A Weimar con Goethe
di Luigi Raso
Grande e meritato successo per il concerto conclusivo della Settimana di musica d’assieme 2024 promossa dall'Associazione Alessandro Scarlatti a Villa Pignatelli
NAPOLI, 6 dicembre 2024 - Ideata nel 1971 da Salvatore Accardo e Gianni Eminente la rassegna Settimana di musica d’assieme, complementare e in parallelo alla programmazione dell’Associazione Alessandro Scarlatti di Napoli, nel corso degli anni è diventato un punto di riferimento per musicisti e appassionati di musica da camera.
Le Settimane hanno ospitato ensemble e interpreti di fama internazionale, ai quali si sono affiancati giovani emergenti, in un’osmosi feconda di dialogo e crescita musicale.
La scelta del repertorio, che ha da sempre puntato a mantenere un equilibrio tra tradizione e innovazione, è sempre stata varia: la cronologia delle Settimane annovera classici della musica da camera, opere meno eseguite e composizioni contemporanee.
Il concerto che chiude la rassegna del 2024 propone infatti un’opera di non frequente ascolto, il Quintetto in mi bemolle maggiore op. 87 per pianoforte, violino, viola, violoncello e contrabbasso di Johann Nepomuk Hummel (1778 - 1837) e, nella seconda parte, il più eseguito (almeno rispetto al Quintetto di Hummel..) Sestetto in re maggiore op. 110 per pianoforte, violino, due viole, violoncello e contrabbasso di Felix Mendelssohn Bartholdy (1809 - 1847).
Di fronte al programma di un concerto ci si chiede quale sia il filo rosso che leghi i brani: leggendo le interessanti note di sala di Gregorio Moppi e ricordando le tappe fondamentali delle biografie di Hummel e Mendelssohn, si può affermare che siano la città di Weimar e Johann Wolfgang Goethe i traits d'union. Allievo di Wolfgang Amadeus Mozart, Johann Nepomuk Hummel a Weimar, dove ricoprì l’incarico di maestro di cappella e dove conobbe Goethe, trascorse il periodo più fecondo della sua esistenza: il Quintetto fu scritto nel 1802, ma pubblicato soltanto venti anni dopo. Nel panorama della musica cameristica tra ‘700 e ‘800, questa appare opera di transizione, troppo antiquata per rimandare a Mozart, ancora acerba per anticipare Beethoven. Di ascolto indubbiamente piacevole, il pezzo di Hummel ossequia i canoni della forma sonata, ma l’arricchisce farcendola di temi cantabili, dal gusto italiano.
E proprio di questa cantabilità - che trova nel pianoforte, strumento di cui Hummel era considerato virtuoso, la sua esaltazxione - l’ensemble schierato stasera si dimostra immediatamente adeguato, raffinato e appropriato interprete. Compete al nitido e corposo tocco di Antonello Cannavale, in questa composizione pilastro portante dell’intera esecuzione, esporre le melodie ora aggraziate ora energiche di Hummel. Al suo fianco, ad “ascoltare” e a dialogare, quattro raffinati cameristi: il violinista Gabriele Pieranunzi, il violista Francesco Solombrino, il violoncello di Danilo Squitieri e, a radicare i piedi del Quintetto nell’800, il poderoso contrabbasso di Ermanno Calzolari.
Nel corso dei tre movimenti che compongono il Quintetto si apprezza l’affiatamento e la simbiosi tra i cinque cameristi, pur impegnati singolarmente in autonomi ed eterogenei percorsi artistici, ma in questa occasione animati dal piacere di fare musica assieme. Un esempio, tra i vari, è il Largo, laddove il pianoforte ribadisce il proprio ruolo di protagonista esponendo uno dei temi più raffinati, mozartiani e cantabili, oltre che ricco di ornamentazioni, della composizione; gli archi sono chiamati a un ruolo da gregario, ma l’esecuzione è così ben calibrata che questi stendono un tappeto sonoro per farvi adagiare il tema e gli arpeggi del pianoforte.
Weimar e Goethe aleggiano anche sul secondo brano in programma: il Sestetto in re maggiore op. 110 per pianoforte, violino, due viole, violoncello e contrabbasso di Felix Mendelssohn Bartholdy fu composto nel 1824 dal giovanissimo musicista dopo aver conosciuto, appena dodicenne, il grande poeta a Weimar: tra i due si instaurò una profonda simpatia e una frequentazione feconda di stimoli artistici ed estetici per entrambi.
Il Sestetto è una composizione che, a dispetto dell'età dell'autore, denota un’abilità nell’organizzazione delle forma e della gerarchia strumentale al suo interno: anche qui il pianoforte ricopre un ruolo predominante; gli archi (Mendelssohn raddoppia le viole: a Francesco Solombrino si affianca, come prima parte, Francesco Fiore, cesellatore raffinato e attento) diventano quasi un’orchestra d’archi chiamata a interloquire con la tastiera. Antonello Cannavale, dopo quella del precedente Quintetto di Hummel, dà un’ulteriore prova del suo pianismo sempre appropriato, della solidità del ductus musicale, che trova anche qui nel pianoforte origine e compimento; ma in questa composizione, a dare forma e colore (più brunito rispetto a quello del precedente Quintetto di Hummel) ritroviamo, con il solo innesto di Francesco Fiore, gli stessi interpreti ora chiamati a conferire vigore al gioco degli archi. E in ciò, Pieranunzi, Fiore, Solombrino, Squitieri e Calzolarisi dimostrano precisi, calibrati, capaci di conferire grande suggestione e ricchezza di colori al malinconico Adagio del secondo movimento, che cede al passo al rapinoso Menuetto il cui Trio esalta il dialogo strumentale. Nel successivo e conclusivo Allegro vivace lo scintillante pianoforte di Antonello Cannavale ribadisce la gerarchia all’interno del Sestetto: prima il pianoforte, poi gli archi.
Al termine, applausi, apprezzamenti sinceri e un bis, il Menuetto dal Sestetto appena eseguito.
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