Un secolo d'ironia e intelligenza
di Gina Guandalini
Nel centesimo compleanno di Franca Valeri (Franca Maria Norsa, nata a Milano il 31 luglio 1920) , un ritratto dell'artista, della donna e della grande appassionata di musica affidato a chi la conosce bene, per lunghe frequentazioni familiari e per felici collaborazioni radiofoniche.
Alla fine del secolo scorso, ho collaborato per diverse stagioni al programma radiofonico Di tanti palpiti di cui era autrice Franca Valeri. Ci siamo trovate a lavorare insieme con assoluta felicità di risultati; ascoltava sempre e accettava quasi sempre le mie idee; forse l’unico motivo di contrasto era nei biscottini e dolcetti vari che preparavo e portavo in redazione e che lei disapprovava.
Nelle occasioni in cui abbiamo viaggiato in treno insieme, Franca mi vedeva andare tre o quattro volte al bar e altrove, e mi pregava di stare un po’ ferma. In questo era uguale alle mie zie dal lato ebraico, dal fisico d’acciaio, che in cinque ore di treno non si alzavano mai. Franca Norsa, nata a Milano, è figlia di un ingegnere mantovano che pianse il giorno in cui furono pubblicate le leggi razziali e che nel ’40 dovette rifugiarsi in Svizzera con il figlio maschio. Sotto l’occupazione Franca si procurò una carta d’identità falsa e insieme alla madre non ebrea si nascose nelle campagne: «bastava avere il papà ebreo per andare in gas», come spiega lei con nerissimo umorismo. Storie che riguardano anche la mia famiglia. Considero la mia amicizia con Franca Valeri una lezione, un’ispirazione, un premio della vita. Per un programma di memoria storica del bravissimo giornalista Roberto Olla la accompagnai in Toscana dove si svolgeva l’intervista. Lei ricordò le vicissitudini degli anni nazisti, la cacciata da Milano di Theo Saevecke e dei suoi accoliti e della sua decisione, ammessa senza esitazioni, di andare a piazzale Loreto. Uno shock per qualcuno; ma è del tutto comprensibile il desiderio di accertarsi che il Male è finito dopo averlo sofferto per anni.
Intanto c’era stata un’infanzia borghese e milanesissima, con tante letture, e care amiche tra cui Silvana Mauri, in seguito moglie di Ottiero Ottieri; e la passione di famiglia per Petrolini. Tutti si divertono alle imitazioni che Franca fa delle insegnanti e perfino del cardinale Ildefonso Schuster. «La vocazione a stare in scena l’ho sempre avuta”. E dà una definizione bellissima: «Il teatro è la bella copia della vita. A teatro il male è più punito e il bene è più premiato, l’amore è eterno e la morte è finta». Nel 2011 ero presente al conferimento della Laurea honoris causa in Scienze dello Spettacolo all’Università di Milano, durante il quale Franca ha parlato del «misterioso patto arcano fra un pavimento in legno e una persona».
È noto che all’esame di ammissione all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma Franca non è accettata. Piccolina, con un cappellino tondo stile Giulietta Masina, recita un brano di Sartre. La commissione, composta da Silvio D’Amico, Wanda Capodaglio e Orazio Costa, la respinge. Con un compagno di studi si azzarda a fermare D’Amico per la strada, chiedendo una seconda chance; lui reagisce con «Certo non è Olga Villi». Le maggiorate, le bonone, le stangone fanno premio sulle intellettuali, e io vorrei saper replicare il tono con cui Franca, una volta che si parlava del film Il segno di Venere, mi ha detto: «In origine io e Sofia Loren dovevamo essere non cugine, ma sorelle; ma poi, capisci…»
La bocciatura non la abbatte; resta a Roma ospite di una parente e per tre anni riesce a far credere ai genitori che è stata accettata e frequenta l’accademia. Il successo verrà. Intanto entra in un giro di spettacolo e cultura da dare i brividi: Fellini, Ennio Flaiano, Alessandro Fersen, Sergio Tofano. Franca Norsa tiene banco con enorme vivacità alle cene romane. «L’ironia conta. Se hai il dono dell'ironia, difficilmente te ne liberi, è un modo costante di vedere le cose, di grande aiuto. È una gran qualità, di cui sono molto grata a mio padre, che me l'ha data». Non è strano che a suo tempo non siano mancati i paralleli con Judith Tuvim, in arte Judy Holliday, cabarettista, attrice teatrale e cinematografica, autrice e improvvisatrice, compagna di un musicista raffinato (nel caso della Holliday il sassofonista Gerry Mulligan).
