L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

Il «Genere Elevatissimo»


1. La Rossini renaissance, come ormai comunemente si definisce il recupero – testuale, esecutivo e di ‘gusto’ – dei lavori un tempo dimenticati e sottovalutati di Rossini, ha riguardato principalmente la monumentale produzione di opere serie destinate ai Teatri Reali di Napoli. Si tratta, come è ben noto, di nove titoli in tutto (dei quali otto dati al San Carlo e uno, Otello, ospitato al Teatro del Fondo nel periodo in cui, dopo l’incendio del 1816, la sala maggiore era in ricostruzione). Senza dimenticare i gloriosi precursori, primo fra tutti Vittorio Gui, l’impulso massimo è venuto dall’impresa monumentale dell’Opera Omnia avviata dalla Fondazione Rossini a partire dal 1971 e, a seguire, dal Rossini Opera Festival di Pesaro che si è preso il non facile compito di porre sulla scena, spesso mentre la versione testuale era ancora in elaborazione, le opere stesse. A distanza di quaranta anni dall’avvio si può dire che tutte le opere serie di quell’arco della produzione rossiniana che va dalla seconda parte del 1815 all’inizio del 1822 sono state riprese in versioni filologicamente accettabili e tutte hanno, quale più quale meno, avuto una loro riabilitazione in alcuni casi anche clamorosa. Come sempre avviene nel teatro, la Rossini renaissance ha potuto e dovuto giovarsi anche del contributo di interpreti in grado di affrontare al meglio un repertorio che già dall’ultimo periodo della vita dell’autore era ritenuto impervio. È emerso in primo luogo che la drammaturgia musicale coltivata da Rossini e dai suoi librettisti non solo non era attardata, come sembrò nel prosieguo dell’Ottocento, ma per certi versi era più avanzata di quella a cui Rossini stesso si adeguò quando, a Parigi, si cimentò con lo stile del grand-opéra che si andava affermando. Ciò poté avvenire da un lato grazie alla posizione che il compositore ricoprì a Napoli, dall’altro grazie alla egemonia che la vita musicale napoletana occupò almeno fino all’Unità d’Italia. Ma va anche detto che questa ricerca si svolse con una varietà di scelte e di direttive assolutamente uniche. Tra la drammaturgia di un Otello e il trionfo vocale assoluto di un’Armida, tra il calarsi in una vicenda di popoli e di personaggi quale quella del Maometto II e la classicità recuperata in suprema astrazione di un’Ermione, corrono profondissime differenze. Per non parlare dei primi impulsi romantici, come si volle definirli, di una Donna del lago. Varietà suprema dunque, pur nell’unità di stile che Rossini seppe mantenere (ma anche su questo i tempi sono maturi per una articolata riflessione). Le profonde differenze tra un lavoro, o, vorrei dire, tra un capolavoro e l’altro, decisero all’epoca anche la loro sorte. Se Otello rimase in repertorio in toto o in parte fino al periodo in cui si affermava quello di Verdi, non una sola pagina di Ermione (fatti salvi alcuni autoimprestiti) uscì da Napoli. Altri titoli furono più fortunati e sarà il caso del Mosè in Egitto oscurato tuttavia dal rifacimento francese di Moïse et Pharaon. Alla miopia di certa critica ottocentesca, miopia rimasta in parte dilagante fino al Novecento inoltrato, sfuggiva un particolare essenziale: Rossini dopo il trasferimento a Parigi si era sì adeguato alle diverse esigenze dei teatri francesi, ma in nessun caso le edizioni napoletane di Maometto Mosè possono essere considerate abbozzi o semplici preannunci di quelle destinate all’Opéra di Parigi, come si dimostrerà più avanti quando tratteremo brevemente della fortuna della seconda.

