L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Catabasi d’amore

Piersandra Di Matteo

L’arte ha il dovere di pensare la condizione umana, anche la più estrema

Romeo Castellucci

Il teatro di Romeo Castellucci vibra di una tensione visuale che non cessa di far affiorare immagini inesorabili, fisiche, percosse da intensità universali che interrogano l’atto del guardare. Sono immagini che chiamano in causa, che vogliono essere viste. Il loro potere di attrazione e ambivalente, provoca nausea e vergogna, partecipazione e abbandono. I suoi dispositivi scenici sono modi d’insinuare nel commercio degli sguardi un sospetto capace di predisporre l’affiorare di qualcosa di inatteso, un retro-scena, forse un manque, che collima con uno scuotimento essenziale, quello che si sperimenta nel sentirsi esposti, guardati nell’osso della propria esistenza, quasi fossimo, noi spettatori, al centro della scena. È esattamente ciò che accade quando l’incidente volontario dell’essere spettatore si capovolge nell’incidenza (o tangenza) della visione, lì dove prende corpo qualcosa che ti ri-guarda, che ti in-quadra, che ti fa quadro. Perché guardare significa essere visti dall’immagine.

Nell’affrontare Orphée et Eurydice di Christoph Willibald Gluck, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi, Romeo Castellucci penetra in profondità il mito dell’ingiunzione a “non guardare!” – mito antiteatrale par excellence – che e al cuore della sua riflessione scenica. Il taglio prodotto dallo sguardo dell’Altro, il rapporto con l’interdetto, l’intimazione a distogliere gli occhi, a vario titolo attraversano le pieghe di molte produzioni: e il caso della prescrizione a “Non guardare” o “Non guardarmi” rivolta frontalmente allo spettatore nel secondo atto di Giulio Cesare (1997), in alcuni Episodi della Tragedia Endogonidia (2002-2004), in Schwanengesang D744 (2013). A essere in questione e lo statuto dello spettatore, convocato a stabilire una relazione con l’immagine che non rende innocenti.

La vicenda del vate tracio, la perdita dell’amata ninfa Euridice per il morso del serpente, la catabasi nel regno delle ombre per riportarla in vita, il tradimento del divieto di guardare – magnificati nella versione classica nel IV Libro virgiliano delle Georgiche, e più tardi nelle Metamorfosi di Ovidio (X 1-85) – diventano per Romeo Castellucci l’occasione per condurre una riflessione sulla condizione abissale del coma.

Il dispositivo ideato dal regista salda ad anello uno sguardo doppio e simultaneo: la musica di Gluck – nella versione di Hector Berlioz (1859) su libretto francese di Pierre Louis Moline – e eseguita dal Teatro La Monnaie di Bruxelles e trasmessa in tempo reale nella camera 416 del reparto di Neurologia del Centro riabilitativo Inkendaal, a 14 km dal centro citta. In quella stanza c’è Els, una giovane donna di 28 anni. Per mezzo di cuffie stereofoniche, nell’esatto momento dell’esecuzione, può ascoltare il lamento d’amore di Orfeo che piange l’amata “più di mille donne in lutto” (Rainer Maria Rilke). Allo stesso modo lo spettatore, novello Orfeo, dalla poltrona del Teatro, compie – attraverso la soggettiva in diretta di una steadycam – un viaggio per le strade della citta, il giardino del centro riabilitativo, i corridoi dell’ospedale fino a raggiungere Els e incontrare il suo sguardo.

La cantante che interpreta Orfeo e al centro di una scena scarna. Dietro di lei un enorme schermo occupa l’intero quadro scenico. Con un registro severo, un testo proiettato scandisce gli episodi salienti della vita della ragazza, la sua infanzia in un quartiere popolare di Vilvoorde, il divorzio dei genitori, l’incontro con Daniel, il loro amore, la nascita dei figli Adriano e Alessio. E veniamo a sapere della tragica fatalità che la colpisce il 18 gennaio del 2013. D’improvviso, mentre e sola in casa con i figli piccoli, e colta da un malore. Viene soccorsa e ricoverata nel reparto di terapia intensiva. Gli esami clinici riscontrano una trombosi al tronco encefalico: Els e colpita da una forma di pseudo-coma, conosciuta come Locked-in Syndrome. La narrazione risale poi fino al momento presente, scopriamo che Els e totalmente cosciente e vigile, comprende ogni cosa, ma non e in grado di muoversi e parlare, presenta infatti la completa paralisi dei muscoli volontari, eccetto quelli che controllano il movimento degli occhi. Può infatti muovere verticalmente le palpebre: un battito di ciglia indica “si”, due indicano “no”. Els, imbozzolata nel suo corpo come fosse uno scafandro, comunica esclusivamente attraverso lo sguardo.