Prima importante tappa in teatro, fuori dagli schemi “accademici”, è Caterina di Dio di Testori, a Milano nel ’48; testo ispirato a Santa Caterina da Siena, il primo di questo autore rappresentato in teatro. Per la prima volta la protagonista si chiama Valeri, perché suo padre si oppone all’uso di Norsa sulle scene e l’amica Silvana Mauri Ottieri suggerisce il cognome del poeta Paul Valéry che leggono con ammirazione. E Valeri sia. Intanto lei elabora i monologhi della milanesissima Signorina Snob, che debutta con successo nazionale nella trasmissione radio Sette giorni a Milano nel 1949. Dopo due stagioni in teatro con Sergio Tofano, Franca fonda insieme a Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci la compagnia dei Gobbi, un cabaret surreale e bruciante di ironia, che a Parigi nel 1950 riscuote un successo strepitoso; grazie anche alla regìa di Luciano Mondolfo, “il quarto Gobbo”. D’Amico risarcisce Franca della stroncatura all’Accademia con recensioni entusiastiche. Dopo gli spettacoli, Franca si tuffa nella Cave Saint-Germain e si esibisce tra Juliette Gréco e Django Reinhardt. Jean Genet vuole conoscerla, Edith Piaf le chiede una canzone. In Italia l’attività teatrale riprende alla grande, La parigina di Henry Becque con la regia di Strehler e i famosi Carnet de Notes con gli sketch dei Gobbi, di cui i tre attori sono coautori.
Nel 1951 Mondadori pubblica il primo libro scritto da Franca, Il diario della signorina snob; molti altri ne seguiranno, l’ultimo, La stanza dei gatti, di tre anni fa; ricordi di teatro, non dei suoi amati pets. La sua comicità nasce dalla scrittura, da una cultura cosmopolita.
Ci sarebbe molto da dire su Franca Valeri e il cinema: alcuni suoi personaggi sono entrati nell’inconscio collettivo dell’Italia. Debutta in Luci del varietà di Lattuada e Fellini. La più tipica Valeri, ora patetica ora più spesso sarcastica, è quella di Piccola posta, regia di Steno, Il segno di Venere di Dino Risi (1955), Mariti in città di Comencini (’57), Il vedovo (’59), in cui tiene testa a Sordi nel disegno di una cinica industriale milanese che chiama il marito “Cretinetti” – il nome di un comico del cinema muto ormai dimenticato. Poi Crimen di Mario Camerini (1960), dove lei e il bassotto sono più esilaranti di Sordi, Manfredi e Gassman messi insieme. Per non dimenticare l’episodio La manina di Fatima, regìa di Caprioli (1963) in I cuori infranti.
Nel ’55 nasce un rapporto molto creativo con Luciano Salce, spirito satirico a lei fratello. Sugli stessi binari è la grandissima amicizia – tuttora viva – con mio zio Franco, a partire dal ’57. Uno zio molto giovane, praticamente un cugino, che lascia la farmacia di famiglia per dipingere a Parigi, studiare recitazione a Roma, vagabondare per la pianura padana alla ricerca di opere d’arte. Franca lo sceglie per uno dei tre boys in Lina e il cavaliere, una pièce surreale scritta a tre mani, Valeri, Caprioli e Patroni Griffi. Un anno fa alla Fondazione Zeffirelli mi chiedevano come averne il testo, la trovavano importante, storico. La prima romana, nel gennaio 1958, è affollata di intellettuali e figure teatrali, tra cui Moravia. Luchino Visconti e poi Arturo Benedetti Michelangeli assisteranno a decine di recite.
