L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dalle tenebre alla luce

di Luigi Raso

L'apertura di stagione del Petruzzelli di Bari segna anche la prima esecuzione pugliese dell'unica opera di Beethoven. Se regia e concertazione non convincono appieno, la compagnia di canto inanella una serie di sorprese positive.

BARI, 30 gennaio 2024 - Opera dalla genesi travagliata, pietra miliare del teatro musicale incastonata lungo la strada dell’evoluzione del teatro musicale tra ‘700 e ‘800, composizione dalla drammaturgia teatrale alquanto tortuosa, Fidelio, per l’universalità dei temi etici di cui l’unica opera di Beethoven è portatrice (tra i vari, fratellanza universale, primato del diritto sull’arbitrio, condanna della violazione arbitraria della libertà personale, amore coniugale), si potrebbe definire opus philosophicum, e, in quanto tale, dramma in musica estremamente insidioso nel tradurre in una coerente, credibile e convincente messinscena.

Per l’inaugurazione della Stagione d’Opera 2024 la Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari sceglie l’allestimento proposto nel 2021 al Teatro La Fenice di Venezia, firmato da Joan Anton Rechi: uno spettacolo che nelle intenzioni del regista andorrano dovrebbe essere improntato al realismo (richiama la Spagna della Guerra Civile) e connotato dal richiamo all’elemento mitologico (il mito di Orfeo ed Euridice). Difficile, invero, ritrovare queste idee alla prova del palcoscenico: la visione di Rechi - al Teatro Petruzzelli ripresa da Gadi Schechter - avrebbe pur spunti interessanti e indagatori della drammaturgia dell’opera, ma, al termine dello spettacolo, si ha la sensazione che quanto annunciato nelle note di regia non sia stato tramutato in un disegno coerente e, soprattutto, che il concetto di fondo dello spettacolo sia rimasto relegato nell’informe spazio delle buone intenzioni.

Difficile scorgere la connotazione sivigliana (pur citata dal regista) nelle due plumbee scene, firmate da Gabriel Insignares: una grande testa reclinata - un rimando, forse, delle opere scultoree di Igor Mitoraj - per l’atto I e, per la prigione dell’atto II, un tunnel di cerchi concentrici. C’è poco altro: un montacarichi mobile che Don Pizarro adopera per guadagnare velocemente la vetta della testa reclinata al termine della aria “Ha, welch ein Augenblick”, badili, coltellini, pistole, un cappio per impiccare il tiranno.

I costumi di Sebastian Ellrich, a testimonianza dell’universalità del messaggio di Beethoven, rimandano a epoche eterogenee: alquanto generici nella realizzazione ma funzionali alla visione, essenziale, asciutta e irrisolta, che il regista ha dello spettacolo.

L’interazione tra i personaggi è curata, tuttavia i loro movimenti appaiono alquanto scontati e prevedibili. Efficace, invece, nel ravvivare l’impianto scenico eccessivamente statico nel colore plumbeo è il disegno luci di Fabio Barettin.

Una trovata registica che presenta spunti di originalità si è tuttavia riconosciuta durante l’aria di Leonore dell’atto I, “Abscheulicher! Wo eilst du hin?”, quando Florestan appare in scena e stringe la mano alla moglie: un’espressione di tenerezza, il ricordo del tempo felice nella miseria, ma che poco aggiunge all’intensità del tormento di Leonore e allo scavo nella drammaturgia dell’opera. Insomma, una regia che si limita a governare ciò che già è evidente nella drammaturgia, senza osare di aggiungere e approfondire aspetti più in ombra.

La concertazione è affidata al neo direttore stabile, Stefano Montanari, che opta, in luogo della consueta ouverture Fidelio op.72 (del 1814), per quella Leonore III (del 1806): è questa una scelta che condiziona, a giudizio di chi scrive, la tinta dell'intera lettura. La Leonore III, infatti, nella sua drammaticità dà l’impressione di svelare sin dall’apertura il finale trionfalistico dell’opera, oscurando quasi l’incipit (il delizioso duetto tra Jaquino e Marzelline) dalla spensierata e fugace felicità giovanile. Coerentemente, la concertazione di Montanari sembra predilige il passo drammatico, a volte alquanto greve nelle sonorità, non rinunciando però all’elasticità dell’agogica. Tempi spediti si accompagnano a sonorità talora troppo marziali; rallentandi indugianti e meditativi sono affiancati a improvvise strette che costituiscono l’ossatura della concertazione di Montanari, un po’ sbrigativa ma aderente al fluire della drammaturgia musicale.

