L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

O tu, Palermo

di Luigi Raso

Nella coproduzione con Palermo e Bologna dello spettacolo firmato da Emma Dante, la versione ancora tradotta e tagliata del grand opéra verdiano non convince appieno e, nonostante il buon successo finale, concertazione e cast mostrano più d'una dolente nota.

NAPOLI, 21 gennaio 2024 - “O tu, Palermo, terra adorata” è apostrofe che domina e può spiegare la concezione del teatro, musicale e di prosa, di Emma Dante. Per i suoi spettacoli la regista panormita ascolta i suggerimenti provenienti da quello stupefacente e unico incrocio di raffinate e millenarie culture che hanno plasmato e solcato strade ed edifici una città che è un microcosmo, che eleva al cubo vizi e virtù del nostro Paese, una ex capitale di un antico Regno-civiltà (per il nostro presente, un regno utopistico) che è un’esplosione barocca e soggiogante di bellezze artistiche e naturalistiche, di odori, sapori, di nette, decise e fendenti atmosfere.

Naturale che per mettere in scena al Teatro San Carlo I vespri siciliani - spettacolo coprodotto con il Teatro Massimo di Palermo, dove è andato in scena nella versione originaria francese Les vêpres sicilienne nel 2022 (Palermo, Les vêpres siciliennes, 20/01/2022), e con il Teatro Comunale di Bologna, nella versione italiana (Bologna, I vespri siciliani, 21/04/2023) - Emma Dante abbia voluto dar fuoco a tutto il potenziale di “palermitudine” che informa e alimenta il suo teatro.

L’impianto scenico disegnato da Carmine Maringola compone e scompone la cinquecentesca Fontana Pretoria: intorno ad essa si svolge la vicenda dei Vespri siciliani così come nella trasposizione drammaturgica immaginata dalla regista. Sullo sfondo nero si stagliano elementi decorativi siciliani: le teste di moro di terracotta, alti labari con le immagini delle eroiche vittime della mafia, i bracieri sui quali si arrostiscono in strada le stigghiole (presenti ancora nel quartiere della Kalsa), le immancabili coppole sul capo degli uomini, la processione di Santa Rosalia. Insomma, tutto il corredo iconografico immediatamente riconducibile a Palermo e alla Sicilia.

Il dramma di Verdi narra del tentativo di liberazione dei siciliani dal giogo degli angioini, (ma anche di tanto altro, di rapporti familiari conflittuali); Emma Dante si sofferma quasi esclusivamente sull’aspetto corale della ribellione verso l’oppressore, declinando quel tentativo di liberazione come il risveglio dei palermitani successivo all’orrore delle stragi mafiose del 1992.

I mafiosi, qui vestiti di tute acetate dai colori accesi e sempre inclini a sfoderare, impugnare e puntare la Beretta d’ordinanza, sono gli stupratori della cultura palermitana: gettano in scena, in apertura della meravigliosa Sinfonia, i pupi (dei mimi, in questo spettacolo), come a testimoniare la distruzione della cultura che ogni mafia persegue; rapiscono e portano con loro le ragazze come fossero sacchi dell’immondizia.

A questo mondo subcultrale, grezzo, senza tempo, violento anche nei colori dei costumi, si contrappongono i siciliani, portatori di una cultura religiosa (pleonastici e non sempre di buon gusto il riferimento alle processioni in onore di Santa Rosalia) e laica. Gli uomini e le donne in scena diventano testimoni e attori di una sorta Via Crucis laica, che si snoda tra le stazioni delle targhe toponomastiche, impresse sulla scena, che indicano i luoghi dove sono stati martirizzati le vittime della barbarie mafiosa.

I labari, issati come vessilli anelanti alla libertà sulla Fontana Pretoria, recano le immagini sorridenti e rassicuranti di Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Boris Giuliano, Peppino Impastato, Don Pino Puglisi, e di altri servitori dello Stato ed eroi civili della resistenza alla mafia.

La lotta all’oppressione abbraccia secoli differenti: i costumi, di Vanessa Sannino, sono ottocenteschi e contemporanei, realistici e onirici. Adoperando un metro estetico, non definibili “belli”: quello di Monforte, vestito con pellicciotto da boss mafioso/pappone è un vero pugno negli occhi.

