L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Madamigella Valery, il catalogo è questo

 di Roberta Pedrotti

Mostra il fianco l'ambizioso disegno registico di Andrea Bernard per La traviata: l'intuizione iniziale giunge faticosamente in porto fra qualche ingenuità e goffaggine di troppo. Si apprezza, comunque, la prova d'interprete di Mariangela Sicilia, capace di emozionare con un terzo atto particolarmente riuscito, mentre si alternano luci e ombre fra le due compagnie, concertate con mano sicura dall'esperto Renato Palumbo.

BOLOGNA, 3 e 4 maggio 2019 - La traviata è una di quelle opere, come La bohème, che potrebbero veramente essere ambientate ovunque, tanto forte e precisa è la loro drammaturgia, ma che proprio questa forza e precisione musicale anche nel minimo gesto scenico rende delicatissime, tanto è difficile realizzare tutto quel che è scritto, tanto è difficile farlo mostrando anche un'originalità nella chiave di lettura. È quasi impossibile affondare La traviata o La bohème, ma è prerogativa solo dei più grandi riuscire a farne spettacoli memorabili.

Il trentaduenne bolzanino Andrea Bernard, con il suo progetto vincitore due anni fa del concorso Opera Europa per l'allestimento con un cast giovane a Busseto nell'ambito del Festival Verdi, ha provato a dire la sua in maniera originale, ma ha dimostrato anche di non avere, almeno per ora, le spalle abbastanza larghe per sostenere fino in fondo la sua idea. Che abbia tecnicamente una buona mano non lo si può negare, peraltro: ha visione complessiva del palcoscenico, presta attenzione alle luci e a tutti gli elementi, si preoccupa di gestire a dovere ogni figura sulla scena, coro e comparse compresi. Il primo problema è, però, che la diligente preparazione tecnica viene esibita come un catalogo campionario: non manca nulla, fra controscene oniriche, doppi infantili, sottotrame alluse. Anzi, il guaio è semmai la ridondanza che rischia di sembrare citazionista (un pizzico di Decker, un'eco di Michieletto...), oppure di stuccare, come nella definizione di Alfredo: lo vediamo appassionato all'anime dell'Uomo Tigre, di cui colleziona anche le action figure e a cui fa riferimento la coreografia dei Mattadori nella quale si intrufola, lo vediamo come doppio-bambino apostrofato da Germont (“Ah, se alfin ti trovo ancor”), lo vediamo accovacciarsi in posizione fetale nel finale secondo. Ed è troppo. Bastava molto meno per dirci che è un bambinone immaturo, diversissimo alla sofisticata artista Violetta, bastava decisamente meno. 

Se il bagaglio tecnico c'è, ma ancora gestito con una certa ingenuità, viene dunque a indebolirsi anche l'ambiziosa visione drammaturgica, che pure presenterebbe numerosi spunti intriganti e degni di sviluppo, ma rischia di perdersi in mille rivoli senza giungere al punto con chiarezza, senza colpire nel segno. Violetta potrebbe essere una gallerista proprietaria di una casa d'aste, come dedurremmo dall'insegna “Valery's”, ma forse anche lei stessa un'artista, accompagnata dall'agente con cui vive una relazione – Douphol – e autrice di un autoritratto a sfondo blandamente erotico che Alfredo si aggiudica all'asta. Arte e mercato, sincerità e apparenza, sentimento e mercificazione: il punto di partenza non fa una piega, può essere interessante, come anche la contesa per la Violetta-oggetto nel dipinto, che tra l'altro, dopo la morte prematura della stessa chiacchierata artista potrebbe accrescere di molto la sua valutazione. Il guaio è che questa Violetta è troppo per bene, troppo elegante donna in carriera per giustificare l'intervento di Germont, lo scandalo, i riferimenti al “pentimento” e alla “misera ch'è un dì caduta”; la stessa visione che propone il regista, del padre di Alfredo che semplicemente apre gli occhi ai due giovani sulla loro reale incompatibilità, risulta davvero troppo fragile per sostenere il grande duetto del secondo atto. Si arriva a sorridere quando l'oltraggio della borsa si trasforma nello sfregio al dipinto su cui vengono spalmati profiteroles alla crema (se l'avesse saputo Banksy, invece dell'espediente della distruggi-documenti!), quando la scena dovrebbe essere il cuore drammatico della visione di Bernard: l'immaturo Alfredo reagisce rivalendosi sull'oggetto-Violetta e si lascia già sedurre da un'assistente gallerista, mentre il cinico Germont, informato in quel momento del valore dell'opera, capisce che sarà il caso di far visita di cortesia all'artista in fin di vita per riaccaparrarsi la preziosa tela. La trama, però, blandisce nell'indifferenza più che raggelare, e del terzo atto resta soprattutto l'ottima prova di attrice di Mariangela Sicilia nel definire lo stato catatonico e il precipitare nervoso di chi muore per un perduto amore. Di psicofarmaci, d'altra parte, Violetta ne assumeva fin dall'inizio per reggere un'esistenza vuota e frenetica; ora contravviene alle indicazioni mediche, getta le pastiglie prescritte, si rifugia in gesti ossessivi e incoerenti, aspetta, aspetta chi non giunge mai. L'ultimo sorso con l'ultima pillola serve a placare “gli spasimi del dolore”, non a salvarla. Potrebbe essere una lettura molto vera, molto bella anche, ma non si regge sulle proprie gambe, non si sviluppa come sarebbe stato auspicabile dalla definizione dei rapporti negli atti precedenti, non si sposa adeguatamente alla caccia al dipinto, sicché quel che nelle intenzioni poteva essere un contrasto esplosivo fra una dinamica commerciale spietata e il collasso emotivo di Violetta resta un abbozzo non ben definito. Prova ne è l'afflosciarsi della tensione quando, nella compagnia alternativa, subentra Luisa Tambaro, attrice meno esperta e meno incisiva.