Le esigenze del palcoscenico e del canto però non sempre ricevono le giuste cure da parte del concertatore: lo squilibrio sonoro tra orchestra e palcoscenico è più volte evidente, il respiro strumentale non segue quello dei cantanti.

L’Orchestra del Teatro Petruzzelli si dimostra compagine tendenzialmente ben disciplinata e in buona forma, dal suono netto e nitido, dall’articolazione – talora troppo marziale nelle indicazioni di Montanari – in genere ben scandita. Il Coro, affidato a Marco Medved, è formazione abbastanza compatta, ma non sempre cesellata: una monocromia in un’opera che, almeno per i due finali d’atto, richiede tinte e accenti diametralmente opposti.

È il cast vocale a riservare più d’una sorpresa positiva.

In rigoroso e obiettivo ordine di locandina, il Don Fernando di Modestas Sedlevičius è tra i punti di interesse di questa produzione: voce di adeguato volume e, soprattutto, di bellissimo smalto, emissione fluida, linea di canto elegante fanno del giovane baritono lituano una voce, per mezzi vocali, baciata da Madre Natura. L’interprete, seppur nella brevità della parte, si dimostra analitico e intelligente. A Don Fernando Beethoven affida una delle frasi musicali (e non solo) più belle di Fidelio, “Es sucht der Bruder seine Brüder, Und kann er helfen, hilft er gern” (Il fratello cerca i suoi fratelli, e se può soccorrere, volentieri soccorre): nell’articolazione di Sedlevičius la frase risuona elegante, luminosa e coinvolgente nel legato perfetto.

Vito Priante delina un Don Pizzarro dalla dizione tedesca precisa e idiomatica anche nei recitativi. Ha voce di buon volume, omogenea nell’intera tessitura, con acuti sicuri e svettanti, timbro brunito e caldo, fraseggio analitico, tutte qualità che gli consentono di scolpire un uomo torvo, divorato da sottile, ributtante e irredimibile malvagità. La sua aria “Ha, welch ein Augenblick” (Ah, quale istante) è cantata con gran sfoggio di risorse vocale, animata da terrificante perfidia: un’aria di furia cieca, dominata in tutti i complessi passaggi della scrittura vocale. Vito Priante, interprete credibile anche scenicamente, costituisce uno tra i punti di forza del cast di questo Fidelio.

Convince il Florestan di Jörg Schneider, pur a dispetto di un timbro troppo chiaro per la parte del prigioniero innocente: gestisce al meglio i suoi mezzi anche quando nel finale dell’opera accusa un momento di comprensibile appannamento: l’intelligenza dell’interprete e la buona tecnica gli consentono comunque di governare al meglio la momentanea difficoltà. Grazie al fraseggio ben calibrato e a un’emissione ben controllata quello di Jörg Schneider è un Florestan molto ben interpretato e efficace.

Helena Juntunen, al suo debutto nella ostica parte di Leonore, a fronte di un registro acuto luminoso e ben timbrato sconta scarsa consistenza in quello centrale e, soprattutto, in quello grave: alla carenza di adeguato peso specifico supplisce però con l’espressività di un’interpretazione lacerata.

Elegante nella linea di canto, empatico nella bonomia della caratterizzazione del personaggio è il Rocco di Tilmann Rönnebeck: bel timbro, ottimo fraseggio e varietà di accenti danno voce e corpo a un carceriere concreto, credibile e rassicurante nella sua bontà di cuore.

Francesca Benitez, nei panni di Marzelline, è un’altra piacevole scoperta della serata: voce ricca di armonici, dal bellissimo timbro luminoso e puro, linea di canto sicura ed elegante grazie all’eccellente emissione, ottima proiezione vocale. Ma a stupire, oltre alla bellezza di un timbro naturale nel suo colore, è l’acume interpretativo del giovane soprano: con fraseggio estremamente curato delinea una Marzelline palpitante, verace, arguta.

Soprano da tener d’occhio, al pari del baritono Modestas Sedlevičius, per gli sviluppi della carriera.

Jaquino compìto, ma che necessiterebbe di maggior polpa vocale, quello di Pavel Kolgatin: buona linea di canto, emissione fluida, convincente l’interprete.

A completare degnamente l’eccellente cast vocale, Vincenzo Mandarino, primo prigioniero, e Gianfranco Cappelluti, secondo prigioniero.

Al termine, dalla grande sala - quasi gremita - del Teatro Petruzzelli applausi calorosi, convinti e prolungati per tutti.


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