L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Poca tensione, molto fragore

di Luigi Raso

Esito interlocutorio per il concerto che ha visto al San Carlo la violinista Simone Lamsma alle prese con il Concerto di Beethoven e il direttore Constantin Trinks impegnato anche nella Quarta di Čajkovskij.

Napoli, 28 marzo 2025 - Se all’omega la tradizione del concerto per violino e orchestra non è ancora pervenuta (si pensi, giusto per citare un esempio, ai tanti pezzi scritti da compositori e compositrici contemporanee per la magnifica Anne-Sophie Mutter), l’alfa invece si può legittimamente individuare nel Concerto per violino in re maggiore, op. 61 di Ludwig van Beethoven (del 1806), capolavoro indiscusso della letteratura del genere di ogni tempo. Interpretato e inciso dalla quasi totalità dei grandi solisti dell’età contemporanea, oggi le ipotesi interpretative possono così riassumersi: 1) riproporre letture del passato; 2) accontentarsi di una correttezza esecutiva, che si limita a risvegliare quelle suggestioni insite nella assoluta e intrinseca bellezza della scrittura di Beethoven; 3) infine, ma quest’ultima è una virtù serbata a pochi, proporre nuovi e fantasiosi spunti.

Alla seconda categoria di queste opzioni va ricondotta la lettura priva di guizzi interpretativi e approfondimenti della violinista olandese Simone Lamsma. Le prime battute della sua parte – con la meravigliosa sequenza di acciaccature - fa temere per il prosieguo del concerto a causa del suono piccolo e tagliente, estremamente “freddo” e, in particolare, per un’intonazione alquanto imprecisa.

Per fortuna, nel corso del movimento il suono raggiunge un calore e un colore accettabile, la precisione dell’articolazione fa breccia e il ricordo della sbandata iniziale lentamente evapora. Purtroppo l’intera esecuzione dell’ampio primo movimento resta relegata in una lettura che rinuncia ad addentrarsi nelle pieghe dello spartito, incapace di catalizzare l’attenzione sulla solista. Domina una correttezza di fondo (conquistata dopo l’incipit estremamente problematico) ma che, ritornando alla personale classificazione iniziale sulle ipotesi interpretative del Concerto di Beethoven, non va oltre una sussiegosa linearità esecutiva, con un bel suono rotondo; ma oltre alle emozioni che la musica di Beethoven suscita di per sé, la lettura di Simone Lamsma aggiunge davvero poco.

Purtroppo, neppure dall’Orchestra del San Carlo diretta da Constantin Trinks vengono in aiuto interessanti spunti e una lettura quantomeno pulita: l’esecuzione si limita a cercare la correttezza, che non sempre è raggiunta. Trinks dà poi l’impressione di voler spaccare il capello in quattro, di addentrarsi in un labirinto di analisi dal quale però non si intravede la via di sintesi e di uscita: il discorso musicale generale, quindi, diventa tortuoso, frammentato, oscillante in allargamenti agogici che, privi di elementi interpretativi davvero interessanti, raffreddano il fluire delle emozioni del concerto.

Nel Larghetto del secondo movimento Lamsma e Trinkssi limitano a ricordarci quanto sia ultraterreno, inspiegabilmente sublime il librarsi in volo dello struggente lirismo del tema del violino.

Infine, ben poco energico, impreciso e non esente da pecche di intonazione, è l’attacco, senza soluzione di continuità, dal Larghetto al Rondò: Allegro del terzo movimento. Qui il gesto di Trinks, a dispetto della platealità, ottiene ben poco quanto a incisività e troppo quanto ad affondi sonori: poca tensione, molto fragore.

Simone Lamsma, al suo debutto al San Carlo, riceve applausi calorosi: regala un bis, di natura prettamente virtuosistica: il quarto movimento Les furies dalla Sonata n. 2 op. 27 di Eugène Ysaÿe, che le dà modo di farsi apprezzare per le doti tecniche e di virtuosa, per il suono corposo e dal bel colore.

Purtroppo la direzione di Constantin Trinks convince ancor meno nell’esecuzione della successiva Sinfonia n. 4 in fa minore, op. 36 di Pëtr Il'ič Čajkovskij (del 1878): sin dalla inquietante raffigurazione della “...potenza del destino che ostacola il nostro desiderio di felicità...” (da una lettera di Cajkovskij all’amica e mecenate Nadezda von Meck) della fanfara iniziale emergono i notevoli problemi tecnici (di sincrono e di intonazione, in particolare dei legni) che si ripresenteranno nel corso della Sinfonia. Il gesto di Trinks dà l’impressione, confermata dalla resa acustica, di rendere arduo ottenere coesione e buon bilanciamento nei rapporti sonori tra le sezioni. Ne deriva, soprattutto per il primo tempo, un’esecuzione in cui si riscontrano troppe mende, disattenzioni, problemi di tenuta generale.

Certi allargamenti agogici che Trinks chiede finiscono per rendere incoerente il discorso musicale, che raramente si erge da quella superficialità interpretativa nel quale è immersa l’intera Sinfonia.

Meglio fanno Trinks e l’orchestra nel successivo crepuscolare Andantino in modo di canzona del secondo movimento, apprezzabile per il contegno e il suono sontuoso degli archi; di bell’effetto poi, lo Scherzo. Pizzicato ostinato del terzo movimento.

Nelle intenzioni di Cajkovskij il quarto movimento, Finale. Allegro con fuoco, è una festa popolare: Trinks, più che dall’ilarità oscurata dall’apparire improvviso e sardonico, nel finale, del tema della “potenza del fato che ostacola il nostro desiderio di felicità”, appare attratto dai tonitruanti effetti sonori degli ottoni con i quali si chiude la Sinfonia. E ancora, poca tensione, molto fragore.

Lunghi e calorosi applausi salutano l’esecuzione della Sinfonia, il direttore Constantin Trinks, l’orchestra del San Carlo, le sue prime parti e due professori, il violinista Daniele Baione e il flautista Gianpiero Pannone, che, visibilmente emozionati, con questo concerto si congedano dall’orchestra per quiescenza.

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