Ricorda Franco: «Lavorare con lei in palcoscenico voleva dire capire tante cose del teatro; l’importanza dell’attimo prima della battuta, in cui sei tu che ascolti il pubblico. In quella pausa brevissima, ma immenso, incalcolabile, si crea il successo della recita». Lo straordinario giro della Valeri comprende ormai anche Luchino Visconti, Ercole Patti, Mino Maccari, Italo De Feo, Camilla Cederna. Franco è grande fan della Tebaldi, e le conversazioni con Franca, che è molto amica di Giuseppe Di Stefano, dilagano sempre anche nel mondo dell’opera. Ma da quelle cene felliniane, da quel giro folle lei sa anche prendere le distanze. Dice Franco Guandalini: «Detestava tutta la parte vuota di quella vita, venivo guidato verso la qualità umana, gli artisti veri. Con lei si facevano solo cose intelligenti e sagge, non ha mai amato lo snobismo». Ancora oggi Franchina e Franchino si sentono al telefono, si pensano.
Nel 1960 la Valeri scrive e interpreta Le catacombe, un testo ironicamente “protofemminista”: una pochade al fulmicotone in cui l’oggetto vanitoso e scemo è l’uomo. A una replica mio zio pensò che era ora che io, una piccina in vestitino di velluto, assistessi con lui alla pièce, per poi salutare Franca in camerino. Ricordo solo la foto autografata che rimase appesa per decenni alla parete del salotto. Mio padre adorava Franca e molte sue battute erano parte del nostro lessico familiare, soprattutto quelle della Sora Cecioni, appena nata nel programma TV La regina ed io. Ho sentito qualche affettuoso appunto all’esattezza filologica del “romanaccio” di questo personaggio: ma non c’è romano che non mitizzi il suo film Parigi o cara, con la regia di Vittorio Caprioli, del ’62, pieno zeppo di battute esilaranti. Molti anni dopo io e Franca uscivamo dagli studi di via Asiago e uno spiritoso passante le disse «Buongiorno, sora Cecioni!» e tirò dritto.
Oltre alle Catacombe, il ’60 vede La Maria Brasca di Testori, commedia scritta per lei che racconta di una donna tagliente e raziocinante ma generosa e alla fine vincente. Io però credo che sia il caso di riportare nei teatri Le catacombe più che la pièce di Testori. Ora esce per le Edizioni La Tartaruga il libro Franca Valeri: Tutte le commedie, con prefazione di Lella Costa. Con alcuni dei dodici testi finora inediti e molti sketch.
Nel 1963 c’è la consacrazione letteraria “alta” da parte di un filologo come Gianfranco Contini, che nella prefazione a La cognizione del dolore di Gadda trova spazio per citare Franca. Vediamo un po’, invece di ricordare il fatto e basta: «Se non si può fare decorosamente luogo ai sottoprodotti delle sedi più facete (corrispondenti alla declinazione umoristica, più sopra sfiorata, della "nuova Italia", che era peraltro sprovvista degli amplificatori di massa), in cambio mutilerebbe veramente il canone espressivistico l’esclusione dei mimi più valorosi, da Eduardo al Totò meno consunto e a Franca Valeri.»
Il matrimonio con Vittorio Caprioli, veramente “fatto in cielo” per le affinità artistiche dei due personaggi, non corrispose alle esatte date dei loro sentimenti. Già nel 1965 Franca era a Parigi alla Norma della Callas con un nuovo compagno, il giovane direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi. Genio e sregolatezza, personaggio affascinante, musicista di grandissimo talento, che per lei è rimasto l’amore della sua vita. Quando facevamo Di tanti palpiti e capitava di parlare di Rinaldi dopo averlo ascoltato, Franca si commuoveva invariabilmente.
Nella “fase Rinaldi” della sua vita il teatro non è trascurato. Qualche titolo tra i tanti: Luv di Murray Schisgal, con Walter Chiari e Gianrico Tedeschi, regia di Patroni Griffi, Il balcone di Jean Genet, regia di Calenda, Gin Game di Donald L. Coburn, regia di Giorgio De Lullo con Paolo Stoppa (Rina Morelli era appena scomparsa e a chi era in platea fu chiaro che la Valeri avrebbe avuto l’autorità e il carisma per ereditarne il posto nella storia del teatro). E Il bell'indifferente di Jean Cocteau, regia di Patroni Griffi, con Remo Girone, Le donne che amo, un testo tutto suo, e ancora la regia della versione femminile de La strana coppia di Neil Simon, con Rossella Falk e Monica Vitti. (Tra i film di quel periodo ci sono anche La signora gioca bene a scopa, Ultimo tango a Zagarol e Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento. Lei ridimensiona con prontezza: «Chi è quell’attore che non ha fatto alcune porcherie ben pagate?»)