2. Mosè in Egitto andò in scena al San Carlo il 5 marzo del 1818, ma fu ripresa nel marzo successivo con un terzo atto profondamente riveduto e l’introduzione della celebre Preghiera. Basterà questo per dimostrare la posizione cronologicamente centrale del lavoro nel periodo napoletano di Rossini. C’è di più. Con quest’opera Rossini si cimentava in un genere particolare. La suddivisione del calendario dell’Italia dell’epoca – sovranamente conciliatoria – tra Dio e Pulcinella (per dirla con G.G. Belli) e cioè tra periodi quaresimali e di penitenza da un lato e altri di feste, baccanali e stagioni teatrali (al teatro si dedicava per lo più il carnevale, già di per sé differenziato per durata nei singoli anni, dato che si andava dal giorno di Santo Stefano, il 26 dicembre, al martedì grasso) tollerava qualche eccezione. Un grande teatro come il San Carlo poteva in quaresima ospitare lavori di soggetto edificante, vicini al genere oratoriale. Rossini aveva avuto un approccio a questo tipo di teatro già col suo Ciro in Babilonia. Il genere, se così vogliamo definirlo, era dunque nobile e impegnativo essendo per lo più con soggetti di ascendenza biblica. Di questo Rossini dovette avere piena coscienza quando, nel 1818, affrontò il libretto di Mosè che Tottola aveva tratto dall’Osiride del monaco olivetano Francesco (al secolo Pompeo Ulisse!) Ringhieri che aveva accordato la vocazione monastica con quella teatrale e le leggi del teatro classico e di quello francese con un sicuro istinto melodrammatico. Delle tre leggi dell’unità di tempo, luogo e azione, Ringhieri ne rispettava solo due, la prima e la terza. Il luogo invece variava per ospitare vicende di popoli oppressi, interventi divini e miracoli non senza qualche parallela trama amorosa. Erano gli ingredienti fissi di questo tipo di spettacolo e non va dimenticato che Ringhieri, al pari di quanti si dedicavano al genere, era sì un buon lettore di Racine e delle sue ultime tragedie sacre, ma, da bravo ecclesiastico, conosceva il modo di interessare la plebe e le platee dei teatri pubblici, laddove il sommo tragediografo francese scriveva i suoi lavori di ispirazione biblica per l’ambiente rarefatto di un collegio femminile posto all’ombra del Gran Re e della sua corte. Nel caso della vicenda di Mosè liberatore davanti al quale, dopo vari miracoli, si aprono addirittura le acque del mare, c’era di che godere degli effetti scenici, non sempre facili, se è vero che la difficoltà di render accettabile all’occhio del pubblico la scena ultima fu determinante per stimolare la revisione con l’aggiunta della Preghiera. Come dire che il sublime doveva mettere all’angolo il possibile ridicolo. Così certo fu, considerato il ruolo eccelso svolto da quella pagina che accompagnerà Rossini per il resto dei suoi giorni e anche dopo, dato che essa fu intonata all’Agnus Dei del suo funerale e risuonò, nel maggio 1887, nella piazza antistante la chiesa di Santa Croce a Firenze quando vi giunse la salma del compositore per essere ospitata tra quelle dei grandi italiani. Quel giorno centocinquanta strumentisti accompagnarono trecento coristi. La trascrizione di Paganini servì, a sua volta, nel 1903, quando trenta violini del Conservatorio di Pesaro suonarono sotto la direzione di Mascagni nel momento in cui si tolse il velo davanti al monumento. Come dire che la pagina era e restò sempre nel cuore di tutti e questo giustifica, ad abundantiam, il fatto che in qualche modo, in questo periodo di celebrazioni dei 150 anni, la si ricolleghi all’Unità d’Italia.


3. Varrà la pena di esaminare brevemente come Rossini affrontò un tema e un testo certamente impegnativo. Sappiamo che nelle sue lettere il compositore si apre poco. Perfino scrivendo a casa non manca di associare battute ironiche a quelle seriose e di passare dalla Bibbia ai Maccheroni. I primi accenni al Mosè sono telegrafici e l’opera è sempre in essi definita genericamente Oratorio. Così, ad esempio, il 9 gennaio 1818 (era tornato appena da Roma dopo Adelaide di Borgogna) si limita ad un accenno nel postscriptum:

Sto Scrivendo Notte, e Giorno l’Oratorio, e ne spero bene. (1)

Accenno dunque, con un uso delle maiuscole sul quale si potrebbe fare qualche divagazione. Il 20 gennaio c’è qualcosa di più. Dopo aver parlato di scudi, bajocchi e ricevute, conclude:

Io Scrivo l’Oratorio mi diverto, e cogliono il Prossimo. Trattati a subisso, e che la duri vi raccomando l’Economia mille baci al Papa e a tutti gli amici addio (2)