Nell’istante in cui inizia la catabasi infera di Orfeo per concessione di Amore, sul grande schermo prende avvio il viaggio nella citta. Ammansiti Furie e Spettri inferi con il canto capace di ripristinare antichi equilibri alterati del cosmo, Orfeo finalmente intravede Euridice (secondo il libretto), e anche noi esploriamo lentamente la stanza della giovane donna che e distesa nel suo letto. Indossa delle cuffie. Per un attimo,

incontriamo i suoi chiari occhi aperti. “Il tema dello sguardo, o meglio, della ferita dello sguardo, cosi centrale anche nell’opera di Orfeo ed Euridice, e ora anche al centro della nostra visione”. Ma nell’istante in cui Orfeo, trasgredendo il patto, si volge verso Euridice, la cantante si volta per la prima volta e abbandona la frontalità. Una luce bianca satura l’immagine e inonda lo schermo. Segue un buio assoluto che avvolge la scena e abbraccia la celebre aria J’ai perdu mon Eurydice, che diventa canto d’amore straziante per l’apparente irrevocabile perdita. Ma un Amore bambino fa la sua apparizione offrendo la prospettiva di un lieto fine non previsto dal mito. Nessuno sparagmòs bacchico e convocato, né la dispersione fecondante della parola divina del poeta. Nell’enfasi trionfale d’amore, davanti ai nostri occhi, prende corpo un paesaggio tridimensionale. Presenta tutti i tratti di una veduta arcadico-pastorale, alla maniera di Claude Lorrain. Come emergendo dal lago Mnemosyne, caro al culto orfico, la Ninfa-Euridice riguarda ancora una volta Orfeo al di là della garza. Il progressivo trascolorare dall’alba alla notte fonda allude a una ciclicità inalienabile. Il panorama cede il posto alle immagini live dalla camera. L’orchestra esegue le ultime note, e si interrompe. Mani di uomo, con dolcezza sconfinata, tolgono infine le cuffie a Els che lentamente sparisce alla visione.

Romeo Castellucci predispone che tutte le immagini filmiche siano fuori fuoco, velate come se la nostra condizione di omologhi di Orfeo ci costringesse a subire un difetto oftalmico. Nessuno indugio voyeuristico ha campo qui. Ogni cosa e filtrata dai toni del pudore, della discrezione o su di essa si esercita, al contrario, la pulsione che smania per via dell’interdetto. “La sfocatura – sostiene Castellucci – e la sola condizione possibile per guardare l’abisso che si offre ai nostri occhi, in quel preciso istante. Vederla e allo stesso tempo non-vederla, la mancanza di dettagli nel campo visivo, significano una distanza attraverso la quale io spettatore posso confondere quella persona sdraiata nel letto con la mia figura. Potevo essere io”. Analizzando la postura testimoniale dello spettatore Alan Read nota con acume:

Raggiungendo Els nella sua camera, non siamo solo invitati a considerare la sua “immobilita”, ma anche indotti a relazionarci in modo serio al suo stato. Non solo al suo stato, ma al tipo di atto che lei ci offre in quello stato, come testimoni. E il suo stato e, qui e ora, in qualche modo il contrario del potenziale che la performance ci promette sempre quando fa apparire un atto, poiché il suo stato e, per definizione, irreparabile. Uno stato che non può essere curato, e di conseguenza non può essere riparato. Els non può essere riparata. Non si conosce alcuna cura per la Locked-in Syndrome. L’atto di Els e dunque affascinante e terribile, come nel pieno di uno stupore, e ciò ha a che fare con lo stato di inerzia di questo corpo. Per tutto ciò l’irreparabile chiaramente non è nulla. Per Els in un certo senso è “tutto”. E ovviamente e tutto quello che abbiamo come testimoni, quando lei inonda lo schermo mentre le soliste, che prima pensavamo essere gli agenti dell’opera Orfeo ed Euridice, sono rimpicciolite sul palco dalla sua magnitudine impassibile.

La mitologia e la musica di Gluck, l’intreccio drammaturgicamente informato tra libretto e vicenda biografica, sono le esclusive condizioni perché quest’incontro impossibile abbia luogo. L’uno significa l’altro e viceversa. In Arbeit am Mythos, Hans Blumenberg sostiene che il mito non e ciò che esiste all’inizio, una volta per sempre, ma ciò che resta alla fine, che vive nella ricezione, declinazione ulteriore di un nucleo iconico stabile da portare a compimento. Nel lavoro di continua metamorfosi di sé, viene garantita la sua presenza, sotto maschere diverse, attraverso la storia. Il “passato remoto” (Vorvegangemheit) del mito di Orfeo trova la propria destinazione in un superamento che vive nella magnitudine dello sguardo di Els, nel suo essersi incarnata per noi come Euridice.

Di fonte a questa esperienza che a fatica si riesce a definire spettacolo, lo spettatore sperimenta la radicalità di un teatro del corpo che abbraccia le altezze e le profondità dell’esperienza umana, che rivela la tragedia di esseri caduti in un corpo, la nostra irrimediabile cosalità. In questa visione qualcosa ci commuove. E una commozione che rifiuta la stereotipata condiscendenza del sentimentalismo. E forse la pietas che si genera quando ci sorprendiamo per essere stati chiamati per nome. E in quel preciso momento sta a noi decidere se distogliere lo sguardo, attardarsi, o forse guardare per l’ultima volta.

 


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