L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Simon Boccanegra, il tempo della festa

 di Francesco Lora

Il Teatro La Fenice inaugura la stagione 2014/15 con una lettura ineffabile del capolavoro verdiano: la concertazione di Chung trasfigura i complessi veneziani e una compagnia di canto d’eccellenza.

VENEZIA, 6 dicembre 2014 – Un esempio circoscritto a Venezia. Mille sono i negozi che vendono opere in vetro di Murano, e centinaia sono quelli che spacciano per tale chincaglierie cinesi o – se va di lusso – cristallo toscano ritoccato con colori improbabili. Poi ci si ritrova nel negozio che vende i lampadari di un Ferro, i vasi di un Seguso o le miniature di un Toffolo: e basta vedere quelle opere, figlie di una tradizione locale nobile e autentica, per far apprendere anche al neofita dove stia di casa il capolavoro, e quali idee e quali tecniche ne fecondino il germoglio. È questo il caso anche del nuovo Simon Boccanegra che ha inaugurato la stagione 2014/15 del Teatro La Fenice (sei recite dal 22 novembre al 6 dicembre). Alla storia recente della partitura verdiana non sono mancati i concertatori di lusso, da Abbado a Solti, da Gatti a Thielemann e da Barenboim a Muti; è un’opera ammirata, studiata, servita a palati fini, avvezza a declinazioni diverse e assai spesso di rango.

Cosa ne abbia cavato Myung-Whun Chung nelle recite veneziane, è esaltante e impotente riferirlo. Non vi si trova una via interpretativa impressa dal direttore, in senso narrativo o psicologico; si tratta invece di un vertice di equilibrio, dove la musica è presentata nel rispetto del segno e della varietà poetica, e che nel contempo dimostra come il testo di un’opera non consista solo in ciò che è scritto, ma pure in ciò che la profonda comunione con una cultura instilla, consiglia e insegna. Le evocazioni naturalistiche dell’onda che si frange, dei bagliori lunari e dell’alba, sono con Chung studi d’orchestra tanto più virtuosistici per il fatto stesso di risultare semplici e naturali, impalpabili e scorrevoli, cangianti e giocosi. Nel duettino di Fiesco e Adorno convivono come non mai, affascinando e conturbando, gli opposti dell’ariosità paesaggistica sul lungomare ligure, spirante nello struggente legato alle parti acute, e delle ombre di bassi e contrabbassi venuti a ricordare la vicina monumentalità della «città superba».

E gli assoli strumentali sono l’esempio più facilmente isolabile di quanto la linea melodica in campo aperto, tra consegna del direttore e realizzazione del professore, possa essere flessa in vista di una precisa intenzione espressiva e narrativa, attingendo esiti al di sopra di ogni sfrenata immaginazione teatrale e musicale: non esiste un segno per descrivere, in partitura, una tale festa di gesti e colori; figurarsi se ci può riuscire un critico musicale. Va da sé che in un tale orizzonte l’Orchestra della Fenice si copre di gloria, subito seguìta dal relativo Coro preparato da Claudio Marino Moretti: si apprezza la qualità tecnica, ma a fare la differenza rispetto ai più blasonati complessi internazionali è proprio la sollecitudine a recepire e rendere la sfumatura, l’indugio e il canto, non adattandolo al singolo momento come sorprendente atto esibizionistico, ma inserendolo in un percorso retorico coerente, tanto sfarzoso quanto foriero di commozione. Cose che si ascoltano solo in Italia, e nell’Italia migliore.

Nella bottega di Chung avviene poi pressappoco quello che raccontava un vecchio maestro vetraio, ricordando i tempi nei quali portava i suoi lavori migliori nella bottega di Barovier, perché lì fossero venduti a un prezzo decuplicato e godessero di un’aura altrimenti irraggiungibile. Si vuol dire che la compagnia di canto annovera interpreti già noti nelle stesse parti, e che pure qui si ritrovano sotto una luce nuova, che li motiva, li trasfigura e li rivela: ciascuno torna qui con i propri limiti, eppure non lo si vorrebbe differente. Con tutto il suo avviato declino vocale, Giacomo Prestia è per esempio lo Jacopo Fiesco che alla Scala, un mese fa, si è provato a sognare con due interpreti di seconda mano: gli armonici sono quelli di un basso autentico e il porgere è quello, fiero e grandioso, di un cantante verdiano difficilmente sostituibile nonché superabile.

Fanno con lui gara di aristocratica misura Maria Agresta come Maria Boccanegra e Francesco Meli come Gabriele Adorno: entrambi hanno affinato le parti sotto la guida di Muti, cosa che li rende testualmente irreprensibili; entrambi volano ora col colpo d’ala di Chung, moltiplicando gli abbandoni melodici e le sottigliezze espressive. Nella parte eponima v’è poi la scoperta clamorosa di Simone Piazzola, men che trentenne baritono con una disinvoltura da lasciare di sasso: la pacatezza del suo cantabile, la sorvegliatezza delle sottolineature, la finezza del timbro nobilitato da un’ottima emissione sono tutti indizi di una classe artistica superiore, degna del più roseo futuro. Mentre la pecora nera della situazione è il mediocre Julian Kim, estraneo alla forbitezza predicata da tutti gli altri, e autore di un Paolo Albiani accidentato nella parola e impalato nel canto, con inopportune defezioni all’extramusicale del grido e del ghigno.

Quanto alla parte visiva, Andrea De Rosa si mantiene fedele alla didascalia e quasi sparisce nell’evidenza letterale dell’opera affidatagli. Più che come regista – talvolta disattento: Fiesco non potrebbe certamente prendere parte al concertato del Finale I a capo scoperto, cognito e a un passo dal potente nemico giurato – egli monta in cattedra come scenografo: chiede ad Alessandro Lai costumi aderenti all’iconografia storica, limita sé stesso a disegnare strutture di pulita funzionalità e le anima infine con suggestive visioni della costa ligure. Lì i video di Pasquale Mari sono inappuntabili anche per documentaristica fedeltà: mentre l’azione scorre e la marina brilla, il sole sorge da Oriente e declina a Occidente, e sulla riva di Savona si intravede più a Levante quella genovese. Uno spettacolo nato nel profondo amore dell’istituzione che lo ha voluto e degli artisti che lo hanno plasmato: un assunto tanto basilare quanto raro, e un modello che umilia locandine in mezzo mondo.


 

 

 
 
 

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