Non volendo guardare maiuscole e punteggiatura c’è tutto, dai contratti che gli si offrivano «a subisso», all’economia (che non manca mai), prossimo coglionato e (propaggine religiosa?) l’Oratorio. Il 13 febbraio mette a confronto il genere «Elevatissimo» con i napoletani e la loro pregiata cucina:

Io Ho quasi terminato L’Oratorio e va benone. E di un Genere però Elevatissimo, e non so se questi mangia Macheroni lo Capiranno. Io però scrivo per la Mia Gloria e non curo il Resto. (3)

Al di là dello stile scanzonato sarà utile sottolineare che una qualche preoccupazione Rossini doveva avere per lo stile ‘elevato’ che si richiedeva e si riteneva confacesse ai soggetti sacri. Un tema su cui torna ad insistere pochi giorni dopo, il 24 febbraio:

L’Oratorio mi costa assai fatica perche di un Genere non di molto effetto Popolare ma Sublime e fatto per acrescere La mia Radicale Riputazione. (4)

Parole da cui si evince forse il proposito di ottenere le laudi che si riservavano al genere ‘nobile’ e ‘sublime’, due aggettivi di cui si faceva ampia profusione discutendo della musica sacra. Se non fosse che il nobile e sublime, come Rossini dimostrò in tanti lavori – da quelli napoletani a Semiramide e al Tell – spettava anche al linguaggio dell’opera seria tout court senza connotazioni bibliche o sacre. Il discorso intorno a questa aggettivazione rischierebbe dunque di essere inane e varrà forse la pena di esaminare invece l’approccio al testo.

4. Nella pratica corrente Rossini usava servirsi sia di collaboratori, sia di autoimprestiti da opere precedenti. Cosa che fece anche con Mosè in Egitto. Ma l’una e l’altra prassi (usuale all’epoca e comune negli autori precedenti, sia in Italia che altrove) in Rossini è sempre singolare e, se mi è consentito il termine, estremamente significativa. Nel caso del Mosè Rossini si concentrò sulle scene d’insieme, come quella delle tenebre che, con un colpo d’ala drammaturgico, apre l’opera (il fatto che nella versione francese questa sia trasferita all’inizio del secondo atto, dopo un primo di vari accadimenti, anche festosi, la dice lunga sull’essenzialità della versione napoletana rispetto a quella posta a servizio delle macchine scenico-drammaturgiche dell’Opéra di Parigi). Concentrarsi sulle grandi scene non poneva l’obbligo di trascurare le arie solistiche, cosa che invece Rossini fece. Sorprende fino ad un certo punto che l’Aria di Amaltea, «La pace mia smarrita», fosse ripresa di sana pianta dal Ciro in Babilonia, opera di genere affine. Con ciò Rossini dava spazio a Frederike Funk che interpretava quel ruolo: uno degli obblighi dunque che tanto pesavano sui compositori dell’epoca e dei quali proprio a Napoli Rossini si era prepotentemente liberato. Qui siamo dunque di fronte ad una eccezione, ma l’Aria si soppresse già nella versione del 1819 quando non cantava più la Funk. Sorprende molto di più che Rossini abbai trascurato le arie dei due protagonisti maschili. L’Aria di Faraone fu infatti affidata a Michele Carafa, apprezzato compositore e amico: il “Caraffino”, come lo chiamava scherzosamente Gioachino, scrisse un nobile pezzo, ma resta estremamente singolare che Rossini avesse evitato di comporlo. Nel 1820, sempre nel corso delle future repliche napoletane, come da me dimostrato in altra sede, Rossini provvide comunque a scrivere, in sostituzione di quello ‘originale’ di Carafa, un numero proprio, l’Aria «Cade dal ciglio il velo». (5) Se si aggiunge che perfino l’Aria di Mosè, «Tu di ceppi m’aggravi la mano», non è di mano di Rossini nell’autografo ci si può convincere che tutto l’impegno destinato al ‘dotto’ e ‘sublime’ fu riservato ai grandi pezzi d’insieme di cui il primo atto è un esempio clamoroso dal punto di vista proprio dell’economia drammaturgica. Alla dolente scena delle tenebre segue la gioia dopo la promessa di Mosè e la restituzione delle luce. Analogamente il finale, ad invicem, presenta la gioia degli Ebrei in procinto di partire, gioia che cede al dolore dopo la notizia drammatica della revoca di Faraone, seguita dalla pioggia di fuoco. In questo primo atto la vicenda privata di Osiride ed Elcia – divisi tra amore e dovere – è posta tra i due grandi blocchi ed affidata ad un duetto. Il secondo atto è strutturato in certo senso in modo opposto al primo. Qui il quartetto e il grande concertato sono collocati al centro, dopo un duetto e la citata Aria di Amaltea poi soppressa. Sorprendente e avveniristica l’ultima parte. Qui Rossini, dopo la già ricordata Aria di Mosè, si impegna finalmente in un Coro, Recitativo ed Aria (così definita nell’autografo), quella di Elcia, «Porgi la destra amata», ma si impegna alla grande trattandosi di un pezzo assai elaborato che trapassa di fatto ad un concertato di intensa drammaticità che sorprese i napoletani e fu lodato dal recensore della prima:

