L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

NOTE DI DIREZIONE

Michele Mariotti

 

Ernani, la quinta opera di Giuseppe Verdi, è un’opera fortemente belcantista. Ma è il titolo con cui Giuseppe Verdi inizia a scoprire e sperimentare un modo specifico di “scolpire” i suoi personaggi che diverrà suo caratteristico, e che ritroveremo in futuro, ne I due Foscari, ne I masnadieri, in Macbeth. Una tecnica di scavo psicologico e musicale al tempo stesso, attraverso cui delinea i personaggi, tanto nelle scene individuali quanto nei momenti di insieme o nei concertati, su cu sembra “calare” dall’alto una sorta di lente d’ingrandimento in grado d’“immortalare”, si direbbe per sempre, momenti e profili che sono costruiti sulla linea del canto.

Del Verdi che mi appassiona, in Ernani ritrovo il ritmo e il taglio teatrale che solo Giuseppe Verdi sa dare alle sue opere. Un ritmo che è anche passo teatrale, con trovate geniali, come se ne trovano anche nel finale secondo della Forza del destino, per esempio, con il coro maschile su cui svetta la voce della sola Vergine degli Angeli, e qui, nell’atto terzo di Ernani, in “O sommo Carlo”, dove la preghiera di Don Carlo, accompagnata dall’arpa e dal coro, si innesta su un settimino vocale. Sono momenti magici.

La vicenda di Ernani, certo, è abbastanza intricata, come lo sono in generale le trame operistiche, ma il suo libretto funziona: nulla fu lasciato al caso, né tanto meno scritto per accontentare chi, come ad esempio Sophie Loewe, la prima interprete di Elvira, pretendeva l’aggiunta di un’aria nel finale; cosa che Verdi si rifiutò di fare, proprio per non interrompere il flusso di un ritmo di cui conosceva bene le tempistiche. Nel libretto di Ernani, il legame tra parola e musica è fortissimo e, sebbene sul piano letterario nulla superi in grandezza i libretti di Boito, in Ernani, come in Masnadieri (in cui il linguaggio è “nudo e crudo”), si comprende l’importanza dell’esecuzione dell’opera nella lingua in cui essa fu pensata e scritta. La ricerca sulla lingua, in Verdi, come quella sulla musica, anche attraverso gli anni di galera, delinea un percorso continuo alla ricerca di una sempre maggiore consapevolezza, tale per cui ogni opera è l’esatta conseguenza della prima e la premessa indispensabile per ciò che viene dopo. Esiste un forte parallelismo tra il passare del tempo e l’evoluzione del suo corpus compositivo.

Il mondo dell’opera di oggi, rispetto a quello in cui Verdi è vissuto, è cambiato in modo negativo per certi aspetti, è diventato molto autoreferenziale, e talvolta si perde di vista quello che dovrebbe essere il motore dominante della messa in scena di un’opera: l’essere al servizio della musica e, tra regista e direttore, condividere una responsabilità, che deve essere comune. È quindi importante tornare a metter al primo posto la coerenza e il rispetto del senso musicale dell’opera, a prescindere dalla scelta registica, che può essere moderna o tradizionale: ci deve essere rispetto del significato della musica, tutto il resto viene di conseguenza. La musica è drammaturgia, perciò se non si capisce il senso della musica, non si capisce il senso dell’opera.

Eugenio Montale scriveva che l'ambientazione ideale per Ernani sarebbe state: “Un telone di cartapesta, un'orchestra discreta ma non sovrabbondante, due o tre artisti capaci di sentire ed esprimere il canto verdiano erano una volta sufficienti a rivelare Verdi a un pubblico degno di ascoltarlo; e ciò avveniva più spesso in teatri di modeste esigenze. Senza dubbio, le antiche esecuzioni erano volgarucce ma rendevano il più e il meglio: l'essenza del canto di Verdi”.

Ma il senso nascosto delle parole di Montale è proprio che, nella discrezione, e non nella superficialità né nell’autoreferenzialità, sta la grandezza della musica di Verdi e il senso di una ogni sua nuova interpretazione. Il nostro compito è quindi di essere al servizio della musica, con l’umile consapevolezza che non ci può essere una sola interpretazione di una stessa opera ma che, viceversa, l’opera non può essere fatta entrare a forza dentro un’idea preconfezionata, pregressa: bisogna ascoltare dove ci porta la musica. Le idee verranno, dall’opera stessa.

