L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Anteprima del Theater an der Wien

di Francesco Lora

Al Teatro alla Scala e in coproduzione col più vitale tra i teatri viennesi, L’opera seria di Calzabigi e Gassmann va in scena piacevolmente ma menomata di un contesto: direzione di Christophe Rousset, regìa di Laurent Pelly e spicco canoro di Pietro Spagnoli, Mattia Olivieri, Julie Fuchs e Alessio Arduini.

MILANO, 6 aprile 2025 – A tre quarti del Settecento, Florian Leopold Gassmann fu un operista di successo, prima sulla scena pubblica di Venezia e poi alle dipendenze imperiali di Vienna; praticò il linguaggio musical-teatrale italiano tipico dei suoi anni, invero piuttosto convenzionale, stereotipato e prevedibile, in favore del virtuosismo canoro allora all’apice e di una librettistica capace d’innovazioni; ciò non gl’impedì di essere il maestro di Antonio Salieri e di spartire il teatro con leoni vecchi o nuovi come Johann Adolf Hasse e Christoph Gluck. La sua smagliante e umoristica Opera seria, data al Burgtheater di Vienna nel 1769, è composta su un libretto nel quale consiste forse il capolavoro di Ranieri de’ Calzabigi: i versi del celebre teorizzatore e collaboratore della riforma gluckiana, d’altra parte, stanno spanne dietro il rilievo loro dato da musiche memorabili in Orfeo ed Euridice, Alceste o Paride ed Elena, mentre questo esilarante libretto meta-teatrale, esemplato sul Teatro alla moda di Benedetto Marcello e irridente ai clichés testuali e sociali del mondo operistico, basterebbe a reggere da solo lo spettacolo. La presentazione degli autori e del lavoro si rende necessaria nel dar conto di cinque recite dell’Opera seria al Teatro alla Scala, dal 29 marzo al 9 aprile: si tratta infatti del nuovo allestimento di un titolo fin troppo raro, ammiccante e specialistico, insolito in una programmazione che esita altrimenti ad allontanarsi dal grande repertorio.

In ciò sta appunto il problema: poche volte si è visto il pubblico della Scala ridere più di gusto – istintivamente – alle battute di un’azione spassosissima, ma lo stesso pubblico se la sarebbe meglio goduta se premunito – come non è stato – delle necessarie chiavi di lettura. Un esempio fra i molti possibili: l’aria «Delfin, che al laccio infido | trasse di tonni un stuolo, | guizza per l’onde a volo, | corre festoso al lido, | e fa co’ scherzi suoi | bianco di spuma il mar» sarebbe la scherzosa parodia di «Destrier, che all’armi usato | fuggì dal chiuso albergo, | scorre la selva, il prato, | agita il crin sul tergo | e fa co’ suoi nitriti | le valli risuonar»; questi ultimi sono versi da Alessandro nell’Indie di Pietro Metastasio, ma per renderli riconoscibili occorrerebbe che la Scala ne avesse fatta prima ascoltare, con l’opera intera o almeno in recital, una delle famose intonazioni musicali, da Leonardo Vinci (per Giovanni Carestini) a Nicola Porpora (per Carlo Broschi Farinelli). Ciò non è avvenuto. Il più ricco teatro italiano, negli ultimi anni, ha anzi fatto un investimento di vistosa minoranza quantitativa e qualitativa proprio nel genere che permetterebbe la decodificazione del lavoro di Calzabigi e Gassmann: l’opera seria. Accade così che L’opera seria – quella scritta con la maiuscola e in corsivo – vada in scena piacevolmente ma menomata di un contesto. Il pasticcio è che l’arzigogolo musicologico, il quale potrebbe pacificamente rimanere cavillo, sospetto o illazione, trova invece puntuale corrispondenza nei limitati esiti dello spettacolo.

Nel concertatore Christophe Rousset, qui alla testa dell’orchestra della Scala frammista con elementi dei propri Talens lyriques, andranno sempre lodati il rigore di lettura e la coscienza di stile, a maggior ragione considerata la loro penuria in numerosi e pur osannati colleghi: la direzione, però, risulta qui anche singolarmente spenta e meccanica. Un simpatico e idiomatico design distingue a sua volta l’allestimento con regìa e costumi di Laurent Pelly, scene di Massimo Troncanetti, luci di Marco Giusti e Lionel Hoche; a trascinare, tuttavia, è più l’affilato libretto di Calzabigi che la sua generica attuazione registica, mentre l’impianto scenico eccede in minimalismo per stare in proporzione con l’enorme sala. Mistero svelato: si tratta di una coproduzione col Theater an der Wien, dove L’opera seria sarà rappresentata l’anno prossimo con una locandina quasi identica a quella milanese, ma in uno spazio meno vasto e più idoneo, e nell’àmbito di un cartellone dove l’opera seria del Settecento è pane quotidiano. Sentore triste: non sarà forse che alla Scala sia stata offerta la scialba, frettolosa, poco motivata e decontestualizzata anticipazione di uno spettacolo destinato a essere invece rifinito a Vienna, col vantaggio tutto austriaco di un risparmio sui tempi di prova e di un corposo collaudo dal quale ripartire?

Il valore delle recite milanesi, del resto, sembra consistere soprattutto nella preacquisita esperienza e nell’ingegnosa iniziativa di alcuni, singoli cantanti, più che sulla messa a punto di un disegno musicale e teatrale collettivo. La pietra di paragone in fatto di classe canora e attoriale – fragranza di porgere, chiarezza di dizione, forbitezza di scuola – è data da Pietro Spagnoli, veterano in ogni senso, compreso quello di conoscere già la parte dell’impresario Fallito: l’aveva sostenuta nel 2003, a Parigi, sotto la smaliziata direzione di René Jacobs. Nel 2016, a Bruxelles, egli aveva approcciato anche quella del librettista Delirio, che ora passa invece a un Mattia Olivieri istrionico, sanguigno, incisivo, capace di calarsi – da aitante che sarebbe – in stralunati e credibili panni senili. Alla controparte del compositore Sospiro, Giovanni Sala reca mezzi appena dignitosi; dunque si resta di sasso, poiché era annunciato per debuttare a Bologna, nel febbraio scorso, addirittura quale Edgardo in Lucia di Lammermoor. A quattro cantanti tocca interpretare altrettanti virtuosi, e dunque giocare con la propria identità, cantando nel canto. L’operazione riesce in modo formidabile all’ironica e siderea mattatrice Julie Fuchs, come prima donna Stonatrilla, ma lascia scarso segno nell’onesto e non geniale lavoro di Andrea Carroll e Serena Gamberoni, rispettivamente come seconda donna Smorfiosa e come secondo uomo Porporina. Quanto a Josh Lovell, nella parte del primo uomo Ritornello e per un orecchio italiano, si tratta di un tenore afflitto dai limiti naturali, dai vezzi tecnici e dai residui fonetici tipici dell’area anglofona, con l’effetto di dare involontario spessore comico al personaggio tramite i propri stessi, inconsapevoli difetti. Il comparto baritonale, già ottimo, è completato benone dall’affabile ed energico Alessio Arduini, nella parte di Passagallo (il concomitante compositore dei balli). Resta il trio delle partigiane, pettegole e pericolose madri fisse a presidiare i camerini delle figliole cantanti: Lawrence Zazzo incarna Befana con connaturata fiacchezza, Filippo Mineccia incarna Caverna con grottesca correttezza, Alberto Allegrezza incarna Bragherona con vera arte del dire. Abbondanza di tagli alla partitura, col paradossale risultato non di evitare al pubblico il rischio di noia, bensì di negargli occasioni di spasso.

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