Ma oltre la suggestione di reinventare la drammaturgia dei Vespri siciliani quale lotta contro l’oppressione mafiosa, le intuizione di Emma Dante sembrano arrestarsi sulla soglia di un complesso gioco di citazioni e rimandi. Appare, quindi, ben poco sviscerato lo scavo psicologico dei personaggio, dei loro rapporti interpersonali, a cominciare da quello travagliatissimo e complesso, tra Monforte e suo figlio Arrigo.

Emma Dante con questo spettacolo ci pone davanti a un ben costruito déjà-vuvisivo e iconografico che non appare scandagliato da una accurata indagine drammaturgica: la rivisitazione dei Vespri resta nell’epidermide del dramma, la polpa della drammaturgia resta indisturbata, immersa nel sonno. Ne esce uno spettacolo che è un polittico di scene, ben organizzate e costruite, che ruotano intorno alla Fontana Pretoria (anche detta “della vergogna”): viene restituita e accentuata, eccessivamente, l’ambientazione palermitana, ma i nodi dei drammi personali restano sullo sfondo, ben poco indagati.

L’eccesso di citazioni – ad esempio la scena finale, mutuata dal film Il padrino- Parte III di Francis Ford Coppola – chiude prosaicamente l’opera; desta ilarità la rappresentazione dell’ascensione al cielo della madre di Arrigo evocata da Monforte; invece, nella scena finale dell’atto III, abbaglia e stordisce il chiaro riferimento visivo all’oro dei mosaici della Cappella Palatina, del Duomo di Monreale e della Chiesa della Martorana: qui le luci di Cristian Zuccaro illuminano il bel fondale color oro quasi “amplificando” il sempre trascinante e catartico “Ah! Patria adorata”.

Se dall’aspetto teatrale di questi Vespri emergono ben più di qualche dubbio sullo sviluppo e sui limiti della concezione di fondo dello spettacolo, dal fronte musicale provengono note dolentissime e dolenti, inframmezzate da qualcuna lieta o meno dolorosa.

Tra le dolentissime, la concertazione di Henrik Nánási lascia perplessi, per scelta di tempi e accentazione, sin dalla Sinfonia.

Il maestro ungherese, che al San Carlo ha diretto nel 2022 due convincenti e lodati concerti sinfonici (qui, di seguito e in ordine cronologico, le due recensioni: Napoli, concerto Nánási, 20/01/2022 e Napoli, concerto Nánási, 14/12/2022) appare da subito estraneo al mondo musicale del Verdi dei Vespri: la sua è una lettura che non assicura il sincrono perfetto all’interno dell’orchestra, così come soprattutto, quello tra buca e palcoscenico (e il Coro, di cui diremo dopo, ne fa troppo spesso le spese in termini di precisione); ma soprattutto la concertazione appare lontana dalle esigenze del canto, farcita di troppi, eccessivi e vacui affondi sonori che non suppliscono all’assenza di reale tensione drammatica.

Il suono dell’Orchestra del San Carlo è buono, ma privo di sfumature e colori; probabilmente a causa del gesto poco chiaro e distinto del concertatore si ascoltano imprecisioni in più di un attacco. Il debutto di Fabrizio Cassi quale nuovo maestro del Coro del San Carlo, dunque, poteva avvenire in un contesto più favorevole; tuttavia, al netto del non perfetto sincrono tra buca e coro cui si è accennato, dopo le prove poco felici di Maometto II (Napoli, Maometto II, 31/10/2023) e della Messa in do minore K 427di Mozart (Napoli, concerto di Natale al San Carlo, 20/12/2023) il coro sancarliano sembra aver imboccato la strada della risalita dopo un temporaneo periodo di appannamento. Stasera si deve lodare soprattutto il suono omogeneo e compatto, nonché l’articolazione precisa e nitida prodotti dal Coro fuori scena.

Ciò che però si nota, e immediatamente, è lo squilibrio dei pesi sonori, imputabile a due fattori, alla concertazione di Henrik Nánási ma soprattutto all’esiguo numero di artisti del Coro presenti in scena: in un’opera come I vespri siciliani, dove il coro ha un ruolo fondamentale nella drammaturgia musicale, una compagine evidentemente sottodimensionata difficilmente riesce ad imporsi come “personaggio” ed esprimere tutto ciò che la scrittura e la distribuzione della drammaturgia di Verdi impone e pretende.

Nel complesso il cast vocale lascia il campo a molte perplessità che si provano ad esprimere seguendo l’ordine della locandina.

