L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

E sarà un progresso

di Roberta Pedrotti

 

Marcello Conati

Piegare la nota: contrappunto e dramma in Verdi

«Historiae musicae cultores» CXXVII, collana diretta da Virgilio Bernardoni, Lorenzo Bianconi e Franco Piperno

Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2014

pagine XXII-209

ISSN 0073-2516

Su Verdi si è scritto molto, ma non sarà mai troppo, forse nemmeno mai abbastanza, per quanto alcuni contributi abbiano il valore di pietre miliari.
E una pietra miliare sono gli studi di Marcello Conati, frutto di una vita che era iniziata, in realtà, nel segno di Wagner, per influenza paterna, e dei grandi del '900. L'amore per Verdi si è sviluppato con l'esperienza, libero da pregiudizi e suggestioni originarie, ancor più profondo e lungimirante.
Non si tratta, nel caso dei saggi pubblicati ora da Olschki, di contributi inediti e originali, ma, ed è dato ancor più prezioso, di scritti fondamentali pubblicati fra il '69 e il 2006 finora accessibili solo al pubblico limitato degli atti accademici o, al più, degli spettatori che abbiano acquistato un programma di sala particolarmente curato (nel caso specifico, quello della sfortunata Aida scaligera del 2006, che offriva quindi alla lettura i suoi pregi migliori).
Iscritte fra un Preambolo e un Commiato, ecco ora in un unico volume nove Ricognizioni di origine eterogenea, ma incredibilmente compatte, nonostante l'ampiezza panoramica dello sguardo e degli argomenti e la focalizzazione sui dettagli, nell'iscrivere un percorso che dall'Oberto del debutto teatrale al sigillo di una carriera con i Quattro pezzi sacri.
Quel che però, innanzitutto, balza all'occhio e merita una lode particolare, è la bellezza della lingua. Quello di Conati è un italiano forbito, ma non antiquato, non artificiosamente ricercato: è un bell'italiano dalla prosa chiara, dalla fluida articolazione della sintassi, dal vocabolario ampio e puntuale. Un piacere ulteriore, raro e sottile, oggi.
Verdi, dunque, a partire dall'Oberto, del cui esito positivo oggi non dubitiamo più, ma le cui sorti iniziali prima delle indagini del Nostro, negli anni '60, furono a lungo  velate d'incertezza. Rileggere queste righe sulla ricezione internazionale del debutto scaligero resta comunque illuminante del dibattito musicale, di giudizi e pregiudizi, del tipo di attenzione che suscitavano nuove opere e nuovi maestri anche oltre confine. Ci offre una prospettiva che la nostra posizione storica tende inevitabilmente a negarci. Parimenti l'analisi musicale della scrittura d'un talento forse a tratti acerbo, ma spiccatissimo e, soprattutto, rigorosamente formato con un maestro di vecchia scuola napoletana, aiuta a rileggere finalmente in piena luce il celeberrimo – e abusato – aforisma “tornate all'antico e sarà un progresso”. In realtà l'appello è ben contestualizzato nel dibattito sulla formazione musicale in Italia e non presta il fianco a interpretazioni che piacerebbero ai passatisti e ai tradizionalisti a tutti i costi: si vuol semplicemente dire che lo studio della composizione dev'essere rigoroso e non può esimersi dalla pratica del contrappunto, dell'esercizio e dall'analisi dei modelli di Palestrina e dei monumenti della dottrina musicale del passato. Questa formazione non esclude il fatto che Verdi senta un'esigenza di riforma del contrappunto e dell'armonia, che egli stesso non li tratti liberamente, spregiudicatamente a fini teatrali. Ma, appunto, li tratta: padroneggia gli strumenti e può così rinnovarli, può utilizzarli in tutto il loro potenziale, può disporre del potere di “piegare la nota”; un potere che, se vengono a mancare o rigore e profondità di conoscenza o coraggio rivoluzionario d'artista, inevitabilmente s'ottunde, scivola nell'accademia sterile o nell'altrettanto sterile confusa ribellione fine a se stessa.
