando dall’attuale ingresso del Costanzi, era stata poco prima il surrogato di un red carpet, con gli attori principali della serie di Rubini in bella posa per concedersi ai fotografi. Ma torniamo al trailer: la tensione, il fastidio cominciano ad essere più che palpabili. Termina il video e tutti speriamo sia passata, di poterci finalmente godere il concerto. Fu vana speranza. Sergio Rubini fa il suo ingresso e inizia a recitare il celebre passo, dallo Zibaldone, sul tema della ‘ricordanza’. Il successivo attacco del celeberrimo incipit «Vaghe stelle dell’Orsa» ci fa capire che non avremo musica ancora per un po’: si badi, non può che essere piacevole ascoltare Le ricordanze, né si può dire che la recitazione di Rubini sia così tediosa (un po’ affettata, sì, ma si è ascoltato di peggio). Insomma, la cosa che lascia basiti è la gratuità di una sequenza così lunga prima di iniziare il concerto in sé, che ha reso un programma, tutto sommato equilibrato, ai limiti del gargantuesco. Finalmente, dopo Le ricordanze, attacca il famoso Entr’acte n. 3 dalla Rosamunde di Franz Schubert. Godibilissima la direzione di Mariotti e, c’è da ammettere, piacevolissima la resa sonora dell’orchestra. Mariotti è direttore che in pezzi come questo si trova perfettamente a suo agio, carezzando le frasi pregne di una dolcezza romantica, di una gioia pudica. Il risultato è, come già detto, assai piacevole. Se avessimo iniziato il concerto con la sola lettura de Le ricordanze, seguita dall’esecuzione dell’intermezzo dalla Rosamunde, il tutto avrebbe avuto un altro fascino ed un effetto certo differente, considerando che il brano schubertiano ha una grazia romantica, ma non eccessivamente drammatica, che ben si sposa a quell’idillio leopardiano.
Rubini attacca a recitare un altro passo dallo Zibaldone, le riflessioni sull’addio: «Non c’è forse persona tanto indifferente per te, la quale, salutandoti nel partire per qualunque luogo o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti Non ci rivedremo mai più, per poco d’anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista» etc. Ripetendo l’errore già commesso nella prima sezione del concerto, cioè quella di eccedere con la lettura, recita Il sogno, uno degli idilli meno letti nella tradizione scolastica italiana. Con questo non intendo, naturalmente, discutere sulla bontà della scelta dei testi presentati, che dimostra una certa sensibilità ed un percorso anche non banale (Il sogno lo testimonia); ciò che non va è il disequilibrio fra la parte musicale, quella poetica e l’esigenza più banalmente pubblicitaria – ed a farne le spese è la musica, in primis, seguita dalla poesia. Il fil rouge con i successivi Kindertotenlieder di Gustav Mahler, opera dalle atmosfere allucinate, sta nel tema della separazione, dell’addio, ossia della morte. La parte del baritono è interpretata da Markus Werba. In generale, ancora la direzione di Mariotti si distingue per attenzione ai colori, che in Mahler sono sempre di grande complessità, come pure per un’agogica malinconica ma non monocorde (numerosi sono, infatti, i passaggi che mimano proprio una musica infantile, calata in atmosfere quasi paurose). L’interpretazione di Werba si distingue per un fraseggio partecipe del testo, come pure per una soffusa ricerca cromatica; il problema è, in parte, nell’emissione: quella che dalla platea può essere sembrata una scelta voluta dell’interprete, cioè il cantare tutto a mezza voce, esaltando il dato onirico ed allucinato, da altre parti del teatro può aver avuto l’impressione di un’astenia vocale.
Il secondo tempo vede Rubini venire alla ribalta, per l’ultima volta, concludendo con la lettura di un altro celebre passo dello Zibaldone («Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale etc.»). Questo pensiero tratta di tipici temi leopardiani: l’immaginazione, il rapporto fra ispirazione poetica e filosofia. Segue, poi, non la lettura, ma il riassunto di una delle Operette morali, cioè La scommessa di Prometeo, testo che ha il suo cuore nell’ironica constatazione da parte di Prometeo, titano civilizzatore, e del dio Momo, umbratile figlio di Notte e Hypnos, dell’irrecuperabilità del comportamento degli esseri umani. Meglio sarebbe stato, forse, leggerne delle parti. Come che sia, l’autore prescelto a chiudere il concerto è Ludwig van Beethoven – che sta bene non solo col personaggio di Prometeo (su cui aveva composto un balletto, Le creature di Prometeo), ma anche con il piglio illuministico delle Operette stesse. (Del resto, il tema del finale dell’ “Eroica” era già stato usato, pochi anni prima, proprio nel citato balletto). Insomma, la scelta della Terza di Beethoven è azzeccata. Mariotti, peraltro, ne presenta un’ottima esecuzione. Si sarà notato il raffinato lavoro strumentale sugli archi, ma anche sugli ottoni, che dona precisione e luminosità alle ‘strutture melodiche’ così tipiche della penna beethoveniana. Così, soprattutto, nell’Allegro con brio (I), di monumentale architettura, come pure nel Finale (IV), brillante, ironico, concluso potentemente; non si dimentichi, poi, lo Scherzo, tanto giocato sui volumi e su ritmi di freschezza quasi agreste. Ma Mariotti sa far bene, scolpendo le frasi con cesello e ricchezza semantica, anche nella famosa Marcia funebre (II). Ci si sarebbe volentieri goduti quest’ottima Terza con più piacere, se non ci si fosse arrivati dopo un percorso, francamente, anzi ingiustificatamente, troppo lungo. Il pubblico applaude, ma cenni di dissenso vi sono palpabili. Rubini, comunque, si congeda recitando L’infinito.
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