Quello schiavo coronato
di Roberta Pedrotti
Nel 1355 il Doge Marino Faliero tentò, con l'appoggio delle classi popolari, un colpo di stato e, scoperto, fu condannato al patibolo. Nel 1835 Donizetti, a Parigi su invito di Rossini e con lo stesso cast stellare per cui Bellini scrive I Puritani, gli dedica una delle sue opere più complesse e affascinanti.
L'implacabile Consiglio dei Tre che incombe in Bianca e Falliero di Rossini, le feste in cui si aggira Lucrezia Borgia in incognito, il destino segnato da calcoli politici di Caterina Cornaro, il doge Francesco Foscari che soccombe al potere del Consiglio dei Dieci, gli intrighi che da Hugo passano a Mercadante (Il giuramento) e Ponchielli (La Gioconda), la sensualità diabolica di Giulietta nei Contes d'Hoffmann. Venezia piace al melodramma ottocentesco, che si abbevera voglioso alla fonte della sua immagine inquietante e perversa di città labirintica che sorge dalle acque, città delle maschere, di piaceri e delitti, Repubblica oligarchica dai meccanismi ferrei e misteriosi. Questa era l'immagine di Venezia che tanto piaceva ai romantici e ai decadenti e che alimenta il suo mito nelle arti.
Nel 1834 Donizetti ottiene, grazie a Rossini, la sua prima commissione parigina. Inizialmente sembra debba trattarsi di un'opera semiseria, ma, sempre con l'intervento del Pesarese, il soggetto scelto è serissimo: la congiura fallita e la condanna a morte del Doge Marino Falier. La nuova opera deve subito vedersela con un importante concorrente, perché contemporaneamente anche Vincenzo Bellini è scritturato a Parigi per un nuovo titolo nella medesima stagione 1835 e con il medesimo, lussureggiante cast (Giulia Grisi, Giovan Battista Rubini, Antonio Tamburini e Luigi Lablache). Marino Faliero si confronta subito con I Puritani, con i quali condivide un altro destino incrociato: Donizetti comincia a lavorare a Napoli e revisiona la partitura a Parigi; a Parigi Bellini compone la sua opera pensando già alla versione napoletana, per la quale invia le parti via nave (e causa colera la versione Malibran verrà bloccata e riscoperta solo negli anni '80 del Novecento).
L'apoteosi melodrammatica dell'amore ostacolato dalla politica, dei sentimenti non corrisposti, della nobile causa fraintesa, dell'onore cavalleresco, della pazzia e del ricongiungimento salvifico hanno garantito il successo imperituro ai Puritani, mentre Marino Faliero, in cui la questione amorosa è flebile e funzionale a più ampi meccanismi, incanta Mazzini, guadagna un discreto numero di riprese con testi variamente censurati (specie là dove s'inveisce troppo duramente contro le istituzioni), ma fatica ad affermarsi: la difficoltà per gli interpreti fa il paio con una drammaturgia audace e fosca in cui le dinamiche politiche e sociali balzano in primo piano sollevando questioni che vanno al di là della consolidata retorica patriottica.
Per tutte queste ragioni, però, l'opera donizettiana patrocinata da Rossini e amata da Mazzini merita la massima attenzione, a partire dal fascino esercitato dal suo protagonista, il Doge condannato a morte a pochi mesi dall'elezione e colpito con una damnatio memoriae che non ha fatto altro che amplificarne la leggenda.