L’Ape musicale

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Mazzini, patria e politica

L'immagine storica e politica del Marino faliero di Donizetti è indissolubilmente legata alle pagine che Mazzini gli dedica nella sua Filosofia della musica (1836). In particolare si sofferma sul sentimento dell'esule dipinto nella cavatina di Fernando, prossimo a partire per evitare le tentazioni di un amore proibito.

Di mia patria bel soggiorno,
rivederti io più non spero;
sussurar più a me d'intorno,
aure amiche, non v'udrò.
Cari luoghi ore ridenti,
mi sarete ognor presenti,
né godervi, né scordarvi,
no, giammai io non potrò.

Un sentimento senz'altro condiviso da Agostino Ruffini, mazziniano rifugiatosi a Parigi, fratello di Giovanni (librettista del Don Pasquale) e del patriota Jacopo (morto in carcere nel 1833) e letterato incaricato di rielaborare il libretto steso a Napoli da Emanuele Bidera. Nel Marino Faliero, però, l'amor patrio dal punto di vista dell'esule non è che un aspetto marginale rispetto alla potenza politica di un libretto che parla, né più né meno, di una rivoluzione fallita. Si badi, bene, non di una rivolta contro un oppressore esterno, un conquistatore o un occupante come sono gli austriaci nel Guillaume Tell o gli Assiri in Nabucco e gli Unni in Attila.Si tratta di una lotta di classe: operai, artigiani, popolo minuto contro i soprusi di un'oligarchia aristocratica, degenerata sotto il profilo politico, etico e giuridico.

Non per nulla, già commentando nell'Introduzione le scritte ingiuriose contro la moglie del Doge, la constatazione amara degli operai è che “hanno detto che è un patrizio...” ma, poiché “essi aborron Doge e nui | perché amici siamo a lui”, sarà giustiziato “un uom del popolo”. La giustizia è irrimediabilmente corrotta, volta unicamente alla difesa della classe dominante. D'altra parte, Steno non solo colpisce un uomo maturo valoroso e rispettato come Israele, ma lo fa perché questi aveva ribattutto alle sue richieste private “Prima il servir la patria”, quindi aveva osato porre l'interesse dello Stato, inteso come collettività che unisce patrizi e plebei, e della comunità innanzi a quello personale dell'oligarca.

Questo senso dello Stato e della patria si riversa a piene mani nel canto degli operai e di Israele nell'Introduzione, ma con il procedere dell'opera, dopo l'oltraggio subito dal doge e dal capo dell'Arsenale, si scivola man mano nell'identificazione fra Venezia stessa e il suo governo, sicché riaffiorano ciclicamente sia per bocca di Faliero sia di Israele e dei congiurati vere e proprie maledizioni contro la Serenissima (“Sia Venezia maledetta”, “Questo scoglio di pirati”, “Sii maledetta o terra | di crudeltà soggiorno”, “Del Leone i rei stendardi”).

La coscienza sociale travalica quella nazionale. Tuttavia, nel rappresentare i meccanismi di una rivoluzione (o, meglio, di un tentativo), non mancano di emergere anche risvolti ambigui e di acuto realismo: Faliero non è motore dell'iniziativa, ma viene coinvolto il valore che il suo prestigio può conferire all'impresa. Tuttavia i moventi più personali – le ripetute offese e la morte del nipote – uniti a una generica solidarietà verso il suo ex soldato sfociano anche in sinistre impennate d'ambizione personale quando, credendo riuscita la congiura, esclama “Or di Venezia il re son io”. Ancora, il fatto che Israele sia un veterano, che si sia distinto in imprese come l'assedio di Zara e che molti dei suoi operai abbiano prestato servizio nell'esercito ricorda l'importanza della frustrazione delle classi militari nei sovvertimenti politici post bellici (lo confermeranno il ruolo dei soldati nella Rivoluzione d'Ottobre o dei reduci della grande guerra nell'staurarsi dei regimi in Italia e Germania), intercetta un sentimento che negli stessi anni è espresso dal genio di Büchner con il Woyzeck (1837), ma anche in numerose figure dell'opera semiseria (basti pensare alla Gazza ladra, con il giovane ufficiale di buona famiglia in felcie congedo e il maturo soldato di umili origini vessato ingiustamente dai superiori).

Il meccanismo si scatena quando Israele ricorda "Ero anch'io di quella schiera, di venezia anch'io guerrier" nell'affetto degli operai per poi essere insolentito da Steno che al suo orgoglioso "Signor, io fui soldato!" risponde "Vil plebe, agli altri simile avrai la pena"; culmina nel momento in cui Leoni annuncia "I vili a morte" e Israele ancora amaramente ironizza:

Siamo vili, e fummo prodi
quandoin Zara e quando in
Rodi sulle torri e sulle porte
del Leone i rei stendardi,
pei codardi…

L'invettiva è interrotta dai Dieci che ribattono "A morte!", ma Israele concluderà comunque in gloria la sua scena, apoteosi politica della sua parabola, cruciale nella drammaturgia dell'opera:

Il palco è a noi trionfo,
e l’ascendiam ridenti:
ma il sangue dei valenti
perduto nonsarà.
Verran seguaci a noi
i martiri e gli eroi:
e s’anche avverso ed empio
il fato a lor sarà,
lasciamo ancor l’esempio
com’a morir si va.

Una dedizione alla causa, quella di Israele, ben diversa da quella di Faliero, mosso da sentimenti d'onore e personali (l'antica stima per Israele, il disprezzo per Steno e per chi lo difende calpestando la giustizia, l'amore per i familiari), personaggio tragicamente imprigionato nel suo ruolo istituzionale, come spesso lamenta, sottolineando nel duetto nel primo atto la distanza fra il Doge e Faliero, fra il rappresentante dello stato e l'amico del valoroso popolano, proclamando nell'aria del secondo atto:

Il doge ov'è?
Questa larva è già sparita,
sol Falier vedete in me.
Quello schiavo coronato,
che spezzò la sua corona,
reca a voi le sue vendette
contro i perfidi oppressor.

L'istituzione è una maschera, come quella indossata da Steno nel palazzo di Leoni. Non solo Faliero se ne sente imprigionato e la getta liberandosi dalla corona che lo rende schiavo, ma anche tutti i personaggi appartenenti alla classe dominante, gli antagonisti vittoriosi di quest'opera senza speranza, Steno e Leoni, sono maschere, non persone, emanazioni del corpo unico dei Dieci, del Potere. Viceversa, perfino i figli di Israele hanno modo di staccarsi dal coro dei condannati per un ultimo saluto al padre, mentre Beltrame, il traditore, resta avvolto nella nebbia, pressoché assente fisicamente ma spesso nominato con turbamento, quasi la figura del traditore, dell'elemento che inceppa il cammino verso la giustizia susciti imbarazzo, resti confuso nell'ombra. Un po' come quelle omissioni che, nelle carte giudiziarie che documentano l'inchiesta e la condanna di Faliero e dei suoi nella realtà storica e che sembrano celare, sul fronte opposto, le figure scomode degli aristocratici parte della congiura. 


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