qualche svenevole amatore ha trovato troppo laceranti le grida che accompagnano le parole «È spento il caro bene», nelle quali altri riconoscono un lampo di quella filosofia, dalla quale è stato guidato Rossini nella composizione di questa musica.

Parole che si possono sottoscrivere in pieno, come altre di quell’articolo. Ma su questa architettura del secondo atto va spesa forse qualche altra parola.

Le opere serie del San Carlo erano per lo più in due atti. Nei casi diversi c’è sempre una ragione scenico-drammaturgica. Nel Mosè occorreva predisporre il passaggio del Mar Rosso che problemi ne poneva e ne pose. Dunque la grande scena di Elcia funge da finale secondo. Poi si dette spazio per preparare l’ultima parte. Non si conosce la musica della versione 1818, della quale è rimasto solo il libretto, ma va detto che nel colpo d’ala della Preghiera si concentra di fatto il terzo atto definitivo. Dopo di essa Rossini conclude con aforistica e bruciante asciuttezza. Il modello è quello, caro al Pesarese, dei temporali: una breve tempesta, questa volta di mare a differenza di quelle del Barbiere o di Cenerentola. Poi, finalmente, la calma. L’opera si era aperta, sulla scena delle tenebre, in Do minore, preceduta da tre semplici accordi. Mare e sipario si richiudono sulla conquistata serenità del Do maggiore.

5. Come si evince da queste scarne considerazioni, la drammaturgia “essenziale” con punte elevate nei momenti di insieme è la caratteristica del Mosè in Egitto. La versione francese risponderà ad altri obblighi e lo farà felicemente. Ma il fuoco che domina la versione napoletana è una cifra assoluta ed è il «sublime» coltivato da Rossini di fronte a questo arduo soggetto. Nulla di meglio che fare qualche considerazione sulla fortuna delle due versioni rendendo giustizia su quanto si è spesso detto e scritto sul Rossini ‘in progress’ che tende al Tell conclusivo. Meglio di tutto per questo sarà vedere le reazioni dei contemporanei. Stupirà forse qualche profano apprendere che, di fatto, l’opinione sui due Mosè non fu nei primi anni univoca. Certo la critica francese, dopo la prima del Moïse all’Opéra il 26 marzo 1827, fu unanime nel salutare il passo compiuto dal compositore, ma usò terminologia e angolazione diverse da quelle che, anni dopo, avrebbero ripreso critici quali il Radiciotti. Il Fétis, ad esempio, si rallegrò che Rossini avesse dimostrato alla scuola nazionale francese che si sapeva «cantare anche in Francia». Coglieva così perfettamente il senso del rifacimento: adattamento ad altra lingua, ad altro stile, ad altro gusto, ma non a scapito di quello italiano, semmai con valenza contraria. Del resto nella secolare polemica tra i difensori della musica italiana e del canto e i sostenitori di quella francese e del declamato, Fétis si poneva tra i primi. Non stupisce dunque che Moïse non abbia fatto scomparire dalle scene la versione napoletana nemmeno a Parigi. Sette anni dopo la consacrazione all’Opéra, Balzac scriveva a Madame Hanska:

nous avons ici Mosè, La Semiramide, montés et exécutés comme ces opéras ne le seront jamais, et, chaque fois que l’on donne ou l’un ou l’autre, j’y vais. Ce sont mes seuls plaisirs. (6)

