L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vil corona, e sol per te...

 di Roberta Pedrotti

Un'analisi e una riflessione sul confronto fra le due versioni di Macbeth, che propongono non solo differenze di stile e forme musicali, ma anche diversi equilibri psicologici e differenti prospettive drammaturgica.

Quando Verdi, nel 1865, ripropone al Theatre Lyrique di Parigi, il suo Macbeth a diciotto anni dalla prima fiorentina, la ripresa è l'occasione per una revisione che si sviluppa con alcuni interventi di sostituzione e altri di riscrittura più o meno radicale, oltre all'inevitabile inserimento dei numeri di danza.

Un po' di spirito francese, a dire il vero, era alla base già della prima stesura dell'opera shakesperiana, destinata allo stesso teatro della Pergola dove, nel 1840, aveva fatto il suo debutto italiano Robert le diable di Meyerbeer, il cui carattere fantastico gotico ben integrato al balletto (Maria Taglioni introdusse la tecnica sulle punte proprio per questo grand opéra, al fine di rendere gli spettrali delle novizie evocate dal demonio) è ottimo viatico per l'irruzione del sovrannaturale nel melodramma romantico italiano né biblico né mitologico. Anche il senso della danza, pur senza ancora uno spazio a essa ufficialmente consacrato, si avverte già netto nell'incedere del primo Macbeth, non solo nell'evanescente “Ondine e silfidi”.

Ritmi ternari di Mazurka e Valzer compaiono nella prima versione e quasi sono accentuati in modo da sottolineare l'aspetto grottesco, un'ironia dipinta a tinte forti con ampie pennellate. Così è, per esempio, nel duetto “Fatal mia donna, un murmure”, nella sezione centrale Sei vano, o Macbetto”, che in un certo senso preconizza il concertato del finale II, “Sangue a me quell'ombra or chiede”. Cambiando l'uno, cambia anche l'altro, infatti, per Parigi.

Il duetto della coppia omicida è sicuramente uno dei momenti che Verdi rielabora in maniera più eclatante. Come nella scena dell'apparizione di Banco nel finale secondo e nel quadro delle streghe del terzo atto, la struttura netta delle frasi, con le loro simmetrie e precise scansioni formali lascia spazio a un'articolazione più libera. Il testo è trattato in modo energico, perentorio, nella prima versione, quasi aggressiva, esplicita, anche nel rapporto con l'orchestra. Basti ascoltare come il sarcasmo della Lady si esprima sfacciato ma nei confini di una sezione ben definita con cadenza finale a due voci; oppure come si giustappongano “Macduffo, tua vita perdono” e “No, morrai..”, risoluzioni antitetiche che, invece, s'incalzano nella riscrittura parigina.

Nel 1865, Verdi porta a compimento lo spasmodico perfezionismo che aveva fin dal primo momento dedicato all'intonazione musicale del testo di Shakespeare. Il primo Macbeth appare come il Prigione michelangiolesco in attesa di liberarsi dal marmo. La potenza espressiva racchiusa nella forma delinea ora essa stessa la forma con un movimento plastico, a tutto tondo. Diventa più urgente, rapido, si disbriga da cesure e cadenze che ancora dilatavano l'azione impellente, ma diventa anche più sottile, nei sottintesi, nei sussurri e negli accenti come nell'utilizzo dei tempi ternari di danza che ora si fanno più leggiadri, ironici e spettrali.

Oltre alle rielaborazioni che riguardano prevalentemente il momento del regicidio e le successive scene sovrannaturali del banchetto e dell'antro delle streghe (e quindi, prevalentemente, il canto di Macbeth stesso), vi sono poi quattro numeri sostituiti interamente con pezzi nuovi da Firenze a Parigi.

All'inizio del secondo atto, la decisione di far uccidere Banco e il figlio è coronata dalla spavalda e virtuosistica “Trionfai, securi alfine” della Lady, che si bea soddisfatta del traguardo raggiunto. Nel 1865, invece, la donna con “La luce langue” progetta, pregusta, immagina inquietante e serpentina il delitto prima di abbandonarsi inebriata alla “voluttà del soglio”.

Al termine del terzo atto, dileguatesi streghe e visioni, Macbeth solo si getta feroce nell'idea di sterminare la famiglia di Macduff e tutti coloro possano essere d'ostacolo alla sua sete di potere nell'aria “Vada in fiamme, in polve cada”. Nella versione parigina, sopraggiunge la Lady a incitare il marito a nuovi delitti e insieme celebrano l'“Ora di morte e di vendetta”.

Nel quarto atto il coro, “Scozia oppressa”, il recitativo di Macduff e la stretta, “La patria tradita” vengono sostanzialmente riscritti, a partire dall'incipit testuale: “Patria oppressa”, con un respiro più ampio, come un lamento universale.