 

 

L’OPERA IN BREVE

Giuseppe Martini

 

Per la stagione di Carnevale 1843-44 la Società proprietaria del Teatro La Fenice, dopo aver sondato la disponibilità di Pacini, Mercadante, Alessandro Nini e Donizetti, si diresse su Verdi come momento principali delle novità operistiche da offrire al pubblico veneziano. A Verdi la richiesta cadde a fagiolo: sia perché intendeva smarcarsi dal ristretto confine milanese a cui lo avevano legato le opere precedenti, in modo da sperimentare nuove strade drammaturgiche; sia per la cifra offerta, che gli veniva comoda per via di certi affari immobiliari che aveva in agenda. Anzi, per far quadrare meglio i conti chiese duemila lire austriache in più rispetto alle diecimila che il Teatro gli aveva offerto, e che il Teatro gli vennero accettate unitamente alla richiesta di avere carta bianca sul cast. Il contratto firmato il 6 giugno 1843 prevedeva l’allestimento di un’opera verdiana non nuova (Verdi scelse I Lombardi alla prima Crociata) e di un’opera nuova, che fu identificata su Ernani dal dramma di Victor Hugo. In questo modo la Fenice diventava il primo teatro in Italia ad assicurarsi un’opera nuova di Verdi fuori da Milano. I Lombardi però non piacquero al pubblico veneziano, per cui tutte le responsabilità dell’operazione ricaddero su Ernani, che peraltro diede anche qualche problema di censura: il presidente del Teatro non voleva saperne su un punto bizzarro, cioè che un corno suonasse dietro le quinte, e a fatica Verdi riuscì a imporre il proprio volere (se ne ricorderà ancora in una celebre lettera ai tempi di Rigoletto, senza riuscire a darsene una spiegazione). Inoltre dovette fronteggiare le pretese del soprano, Sofia Loewe, che a insaputa di Verdi si era fatta preparare un rondò da Piave da sostituire al terzetto del finale ultimo, che non le piaceva. Anche in questo caso, con i modi bruschi ma efficaci che contraddistinguono il periodo degli “anni di galera” (gli stracciò il testo davanti agli occhi), Verdi ebbe la meglio e rintuzzò ogni capriccio della cantante. Ernani debuttò il 9 marzo 1844 con enorme successo nonostante la raucedine del tenore Carlo Guasco e la non impeccabile performance della Loewe, raccogliendo ben tredici chiamate ai cantanti. Da lì in poi invase i teatri italiani diventando una delle opere di maggior successo di Verdi. Su richiesta del basso Ignazio Marini, per una rappresentazione alla Scala di Milano del 3 settembre 1844 Verdi aggiunse all’ingresso del finale primo “Infelice!... e tuo credevi” la cabaletta “Infin che un brando vindice”, rielaborando (con aggiunta di pertichini del coro) quella “Ah! Se il capo mio canuto” inserita, sempre a uso di Marini, in una recita di Oberto data a Barcellona l’1 febbraio 1842, e da quel momento non è mai uscita dalle esecuzioni, anche se Verdi non l’aveva prevista nella versione originaria dell’opera né si è mai espresso per la sua definitiva introduzione anche dopo che Ricordi la stampò negli spartiti. Per il tenore Nicola Ivanoff, grazie alla mediazione di Rossini, scrisse l’aria con cori “Odi il voto, o grande Iddio”, con tanto di cabaletta “Sprezzo la vita né più m’alletta”, in occasione dell’allestimento a Parma del dicembre 1844. Per giudizio unanime, Ernani rappresenta la svolta di Verdi dal dramma corale a quello delle passioni private, espresse da una felicità melodica che prende per mano le strutture convenzionali del melodramma e da personaggi animati da sentimenti forti e quasi ancestrali: nascono qui peraltro la caratteristiche del futuro tenore verdiano dolce e patetico e al contempo vigoroso e appassionato, e quelle del baritono “alto”, melodioso e dalla psicologia sfaccettata, che in Carlo trovano un degno e non convenzionale antagonista della figura di Ernani.