Quel Mosè alle cui repliche accorreva il grande Balzac era quello di Napoli rimasto in repertorio al Théâtre Italien. E sarà quello che gli ispirerà le pagine del romanzo Massimilla Doni, (7) vera trasposizione allegorica dell’opera e tentativo, di miracolosa pertinenza, di evidenziare le due componenti del linguaggio rossiniano presenti nel Mosè in Egitto, quella che per comodità possiamo chiamare drammatica e quella belcantistica. Musicalmente le componenti saranno sempre lo stile grave, sublime, patetico da un lato, e il canto fiorito dall’altro. Su questo doppio binario converrà spendere qualche parola. Sulla grandezza dei passi corali, dei concertati e dei declamati (come «Eterno, immenso») del Mosè si sono versati fiumi di inchiostro. La scena delle tenebre, l’invocazione, definita haendeliana, «Celeste man placata!», il Finale Primo, il Quartetto «Mi manca la voce!», la Preghiera, noti ai più per la ripresa in Moïse, hanno trovato concorde la critica. Lo stesso Balzac collocò «Mi manca la voce!» in una serie ideale di capolavori della musica in lotta contro il tempo, comprendente, tra l’altro, il Finale del Don Giovanni e la Quinta di Beethoven. Ancora quarantadue anni dopo la scena delle tenebre veniva citata nel corso della celebre visita di Wagner a Rossini come prototipo della cosiddetta “musica dell’avvenire”. Ormai del vecchio Mosè non si parlava più con cognizione di causa. Ma all’occhio e all’orecchio moderno, dopo i recuperi rossiniani e non solo, ciò che renderà sorprendente e miracoloso Mosè in Egitto, è che in questa versione quelle pagine, poi diluite nella versione francese, stanno in stretta contiguità e raggiungono un’ideale unità ad onta (si dovrà dire?) dei passi belcantistici e dei duetti. Rispetto alla lussuosa e qualche volta lussuriosa sorella parigina, l’edizione napoletana vanta così una castigatezza da «azione tragico-sacra», come suona felicemente il frontespizio di Tottola. Il genere para-oratoriale è trattato non solo con ampiezza di idee e mano ferma, ma soprattutto senza concessioni. Perfino l’intreccio amoroso, tallone a cui si sono volti i nemici dell’opera, è riportato nei rigidi canoni della classicità. Non solo Osiride ed Elcia sono segretamente sposati, ciò che nell’intenzione di Ringhieri e Tottola rende ‘giusto’ il loro amore, ma sono colti nel momento del dissidio tra amore e dovere, nodo sempiterno della tragedia. Non vicenda di singoli dunque, ma di singoli di fronte ad un dramma collettivo per il quale finiranno per soccombere e al quale saranno sacrificati. Se si biasima dal punto di vista drammaturgico questa parte del libretto, come pure è stato fatto, occorrerà far scendere il fuoco non già sull’Egitto, ma su buona parte della storia del teatro.