Infine, ilMacbeth del 1847 si chiudeva con il tiranno sconfitto e morente, consapevole degli orrori commessi:

Mal per me che m'affidai

ne' presagi dell'inferno!...

Tutto il sangue ch'io versai

grida in faccia dell'eterno!...

Sulla fronte... maledetta

sfolgorò... la sua vendetta!...

Muoio... al cielo... al mondo in ira,

vil corona!... e sol per te!

Nel 1865, Verdi riscrive il recitativo che segue “Pietà, rispetto, onore” (sì, da edizione critica è l'onore e non l'amore a mancare al tiranno), la battaglia e l'epilogo, con Macbeth messo rapidamente a tacere dalla spada di Macduff e l'esultanza finale del popolo “Macbeth, Macbeth dov'è?”.

Al di là della qualità musicale, come sempre per Verdi vale quanto egli stesso scrisse riguardo a Rigoletto “le mie note o belle o brutte che siano non le scrivo mai a caso e che procuro sempre di darvi un carattere.” Le due versioni di Macbeth hanno ciascuna un proprio, specifico e coerente carattere, definibile con chiarezza proprio attraverso i numeri sostituiti.

Nel 1847 il ruolo attivo di Lady Macbeth si esaurisce all'inizio del secondo atto: dopo aver istigato e partecipato alla pianificazione degli omicidi di Duncano e Banco, esulta soddisfatta, ha raggiunto il suo obbiettivo e il suo ruolo propulsivo si conclude. La struttura stessa di “Trionfai, securi alfine” è gemella a quella di “Vada in fiamme, in polve cada”, il brano con cui, in solitudine, Macbeth a sua volta conclude il suo percorso sanguinario celebrando la morte imminente della famiglia di Macduff. I due coniugi diabolici, così, si affiancano a distanza, procedono in parallelo, ma non si incontrano, non interagiscono più (se non, fugacemente, nella scena del banchetto). Nel finale è riservato a ciascuno un monologo conscio o inconscio in cui si confronta con il male commesso. Se si pensa però al carattere proteso all'azione di “La luce langue” e al dinamico incalzare del duetto “Vi trovo alfin... Ora di morte e di vendetta” è chiaro che nel 1865 Verdi vuole una Lady molto più presente, vero motore del dramma complementare a Macbeth. Si può dire che, quando si parla della versione parigina oggi consueta, il titolo designi la coppia come un organismo indissolubile; viceversa a Firenze nel 1847, la donna esauriva il suo ruolo attivo prima della metà del dramma, lasciando solo l'eponimo Sir di Glamis asceso al trono di Scozia. Fino a quel monologo finale cui segue la fulminea incoronazione di “Malcolmo” il fuoco sembra stringersi su Macbeth, sul suo decadimento psichico fino alla consapevolezza nella morte. Macbeth acquista centralità crescente a discapito della moglie e nel finale l’attenzione è tutta per lui, con il grande monologo “Mal per me che m’affidai”, pagina che compie la riflessione di “Pietà, rispetto, onore” e fa della mente del tiranno il fulcro ultimo del dramma.

Questa prospettiva cade nel 1865, ed è per questo che chi fosseia tentato di mescolare le versioni inserendo il finale fiorentino compirebbe un grave errore di coerenza drammaturgica. La coppia diabolica, dopo aver agito in simbiosi, muore a distanza in modo parallelo: un flusso di coscienza, razionale o irrazionale, nel sonno o in piena lucidità, in forma di scena o di aria, poi si scompare, rapidamente, senz'altre parole. Il loro percorso perverso è parte del meccanismo della storia, di un respiro simbolico più ampio: come il coro dei profughi si era fatto lamento universale in una nuova intonazione, così l'esultanza finale, con la sua marcia grandiosa, è la celebrazione del potere del suo inviluppo inesorabile di cadute e trionfi, dolori e celebrazioni. Il tanto – e a torto – vituperato finale corale e accentua la dimensione ciclica e propagandistica del potere che inghiotte, nello spazio di un paio di battute, anche i suoi apparenti titani. Gli stessi che nella versione fiorentina avevamo visto isolarsi sempre più nella propria ossessione senza scampo o campo d'azione. Nel teatro di Verdi ogni partitura, ogni versione ha una sua unitarietà e precisa tinta inalterabile, per questo l'ascolto comparato non è solo curiosità per studiosi sull'evoluzione dello stile e della poetica, ma anche l'occasione per osservare come il sommo compositore e drammaturgo sviluppi il medesimo soggetto, pressoché lo stesso libretto, con prospettive e caratteri sottilmente differenti.


 

 

 
 
 

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