L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mahler, testamento aperto

di Alberto Ponti 

Il direttore ospite principale Robert Treviňo torna sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale per una serie di concerti inaugurata da una perfettibile ma intensa esecuzione della Nona sinfonia del compositore boemo.

TORINO, 13 febbraio 2025 - La Nona sinfonia (1909-10), testamento spirituale di Gustav Mahler insieme all'ampio frammento della Decima, può essere all'ascolto un'estasi oppure una sofferenza. E' tuttavia difficile che sia solo estasi perché ci vorrebbero un direttore stratosferico e un altrettanto stratosferica orchestra, che sono un connubio rarissimo sul mercato; è parimenti difficile che sia solo sofferenza perchè un direttore mediocre o una mediocre orchestra non affronterebbero una tal partitura. Alla prova dei fatti finisce per avere allo stesso tempo un po' dell'estasi e un po' della sofferenza. Non è una grande metafora dell'arte che, quando è somma, sublima anche la sofferenza, ma lo è molto di più della vita, di cui le sinfonie mahleriane sono specchio formidabile con i loro slanci, tormenti, contraddizioni e visioni.

Con questo non si intende sminuire il ruolo di Robert Treviňo e dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, autori di una prova di alto livello alle prese con il monumentale pezzo, ma è un dato di fatto che non sempre, nell'ora e mezza di fluire ininterrotto del discorso mahleriano, si è instaurato quel magnetismo tra pubblico e interpreti che suggella una serata indimenticabile. Treviňo è un direttore che sa il fatto suo, in grado di estrarre il meglio in termini di resa timbrica dal vasto stuolo di forze chiamate a raccolta dal compositore, anche se, a tratti, specialmente nel primo movimento, pare lasciar correre qualcosa dal punto di vista dell'attenzione al dettaglio. Non difettano i contrasti, dispiegati con sontuosa acribia, tra le diverse sezioni di un tempo che inizia come Andante comodo, trasfigurandosi poi in un rabbioso e appassionato Allgero, prima di chiudersi a cerchio con un ultimo Andante, dove la scrittura, che tanto colpì Alban Berg alla prima esecuzione postuma viennese nel 1912, rasenta come non mai l'incipiente espressionismo. Ciò che manca nell'interpretazione di Treviňo è semmai l'emergere delle ambiguità, degli smarrimenti di fronte al cammino da intraprendere che fanno del movimento un unicum nella stessa produzione del suo autore, a cominciare dal motivo iniziale, una sola nota ribattuta che rimbalza, klangfarbenmelodie ante litteram, tra vari strumenti senza trovare in apparenza una propulsione al moto, impresso invece da scarni e asciutti rintocchi dell'arpa e fruscii delle viole. Sotto la bacchetta del maestro statunitense tutto è netto, squadrato, privo di mistero.

Ragguardevole è il risultato nei due tempi centrali, dove gli interrogativi esistenziali dell'ultimo Mahler sono sommersi tra le maglie di una lussureggiante orchestrazione, capace di mettere a dura prova la tenuta di qualsiasi compagine di musicisti. L'OSN Rai ne esce a testa alta, tanto nel goffo Ländler in seconda posizione, lontano e irriconoscibile parente di quello analogo della Seconda sinfonia, quanto nel successivo, catastrofico Rondo-Burleske. Se proprio si deve trovare una pecca, nella lettura di Treviňo, è semmai una brillantezza di suono e di tratto talvolta esagerata, il piede calcato su certe figurazioni ritmiche, lo sfavillio scintillante degli interventi dei legni, quasi fosse l'anticamera del Sacre du printemps.

I faticosi equilibri, nell'economia della composizione, sono destinati a trovare un contrappeso nell'Adagio finale, colpo di genio in cui Mahler riconduce la dialettica di contrasti in apparenza inconciliabili dei tempi precedenti, oscillanti tra sconforto ed esaltazione, a una sintesi finalmente pacificata, introdotta dal luminoso timbro dei violini e destinata, dopo due incandescenti climax, ad estinguersi alle soglie del silenzio. La direzione di Treviňo si fa qui più aderente alle intenzioni dell'autore, il fraseggio si stempera in arcate ricche di screziate nuances, le voci si amalgamano per larghi tratti come unico strumento, assottigliandosi ed espandendosi in sintonia con il battito di un cuore che, davanti alla fine imminente, si alimenta della speranza di chi tutto ha compreso perché nulla più ha da sperare. L'Adagio metafisico della Decima è dietro l'angolo.

Per lunghi istanti la sala resta sospesa dopo lo spegnersi (ersterbend, come indicato in partitura con triplo pianissimo) dell'ultimo accordo di re bemolle maggiore, poi la tensione si scioglie in applausi per tutti gli esecutori, acclamazioni per le prime parti e numerose chiamate in scena per il direttore.

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