L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La libertà dello sguardo fra suono e materia

di Roberta Pedrotti

Una mostra celebra, attraverso ventiquattro modellini, qundicimila giorni di lavoro e di sguardi  differenti intorno al Festival rossiniano. È l'occasione per soffermarsi anche su altri musei pesaresi, in una rete di connessioni non scontate dall'artigianato teatrale all'ecologia.

Per il ventesimo Rossini Opera Festival, nell'estate del 1999 venne stampata una maglietta su cui campeggiava la scritta XXROF'99. La sfoggiai orgogliosa, undici mesi dopo, per l'orale dell'esame di maturità, ricevendo in cambio l'insidiosa domanda circa una possibile spiegazione fisico-matematica della formula. Qualche anno più tardi, passato anche un ROF XL, arriva una nuova sigla: ROF15K. Che vorrà dire? Rossini Opera Festival 15.000 cosa? Quindicimila giorni dall'apertura del sipario sulla prima edizione, il 28 agosto 1980 con La gazza ladra.

Quindicimila giorni non solo di spettacolo: la mostra ideata per l'occasione non celebra solo il Festival alla ribalta, bensì conta tutti i giorni di lavoro che preparano il momento fatidico dell'incontro con il pubblico. Non è una novità che a Pesaro si ponga l'accento sull'artigianato del teatro, sul dietro le quinte dei suoi laboratori, sia con vari percorsi formativi (ricordate quando Gianfranco Mariotti lanciò il Progetto Efesto?) sia con la fedele documentazione dell'obiettivo di Fulvia Amati, Silvano Bacciardi e del loro studio fotografico. Ma c'è anche altro materiale, normalmente riservato a studiosi e addetti ai lavori, come bozzetti e planimetrie, materiale che può diventare a sua volta arte, come il costume finito o quel meraviglioso strumento che è la maquette, il modellino della scena che il regista e la sua squadra presentano alla direzione e ai tecnici del teatro per illustrare il loro progetto e che funge poi da punto di riferimento nella realizzazione. Da dietro le quinte, le maquette del ROF salgono alla ribalta, da strumenti a opere d'arte, testimonianze del lavoro e nidi di memorie.

La mostra che si è aperta il 29 settembre a Pesaro presenta ventiquattro modellini di scena, a partire da quello già monumentale per il Moïse et Pharaon allestito nel 1997 da Graham Vick con il progetto scenografico (il più ambizioso mai realizzato a Pesaro e forse in Italia) di Stefanos Lazaridis, parte dell'esposizione stabile del Museo Nazionale Gioachino Rossini. Vick, con tutte le sue cinque produzioni per il ROF, tutte diversamente memorabili, Ronconi, Pizzi la fanno ovviamente da padroni, i registi più rappresentativi – anche nel loro impegno e nelle loro collaborazioni scenografiche – della storia teatrale del festival, laboratorio di musicologia applicata che ha sempre prestato un occhio di riguardo al lavoro sulla drammaturgia e all'immaginario visivo. Non mancano, naturalmente le due produzioni firmate qui da Dario Fo, o la Semiramide di Hugo de Ana con il suo sfarzo mitico affiancato al lusso contemporaneo della visione di Dieter Kaegi e al simbolismo psicanalitico di quella di Vick, sacrosanta celebrazione, attraverso una delle opere più significative della poetica rossiniana, della vocazione del festival alla pluralità e alla ricerca. Così, anche la scatola bianca in cui al popolo svizzero è negato il rapporto con la natura nel Guillaume Tell di Vick dialoga con la foresta onnipresente pensata invece da Pizzi; la semplicità assoluta dell'Inganno felice (Vick) o dell'Equivoco stravagante (Leiser/Caurier) ci ricordano come l'idea, il dettaglio, la sottrazione possano valere più dello sfoggio tecnico.

E via di questo passo, a disegnare un percorso di ricordi in chi c'era, a raccontare a chi non c'era, a far toccare con mano (per lo meno, in digitale, con tre ricostruzioni in 3D esplorabili in virtuale senza nemmeno mettere le mani sullo schermo) e osservare da più punti di vista la complessità di autentici capolavori, mondi teatrali frutto di artigianato e ricerca, arte e professionalità. Si rende onore alla cultura materiale della scena, alla tecnica di chi realizza e di chi progetta, alle idee e allo studio, alla riflessione sul testo, sull'opera rossiniana e sulle sue molteplici, possibili vite e chiavi di lettura. Allestimenti ricchissimi e minimalisti, avveniristici e tradizionali, virtuosismi tecnologici e quinte dipinte: come proclama il sottotitolo della mostra, è la libertà dello sguardo nell'immaginario visivo rossiniano. Un altro modo per entrare nella poetica del più enigmatico fra gli operisti, ché il teatro musicale è suono, sì, ma anche gesto e materia.

Merito, per la competenza scientifica ma anche per l'imprescindibile componente affettiva, va alla cura di Cristian Della Chiara, al progetto di allestimento di Bruno Mariotti CH+, alla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro per il sostegno, ai Laboratori del ROF, a Sistema Museo e, per la parte multimediale, a Marco Rossetti, Imergo per la realizzazione. A Alberto Giuliani per regia e produzione video, allo Studio Amati Bacciardi per le fotografie.

Né si può trascurare che l'esposizione – visitabile almeno fino alla settimana del “non compleanno” rossiniano fra febbraio e marzo – si trova nel Museo Nazionale Gioachino Rossini, Si attraversa, allora, la collezione stabile, fatta di storia, sì, ma non di muti cimeli. Nemmeno la viola di Paganini, quella con cui suonò in extremis l'assolo del corno alla prima assoluta di Matilde di Shabran, è lì come una reliquia fine a sé stessa, ma trasmette il brivido del vissuto teatrale, del suono passato che continua a rinascere dopo duecento anno, dell'amicizia fra un genio di Pesaro e un genio di Genova. Fra gli autografi e i ritratti, s'infila il presente, la storia che continua nei costumi più recenti, in alcuni modellini (quello di Moïse et Pharaon) che già erano esposti in pianta stabile.