Ad oggi Mattia Olivieri non appare del tutto a proprio agio nei panni di Guido di Monforte: il bel timbro, sebbene troppo chiaro per questa parte, sconta qualche difficoltà di emissione laddove la scrittura vocale di Verdi richiede drammaticità e impone quasi di declamare note ribattute. Ecco che il colore finisce per sbiancarsi perdendo il pregevole smalto del baritono italiano. Il registro acuto è luminoso e sicuro, la linea di canto tendenzialmente ben tenuta nell’aria “In braccio alle dovizie”. Nei duetti con il figlio Arrigo, inoltre, appare mancare dell'adeguato peso specifico vocale richiesto dal ruolo di padre e dalla scrittura verdiana.

Una prova, quella di Olivieri, salutata dal pubblico con un tributo di applausi, ma che in chi scrive ha lasciato molte perplessità, principalmente sull’opportunità di affrontare la parte di Monforte facendo leva (e forzando) sull’attuale, sebbene pregevole, assetto dei mezzi vocali. L’interpretazione, infine, non appare tanto analitica quanto sono profonde e scolpite le sfaccettature psicologiche di quello che, tra i personaggi dei Vespri, è il più complesso, verso il quale Giuseppe Verdi proietta il proprio dramma di paternità mutilata.

Piero Pretti riesce a muoversi diligentemente e con professionalità nella estesa tessitura della parte di Arrigo; l’aria dell’atto IV, “Giorno di pianto, di fier dolore!”, lo vede in difficoltà nelle note del passaggio di registro, ma nel complesso delinea un Arrigo convincente per canto (e in una parte dalla scrittura vocale alquanto scomoda) e per fraseggio, che gli consente di delineare un personaggio tormentato.

Giovanni da Procida, l’unico personaggio dell’opera di cui è certa l’esistenza storica, si avvale della raffinata arte di fine e luciferino fraseggiatore di Alex Esposito; tuttavia non si può non registrare la sensazione di trovarsi, sin dall’introduzione alla magnifica aria “O tu, Palermo, terra adorata”, dinanzia una vocalità che naviga in acque musicali non del tutto a sé confacenti: il timbro, pur suggestivamente brunito e screziato, denota artificiosità nelle risonanze; la tessitura grave impone di ricercare sonorità ampie e profonde sapientemente costruite. Interprete acuto e incisivo, al netto dei distinguo espressi, Alex Esposito restituisce plasticamente a Giovanni da Procida la sua caratura di fanatico terrorista.

Spiace constatare lo sforzo vocale che affronta la pregevole vocalità di Maria Agresta nell’affrontare la parte della Duchessa Elena. Benché quella di Elena sia parte frequentata da oltre un decennio dal soprano italiano sui principali palcoscenici, si percepisce, netta e dolorosa, la sensazione della debole affinità della scrittura vocale e del suo peso specifico richiesto con le caratteristiche vocali di Maria Agresta, la quale finisce per scontare difficoltà nel dominio della tessitura e di tenuta sin dall’aria che incita alla rivolta i siciliani, “Coraggio, su coraggio”; dà il suo meglio, come era facile prevedere alla luce delle sue caratteristiche vocali, in “Arrigo! Ah, parli a un core”, mentre incerto risulta il suo bolero “Mercé, dilette amiche”, ultimo episodio di una prova, per chi scrive, poco convincente.

Ma a teatro il pubblico è tribunale supremo: dover di cronaca e onestà intellettuale impongono di affermare che, al termine dell’opera, la sua prestazione è stata salutata da calorosi applausi da parte del pubblico.

A completare il cast i ruoli comprimari, tutti precisi, solide colonne di supporto del grand opéra verdiano, benché in questa produzione privo dei magnifici ballabili dell’atto III e con qualche taglio di tradizione (ancora, nel 2024!); il Sire di Bèthune di Gabriele Sagona, il Conte di Vaudemont di Adriano Gramigni; la Ninetta di Carlotta Vichi, il Tebaldo di Antonio Garés, il Roberto di Lorenzo Mazzucchelli, il Danieli di Francesco Pittari e il Manfredo di Raffaele Feo.

Al termine, il pubblico del San Carlo, dopo gli applausi parchi e misurati elargiti a conclusione dei singoli atti, si scioglie in un lungo battimani prolungato e caloroso per tutti gli artefici, musicali e teatrali, dello spettacolo. Un successo convinto.


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