Varrà a questo punto la pena di esaminare brevemente come è stato risolto musicalmente questo versante. Sarà pur accettabile l’immagine di un Rossini posto come Giano bifronte con un occhio al futuro e l’altro al passato e cioè al Bel Canto (sol che si ricordi che cambiano i venti e le direzioni e che il Giano sta lì immobile e può essere a sua volta guardato a gusto dell’elemento mobile, e cioè dello spettatore) e che non si considerino (come pur si è fatto a lungo) gli stilemi del Bel Canto destinati a mero edonismo. Occorrerà però, a questo punto, fare il conto dei pezzi che nel vecchio Mosè guarderebbero indietro: sono i duetti (Elcia-Osiride nel primo atto, Osiride-Faraone nel secondo), più le tre arie di Faraone, Mosè ed Amaltea. Delle tre arie e della loro singolare vicenda si è detto. Si tratta di numeri chiusi vecchia maniera che nello svolgersi della vicenda esecutiva controllata da Rossini furono considerati, come sono, sopprimibili o eseguibili senza pregiudizio dell’effetto globale, come di fatto avvenne già nelle prime esecuzioni di Napoli. Diverso il caso dei duetti, pagine ambiziose, che ripropongono alcuni di quei moduli che trionfano in un altro Rossini, quello per fare un esempio dei settori belcantistici di una Donna del lago, di un Ricciardo e Zoraide. Può essere difficile accettarli in un’opera che sembra tutta di segno opposto. Sembra, ma non è, dato che appunto in quei casi Rossini fa i conti con il privato posto di fronte al collettivo. E risolve il problema a modo proprio, ma comunque drammaturgicamente pertinente (sol che non si voglia a tutti i costi il dramma romantico). Il Duetto «Ah, se puoi così lasciarmi» che Rossini conservò anche a Parigi, è il momento in cui i due innamorati si trovano di fronte ad una situazione senza uscita. Il loro Bel Canto si estrania dal sentimento ed avviene a questi personaggi quello che capita a quelli delle opere comiche rossiniane: l’individuo cede alla legge meccanica, così come nelle arie solistiche si adagia nella forma precostituita dell’affetto. Dunque qui il canto invoca una superiore bellezza che travalica il dramma. D’altra parte, nel già citato momento supremo del Finale Secondo, l’Aria di Elcia congiunge belcanto e dramma in felicissima e audace sintesi. Questa dicotomia di accenti, modernissima (senza voler per questo – ma perché no poi? – invocare il distacco di brechtiana memoria) era ben chiara allo stesso Balzac. In Massimilla Doni il marchese Capraia, nobile, ricco e sordido, che viveva come Diogene e faceva segretamente la beneficenza, rappresenta l’amante del bello ideale e, in musica, del Bel Canto. Al suo avversario, il Duca Cataneo, dirà:

Il est déplorable que le vulgaire ait forcé les musiciens à plaquer leurs expressions sur des paroles, sur des interêts factices… La roulade est l’unique point laissé aux amis de la musique pure, aux amoureux de l’art tout nu.

Il senso è spiegato da Massimilla ad uno sprovveduto francese: cosa resta all’individuo, membro di un popolo oppresso (sia esso quello ebreo o quello italiano o quello, aggiungiamo noi, che va a teatro) se gli si toglie quest’ultima possibilità? Il Giano bifronte guardava sì al dramma biblico e corale, ma guardava anche altrove, al vecchio sogno del riscatto attraverso la bellezza assoluta: riconquistare quello sguardo e quella bellezza, sempreché si abbiano gli interpreti adatti ed avvertiti, è anche il compito di chi vuol giudicare nella sua integrità il Mosè in Egitto e, in generale, il cosiddetto Rossini serio e, di questo, i capolavori napoletani. Che anche altrove, proprio nel successivo Maometto II, tornano a mettere in conflitto il versante musicale ‘puro’ e quello drammaturgico, privato e pubblico, sentimento del singolo e obblighi della collettività. Non sarà un caso che saranno queste due le opere scelte da Rossini per le versioni francesi. Che sono appunto non rifacimenti, ma altre e magari ‘alterne’ versioni.

Bruno Cagli

1 In Lettere e Documenti, a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, vol. IIIa, Lettere ai genitori, Pesaro, Fondazione Rossini, 2004,  p. 197.

Ivi, p. 198.

Ivi, p. 199.

Ivi, p. 200.

5 Analogo procedimento in La Cenerentola. Qui nella prima versione Rossini affidò ad Agolini l’Aria di Alidoro che, di fatto, era deputata a chiarire la morale della vicenda. Questo nel 1817. Quattro anni dopo tuttavia ne scrisse, sempre a Roma, una propria, la monumentale «Là del ciel nell’arcano profondo» destinata al basso Moncada.

6 Lettera del 15 dicembre 1834 in Honoré de Balzac, Lettres à Madame Hanska, tome I, Paris, Editions du Delta,1967, p. 282.

7 Su questo romanzo – a lungo mal compreso dalla stessa critica francese (i commentatori spesso seguivano l’analisi dell’opera fatta da Balzac sugli spartiti della versione francese e non su quella napoletana della quale non avevano alcuna contezza. Ciò con tutti i fraintendimenti che è facile immaginare) – si veda Bruno Cagli, Da Carpani a Balzac: un itinerario estetico rossiniano, in Rossini, Raffaello e il bello stile, catalogo della mostra ospitata ad Urbino nel 1993 a cura dell’Accademia Raffaello di Urbino e della Fondazione Rossini di Pesaro, Urbino, Quattroventi, 1993, pp. 15-33.


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