In questo, e non solo in questo, Verdi è un modello. Si divertirà fino agli ultimi giorni a praticare privatamente esercizi di armonia e contrappunto (salvo poi, su insistenza di Boito e Ricordi, pubblicare come quarto Pezzo sacro quell'Ave Maria, nata quasi per gioco e alla cui genesi Conati dedica uno dei suoi racconti più gustosi) e con lo stesso spirito curioso, concreto, profondo e infaticabile continuerà a ricercare e sperimentare nuove forme di drammaturgia musicale, facendo della musica la misura del dramma, e modellandola letteralmente sulla scena, forte proprio della sua dottrina teorica.
Leggendo del Verdi che studia i macchinari più all'avanguardia e immagina soluzioni inedite per il suo Macbeth, osservandolo alle prese con le scene del Simon Boccanegra o di Aida, con la verità teatrale, il gioco, quasi, d'inquadrature e prospettive dei duetti, lavorare sull'illuminotecnica e insistere per l'affermazione delle scene tridimensionali e praticabili verrebbe quasi da considerarlo, oltre che demiurgo, uno sperimentatore ante litteram. Di certo un uomo di teatro progressista e coraggioso, di quelli che fanno inorridire le vestali e i custodi di una tradizione il cui vessillo sembra proprio essere l'appello travisato al ritorno al passato. Il passato è sacro, ma come spinta propulsiva verso il futuro, la conoscenza dev'essere profonda e rigorosa, ma perché conduca a una continua evoluzione: questo l'allievo di Lavigna che sudava sui contrappunti lo sapeva bene, sia quando scriveva i pezzi d'assieme per il suo debutto alla Scala, sia quando studiava come valorizzare le tecniche diverse delle prime ballerine nei Vêpres siciliennes a Parigi, o come rendere lo smarrimento di Aida, i contrasti fra Lina e Stiffelio, o ancora come tradurre in musica ciò che gl'interessava di un dramma di Schiller, Kabale und Liebe, dalla spiccata caratterizzazione sociale.
Parlando di Verdi, Conati, sempre documentatissimo, ci offre squarci anche di storia della danza, di illuminotecnica, di vita quotidiana in teatro. Ci fa respirare l'aria torbida, perfino soffocante, di sale illuminate da lumi a gas e di un tempo in cui fumare un toscano in un palco era considerata cosa naturalissima. Comprendiamo così meglio, al di là delle maggiori possibilità in termini di intensità, stabilità e gradazioni, la portata dell'introduzione della luce elettrica in teatro (che, pure, come ogni novità, qualche dubbio a tutta prima pare averlo suscitato in qualcuno). Comprendiamo che già nel '47 Verdi auspicava quel buio in sala che “per decenza” in Italia fu impossibile ottenere, mentre riuscì a Wagner – certo, facendosi edificare un teatro personale a proprio uso e consumo. Osserviamo, nelle fonti e nella prosa di Conati, mille e mille dettagli di quotidianità teatrale che la vulgata spesso fa sfumare, ma che risultano in realtà fondamentali alla piena focalizzazione di un'epoca, di un artista e della sua opera per molti versi rivoluzionaria.
Un libro tutto da leggere e rileggere,: il musico vi troverà numerosi esempi, documenti (anche le celebri lettere relative alla messa in scena del Macbeth, pure fra i testi più distorti, frammentati e citati a sproposito dell'epistolario verdiano) e spartiti in fac simile, analisi acute e accurate; chi non ha dimestichezza con il pentagramma non sarà penalizzato, tuttavia, e potrà del pari godersi la narrazione storica, le osservazioni teatrali, tutto il gusto di Verdi, un uomo dal quale non si finirà mai d'imparare, sul quale non si finirà mai di riflettere.
Con la cura scientifica ed editoriale sempre impeccabile di Olschki si apprezza la scelta della carta, la copertina sobria, in colori neutri, senza patinature. Un libro serio, ma incredibilmente godibile, che non potrà mancare nella biblioteca dello studioso come dell'appassionato che ami concedersi qualche buona lettura d'approfondimento.


 

 

 
 
 

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