L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fascino e armonia degli estremi

 di Alberto Ponti

Una sala gremita tributa un entusiastico successo alla coppia di interpreti, in un percorso a ritroso dalle atmosfere rarefatte dell’ultimo Šostakovič al Wagner più fiammeggiante

TORINO, 4 maggio 2018 - Iniziamo con la più positiva delle considerazioni: un auditorium Rai riempito quasi per intero ha accolto, giovedì 3 e venerdì 4 maggio, Enrico Dindo, tra i maggiori violoncellisti non solo italiani in attività e beniamino del pubblico della sua città natale. Il fatto poi che una buona parte dei presenti fossero ragazzi e studenti è un altro segnale di buon auspicio per il futuro, nella speranza tuttavia che una frangia della stessa platea giovanile possa imparare a tenere un comportamento più adeguato alle regole di un concerto. Può capitare a chiunque di avere un contrattempo, ma assistere ad un continuo ingresso di spettatori in sala, con gran lavorio delle sempre impeccabili e volenterose maschere di via Rossini, fino a quasi mezz’ora dall’inizio della serata, perdendo di conseguenza quasi tutta la prima parte, oltrepassa la statistica degli accidenti per entrare in quella delle cattive abitudini.

Piatto forte del programma era il Concerto n.2 per violoncello e orchestra in sol maggiore op. 126 di Dmitrij Šostakovič (1906-1975). Nata nella prima metà del 1967, l’opera rimane tra i traguardi più enigmatici dell’ultimo periodo creativo del compositore russo: il sarcasmo feroce, sovente venato di disperazione, tipico di tante pagine precedenti qui si stempera in una calma bizzarria, cui fa eco una profonda originalità nella scrittura della parte solistica e nell’orchestrazione (una ridotta sezione di fiati, percussioni, due arpe e archi). Nonostante sia stato concepito per un fuoriclasse del calibro di Rostropovič, il concerto non presenta un virtuosismo accentuato privilegiando una somma limpidezza costruttiva e il lavorio sui minimi incisi tematici generatori del discorso. L’interpretazione di Dindo è esemplare per malleabilità timbrica e qualità del suono, accoppiata ad un’eccellente capacità di calarsi nei meandri più nascosti nella partitura uscendone sempre con scelte indovinate e originali. La prima idea del Largo iniziale è staccata con piglio bonario ma nel secondo tema il canto del solista sa levarsi all’improvviso graffiante e ruvido su un accompagnamento calibratissimo da stralunata berceuse. Allo stesso modo, nei due Allegretti successivi, collegati da un assolo di due corni, il ricordo di un violoncello nostalgico e tagliente ad un tempo è quanto rimane nella nostra memoria, grazie anche al gesto preciso e mai invadente di Marc Albrecht, in grado di dispensare dal podio la giusta dose di dolcezza (la melodia del secondo movimento tratta da una canzonetta popolare) e di stupore metafisico (lo sfarfallio metallico dell’epilogo, sorta di cartone preparatorio dello straordinario finale della quindicesima sinfonia). Applausi scroscianti e meritatissimi, culminati nel Bach senza tempo (Preludio dalla prima suite in sol maggiore), cavalcata di semicrome dispiegata con l’allegra introspezione di una poesia ermetica.

Tre celebri pagine di Richard Wagner (1813-1883) consacrano, dopo l’intervallo, la bacchetta del direttore tedesco, ospite consueto delle stagioni dell’Orchestra Sinfonica Nazionale. Nel Preludio e Morte di Isotta (1859) l’accumularsi di passione e desiderio fino al punto culminante è resa con ondate progressive di suono di edonistico spessore, che non escludono tuttavia il senso del dramma, annidato tra i cromatismi estremi proiettati verso l’estasi finale, in una lettura in grado di evitare l’effetto di facile presa, mantenendo sempre il senso della misura e il pieno controllo della raffinata timbrica wagneriana. Nella Ouverture da Tannhäuser (1845), seguita dal Baccanale composto per la tumultuosa ripresa parigina del 1861, Albrecht dimostra di conoscere a fondo questo repertorio: gli attacchi sicuri, quasi folgoranti nella parte evocativa del Venusberg, e l’estremo movimento dinamico, rispettoso del dettato compositivo ma mai banale, non sono che esempi dell’arte di un maestro che, dopo il recente Hänsel e Gretel alla Scala, in Italia meriteremmo di conoscere più a fondo anche sul versante operistico.

Chiusura tra le ovazioni con il preludio da Die Meistersinger von Nürnberg (1867), concertato con monumentale compattezza da un’orchestra che sarà attesa a fine mese da un banco di prova quale l’esecuzione in forma di concerto di Der Fliegende Holländer.


 

 

 
 
 

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