IL LIBRETTO

Giuseppe Martini

Libero di scegliere un argomento differente rispetto agli standard del gusto scaligero, per l’opera commissionata dalla Fenice a Verdi cominciarono a ronzare molte idee interessanti in testa. Prese ad affascinarlo in quel momento il pensiero di Re Lear, che diventerà una sua ossessione per anni, ma lo scartò (non si sentiva pronto per affrontarlo); pensò a due soggetti di Byron, uno era il Corsaro ma lo scartò perché la Fenice non gli assicurava la presenza del baritono che desiderava per quel ruolo, Giorgio Ronconi; l’altro era I due Foscari, perfetto per Venezia, ma i mugugni degli eredi Barbarigo e Loredan per il modo con cui nel dramma erano dipinti i loro avi spinse il teatro a evitare anche questa ipotesi (Verdi la dirotterà nel novembre 1844 a Roma). Si orientò poi su Caterina Howard da Dumas, ma per la Fenice era vicenda troppo truculenta. Anche un soggetto su Cola di Rienzi da Edward Bulwer-Lytton non ebbe fortuna. Durante questi rovelli ricevette una lettera di un tal Francesco Maria Piave, di Murano, amico del segretario della Fenice Guglielmo Brenna, che gli si proponeva come librettista parlandogli di un possibile libretto dal Cromwell di Scott. Interrotti gli studi seminariali, Piave (1810-1876) coltivava ambizioni letterarie – a Roma divenne socio dell’Accademia dell’Arcadia e conobbe Belli e Jacopo Ferretti – ma a Venezia si arrangiava come correttore di bozze e traduttore, scrivendo qualche poesia e tentando i primi passi nella librettistica. Convinto da Brenna, Verdi accettò la proposta di Piave, che diventerà da quel momento suo fido collaboratore per molte opere, anche grazie al suo carattere accomodante che permetteva a Verdi di imporre le proprie idee anche in sede letteraria. Nell’agosto 1843 il soggetto fu deviato su Allan Cameron (ambientato all’epoca di Carlo II Stuart), che pure aveva già passato la censura, ma alla fine Verdi non ne era convinto, e cominciò a vedere una luce solo quando il presidente della Fenice conte Nani Mocenigo propose Ernani da Hugo. Il dramma, uno dei perni del teatro romantico, era stato al centro di contestazioni nel 1830 per le sue innovazioni drammaturgiche, ma era già stato ridotto a opera nel 1834 da Vincenzo Gabussi e aveva tentato Bellini, che rinunciò per motivi di censura. Piave si mise al lavoro con impegno: inserì ex-novo la scena iniziale, l’aria “Come rugiada al cespite”, i cori delle ancelle e “Si ridesti il Leon di Castiglia”; fuse con abilità nel primo atto i primi due di Hugo; eliminò i nomi dei congiurati; cambiò quello di Doña Josefa in Giovanna e di Doña Sol nel più operistico Elvira; e per il resto, su indicazione di Verdi, si mantenne il più aderente possibile al testo originale di cui, per evitare problemi di censura, eliminò la scena in cui Carlo si nasconde nell’armadio. La severità critica verso Piave librettista è di maniera ma poco centrata: nonostante il lessico marezzato e un poco arcaico (“aborrito amplesso”, “nel penetral più sacro”, “bronzo ignovomo”, “vanni”), ma non alieno da effetti felici (“cribrano i dritti” “Viene il mirto a cangiarmi col cipresso”), il lavoro di Piave risultò adattissimo allo scopo, anche se il grottesco di Hugo viene relegato a pochi tratti). Se il libretto superò indenne la censura veneziana, qualche problema lo ebbe in altri teatri: a Palermo (1845), Catania (1845, 1847) e Odessa (1851) fu alterata la trama (in particolare nella natura libertina di Carlo e nelle circostanze inerenti alla congiura) e il titolo cambiato in Elvira d’Aragona; a Parigi (1846) – pare a séguito delle proteste di Hugo scontento dell’adattamento del proprio dramma – e a Napoli (1847) andò in scena con il titolo Il proscritto ossia Il corsaro di Venezia


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