Nel ’79 la coppia Valeri-Rinaldi fonda il concorso lirico “Mattia Battistini” a Rieti, per scoprire e perfezionare cantanti italiani musicalmente e scenicamente. Le prove sono anche a Trevignano, nella villa sul lago di Bracciano dove cani e gatti condividono la quiete lacustre. Molti sono i nomi che dal “Battistini” hanno cominciato: Tiziana Fabbricini, Giuseppe Sabbatini, Stefania Bonfadelli, Alberto Mastromarino, Amarilli Nizza, per citarne solo qualcuno. Franca cura la regìa di La battaglia di Legnano, Rigoletto, Ernani,Traviata, Lucia di Lammermoor, La forza del destino, Aida. «La musica è un miracolo. Sono giunta a ipotizzare che sia Dio»,
Stagioni felici professionalmente e personalmente, anche se Rinaldi non è “model di fedeltà”. Ma non lo era neanche Caprioli, e figuriamoci se Franca si lascia abbattere, lei che insegna ironia e coraggio indomito da sempre. «La natura maschile è quella. Ogni uomo ha un suo modo di vivere. Anche quando è sinceramente innamorato di te, prova il medesimo sentimento per un’altra. Che cambia? Guai se la gelosia entra nelle piccole cose». Maurizio muore nel ’95, a 58 anni. Franca ne conserva il ricordo fervidissimo per sempre.
Collaborando a Di tanti palpiti ho cercato di dare quasi quanto ricevevo da una mente aperta, generosa e colta come quella di Franca. Non me ne sono accorta subito, ma il mio nome non è citato nel libro Di tanti Palpiti: Divertimenti musicali, uscito nel 2009. Franca ci ha tenuto a spiegarmi che l’editing finale non era suo. Io conservo tanti foglietti scritti a mano da lei, con elenchi, appunti, promemoria. Quella è la testimonianza più preziosa del nostro lavoro comune (in compenso, un numero dell’Unità del settembre ’99 annunciava «Di tanti palpiti con Gina Guandalini». Punto e basta).
Negli anni in cui abbiamo lavorato insieme, e dopo, c’è stato ancora tanto teatro. Non ho perduto uno spettacolo: Tosca e le altre, anche film, Mal di madre, Possesso di Abram B. Yehoshua, La vedova Socrate (molto più Valeri che Dürrenmatt, e certo affine al Socrate di Woody Allen), Il giocatore di Goldoni, Le serve di Jean Genet, Oddio, mamma!, ancora umorismo ebraico riscritto da Franca e Urbano Barberini, Non tutto è risolto (di nuovo molto più Valeri che Beckett), Il cambio dei cavalli, testamento di sarcasmo surreale. Quanta ironia scenica, portata avanti con energia prodigiosa. Prima della recita, in camerino, la voce suonava malferma, anche per le lunghe chiacchiere con amici e ammiratori. Ma in scena si compiva il miracolo. «Hanno più volte scritto che ho il Parkinson. Ho preso paura e sono andata a farmi visitare da un neurologo. ‘È solo un tremito ereditario’ mi ha tranquillizzata. Infatti ce l’aveva anche mio padre, che rideva beffardo quando spandeva sul piattino un po’ di caffè». Suo padre era di Mantova, abbiamo detto. Nel 2004 Franca Valeri ha adottato Stefania Bonfadelli, già amica e figlia elettiva da molti anni. Pierluigi Pizzi mi ha detto una volta: «Stefania è di Valeggio sul Mincio? È mantovana, allora». Il cerchio si chiude.
Due aggettivi Franca Valeri non sopporta: “solare” (sono d’accordo con lei) e “mitico”. Ma come definirla, se non “mitica”?