Peraltro, se Pesaro non è solo Rossini, Rossini non è solo musica a Pesaro. E, no, non parliamo della pizza che porta il suo nome (invenzione degli anni '70 del secolo scorso, piatto simbolo della città con il quale ogni habitué del Rof prima o poi deve fare i conti), ma parliamo della collezione d'arte appartenuta proprio al compositore e inglobata nella raccolta dei Musei Civici di Palazzo Mosca. Non fu lui a scegliere e acquistare i dipinti e il busto di Napoleone, che gli vennero offerti in blocco dalla famiglia Hercolani di Bologna a saldo di un debito, ma sono comunque opere di sua proprietà, che furono sotto i suoi occhi, che lui – da oculato investitore e abile finanziere – considerò giusto risarcimento.

Con un volo un po' più ampio, le raccolte dei Musei civici, organizzate anche con percorsi inclusivi e pannelli mobile che facilitano allestimenti tematici, si ricollegano al principio di Rof15K per l'esaltazione dell'artigianato come arte. La marchesa Mosca, filantropa e mecenate cui si deve il primo nucleo dei musei, credeva nel valore educativo del bello in ogni aspetto della vita e senza barriere sociali. Raccolse, allora, non solo dipinti (molti dei quali nature morte in cui si celebrano il cibo, i prodotti della terra, gli oggetti quotidiani), ma anche piccoli capolavori artigianali, gabbiette che sembrano merletti d'avorio, figurine sacre, utensili lavorati e naturalmente ceramiche. Le maioliche pesaresi, ceramiche che la tecnica del lustro ha reso simili a metallo nella lucentezza, vasellame, stoviglie, piatti d'uso comune o d'occasione (come quelli offerti dai fidanzati alle amate secondo un'antica tradizione). Anche il fiore all'occhiello dei Musei, la Pala di Pesaro di Giovanni Bellini è un sorprendente lavoro artigianale, capolavoro pittorico e di carpenteria, costruito in modo tale da poter essere smontato, trasportato e assemblato con relativa facilità: così arrivò in città via mare da Venezia, così passò temporaneamente a Roma per la grande mostra nel cinquecentesimo dalla morte del pittore (2016). A Roma, peraltro, ne resta una parte, la Pietà che sormontava la composizione e che si trova nella pinacoteca vaticana; il valore della Pala non ne risulta scalfito, tale è l'impressione per l'osservatore in reverente movimento di fronte al rapporto fra natura e architettura nell'Incoronazione della Vergine, allo spessore prospettico delle nicchie dei pilastrini e dei riquadri della predella. Il fatto, poi, che la pala sia ora soggetta a un restauro in loco permette di apprezzare con l'opera anche il lavoro che la preserva, allo studio e alla manualità.

Suono e materia, arte e artigianato, oggetto e interpretazione; dal Museo Rossini a Palazzo Mosca è tutto un intreccio di richiami che non può che culminare nella Sonosfera, parte integrante dell'uno ma anche fisicamente collocata nell'altro. Si tratta in una sala perfettamente sferica, immersa in un buio assoluto, acusticamente isolata e tappezzata di altoparlanti strategici. Può essere utilizzata per diversi tipi di esperienze, sfruttando anche una superficie di schermo ad alta definizione, ma prima di tutto conviene soffermarsi su quella per cui è nata, il progetto di David Monacchi, docente del Conservatorio di Pesaro, “Fragments of Extinction – Il Patrimonio Sonoro degli Ecosistemi”. Nell'oscurità, i suoni registrati di notte con microfoni tridimensionali nelle foreste pluviali, ci circondano fino a far percepire l'umidità, la presenza fisica della flora, della fauna, degli elementi. Ed è musica, una polifonia affinata in milioni di anni in cui ciascuno ascolta gli altri e si inserisce in un'architettura sonora di inumana complessità. Chi prestasse un po' di attenzione al canto cittadino delle cicale, ai loro cambi di ritmo che rimbalzano di albero in albero, forse avrebbe un'idea di una parte infinitesima di questo sistema musicale. Dalla tenebra, poi grafici proiettati ci aiutano a visualizzare le voci delle diverse specie, l'incastro dei ritmi, dei timbri e delle altezze, la molteplicità delle voci. Una molteplicità che si assottiglia sempre più. La crisi ecologica, la riduzione progressiva della biodiversità non è uno slogan e un titolo di giornale, è un'emergenza vera che si manifesta in una voragine di silenzio. La fascinazione dei primi minuti nella sonosfera diventa angoscia, angoscia autentica, soprattutto se poi ci si sofferma a guardare davvero l'orologio climatico che è stato posizionato sulla facciata di Palazzo Mosca: un conto alla rovescia che rallenta o accelera a seconda della situazione – emissioni di CO2, ricorso a energie rinnovabili fra i parametri – e ci dice quanto tempo abbiamo prima che la corsa al collasso ecologico sia irreversibile.

Abbiamo forse spiccato un volo pindarico, dai modellini del Rof alla salvaguardia del pianeta? Forse, ma non troppo: la varietà, la molteplicità, la diversità di forme di vita, suoni, sguardi, l'immateriale e il materiale, le trasformazioni, la musica delle foreste e la musica degli uomini a ricordarci che il confine fra natura e cultura è solo un'astrazione mutevole. Tutto è connesso, e dovremmo prendercene cura.


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.