Bellini dalla parte della cattedra
Con Michele Spotti, Jessica Pratt, Mert Süngü e Maria Laura Iacobellis, ecco, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, una Norma capace di sbaragliare quasi ogni altra.
FIRENZE, 9 marzo 2025 – In un mondo sempre più interconnesso e dunque rimpicciolito, anche l’Italia melomane ha assistito in prima fila al derby viennese, nelle stesse ultime settimane, tra una Norma al Theater an der Wien (16 febbraio - 7 marzo) e un’altra, nemmeno cinquecento metri più in là, alla Staatsoper (22 febbraio - 15 marzo). Notevole il dispiegamento di forze musicali: Francesco Lanzillotta vs Michele Mariotti, Asmik Grigorian vs Federica Lombardi, Aigul Akhmetshina vs Vasilisa Berzhanskaya e Freddie De Tommaso vs Juan Diego Flórez (ma nessuno di temibile vs Ildebrando D’Arcangelo). Quale sarà stato il miglior assortimento per il capolavoro di Vincenzo Bellini? Tra due litiganti, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha riso sotto i baffi e scodellato, per quattro recite (9-18 marzo), una Norma capace di sbaragliare quasi ogni altra negli ultimi dieci, venti, trenta e forse -anta anni (con rispetto per Riccardo Muti). Quel ch’è certo, si è trattato della più necessaria, idiomatica ed esemplare lettura per i tempi presenti, nei quali scabrosamente convivono, con picchi mai visti prima, il falso-creduto-vero dell’ipocrisia massmediatica e il vero-creduto-falso della consapevolezza filologica. Si sta parlando della lettura musicale, dal momento che quella di Andrea De Rosa, più personalmente registica che trasversalmente teatrale, con scene di Daniele Spanò e costumi di Gianluca Sbicca, pare il generico e inefficace trionfo del giro intorno a un punto drammaturgico che però non arriva: al momento di scriverne sono ormai rimasti alla memoria soltanto i molesti rumori di palcoscenico per uso indebito d’acqua che ondeggia, schizza o gocciola, e si rimpiange che il varo di questo nuovo allestimento abbia rimpiazzato la ripresa di quello, affilatissimo e indimenticato, con regìa di Moshe Leiser e Patrice Caurier, per il Festival di Salisburgo del 2013.
Il principale artefice della lettura musicale – e come tale, nell’opera, di una lettura anche teatrale – è il concertatore Michele Spotti, còlto ancora una volta nell’illuminante pienezza del suo ruolo. Egli conosce analiticamente il repertorio intorno a Norma, si è gettato a capofitto nello studio dell’opera, sa dunque metterla poeticamente in prospettiva, la dirige integralmente, senza comodi automatismi e con la stessa devozione tributata a uno Schubert, un Berlioz o un Mendelssohn, cerca tuttavia nella partitura il vero e non lo strano, definisce infine con chiarezza di pensiero un obiettivo e sa come conseguirlo dal punto di vista sia tecnico (con i cantanti e le maestranze) sia comunicativo (col pubblico, pur eterogeneo). Sono qualità che parrebbero scontate e invece si rintracciano di rado: figurarsi in un Bellini, figurarsi tutte assieme. Il risultato è quello di una Norma come se la si vedesse per la prima volta senza il filtro di un vetro smerigliato. Esempi. Le lunghissime melodie belliniane, anziché sedersi su sé stesse, si protendono energiche e tengono col fiato in sospeso lungo un discorso in continua evoluzione e di rivelatorio apporto paesaggistico e narrativo. Le parti dei fiati balzano a un piano più avanzato, con la loro preziosità di scrittura, senza che si rischi mai il calligrafismo: sono semplicemente state riscattate dalla melma della tradizione, a maggior gloria di un’Orchestra del MMF motivata a entusiasmare. Non mancano le reminiscenze militari napoleonico-spontiniane: filologi accontentati. E insomma il tempo vola, poiché la Norma di Spotti non concede tregua intellettuale ed espressiva, e bandisce così quei soliti parassiti belliniani che sono la noia e la distrazione. Se davvero il Teatro del MMF è in cerca di un nuovo direttore musicale con calibro internazionale, non si lasci sedurre da un’esterofilia senza prova sul campo, e si ricordi di questo artista provvidenziale.
La mano destra del lavoro di Spotti è Jessica Pratt. Si tratta non di una virtuosa che si concede lo sfizio di debuttare nella parte protagonistica, per il gusto di aggiungerla al cumulo delle Lucie e delle Elvire, ma dell’attuale primadonna donizettiana e belliniana di riferimento, forte di una palese onnivalenza utile a chiudere il becco a molti vociologi. Insomma, fin dalla sua prima, emozionata recita, è una Norma con tutte, tutte le carte in regola, degna di affrontare l’esame dalla parte della cattedra. Ciò avviene in virtù dei vanti risaputi: conseguimento della naturalizzazione linguistica e stilistica italiana, estensione completa anche senza espandersi nel registro di petto, fiati estesissimi e legato ipnotico onde sovrumanizzare la frase, vocalizzazione liquida e – dove serve – vigorosa, sbalorditiva facoltà di modulazione e dunque di sfumare virtuosisticamente attuando le istanze sceniche. Di specifico v’è invece l’inesausta cura di messa a punto psicologica – immedesimata, modernissima – di un personaggio enciclopedico, nel quale si tratta non di trovare la via, ma di tenerne insieme un gran numero, anche combattute a vicenda e contraddittorie. Benvenute le variazioni inedite in luogo di quelle, stantie, di tradizione; emblematico l’intonare «Casta diva» in Sol maggiore, anziché nell’usuale trasposizione un tono sotto, e il mostrare di conoscere l’edizione critica – pur qui non adottata – rettificando alcune lezioni melodiche; sorprendente l’autorevolezza dell’accento: lo spessore drammatico può infatti venire più dal cervello che dai decibel. È una fortuna che lì accanto vi siano il Pollione musicalissimo, ferratissimo ed elegantissimo di Mert Süngü, nonché l’Adalgisa di Maria Laura Iacobellis, capace di non sconfinare sopra le righe benché in lei stia una Norma in fieri. Ruvido l’Oroveso di Riccardo Zanellato. Coro del MMF non meno superbo della superba orchestra.
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