Così, la meta ambiziosa si ravvisa in un sentiero tortuoso e ramificato fra qualche goffaggine e ingenuità di troppo nel lavoro del pur preparato Bernard, autore anche di scene (con Alberto Beltrame) e luci (con Daniele Naldi, mentre i costumi sono di Elena Beccaro, i movimenti coreografici e l'aiuto regia di Marta Negrini. Peccato, anche perché non sarebbero mancate nemmeno allusioni al romanzo (l'asta dei beni della defunta Marguerite da cui ha inizio la narrazione, la relazione mondana di Armand con Olympie).

Sul piano musicale, il passo decisamente denso e drammatico scelto da Renato Palumbo sostiene con discrezione la scena suggerendo già nel primo atto – un'asta con party – un'atmosfera nervosa, cupa, per nulla effervescente. È davvero una situazione senza speranza fin dall'inizio, inesorabile, tanto che gli indugi sono pochi e quando si concedono appaiono come sospensioni ancor più dolorose. È il caso di “Dite alla giovine”, così drammaturgicamente assurdo con una Violetta stimata e per bene, ma pure straniante e toccante nella quiete irreale resa da Palumbo con Sicilia e il Germont di Simone Del Savio. D'altro canto non si può negare che spiacciano i tagli, tanto più che se qualche sforbiciata qua e là, soprattutto ai danni delle riprese delle cabalette, può anche essere dettata da esigenze pratiche dei cantanti, nel finale lasciar sola Violetta con l'orchestra impoverisce davvero il respiro musicale dell'epilogo.

Come già accennato, s'impone la Violetta di Mariangela Sicilia, che di fatto, costretta a rinunciare alla prima del 28 aprile per un'indisposizione, fa il suo debutto bolognese nella parte la sera del 3 maggio. Non diremo che sia questo il personaggio in cui il soprano calabrese abbia maggiormente colpito, tanto più che in questa stessa sala vibra ancora il ricordo della sua Mimì, ma diremo che canta bene, sempre bene, con un'emissione ben controllata, sicura, giusta proiezione, bello spessore lirico e timbro ombreggiato. Diremo che recita sempre con verità, esattezza, disinvoltura e regala nel terzo atto una splendida incarnazione del morir d'amore abbandonandosi al tic rassicurante, all'astrazione dalla realtà, al dolce abbraccio del nulla. Il suo "Addio del passato" è davvero personale e toccante. Luisa Tambaro, il 4 maggio, come attrice soccombe decisamente nel confronto e, purtroppo, una certa opacità del timbro si enfatizza nel pianissimo e nella mezzavoce, che appare poco sostenuta e timbrata, penalizzando una prova comunque corretta.

Francesco Castoro, Alfredo il 3 maggio, ha la presenza perfetta del bambinone dal fisico forgiato da tv e divano, la voce è fresca, naturalmente facile, anche se dovrebbe maturare ancora quanto a musicalità e fraseggio. Viepiù penalizzato su questo versante dal suo non essere madrelingua è l'altro tenore, Wang Chanyue, assai corretto, ancorché nasale, ma in lotta continua con consonanti doppie o semplici, con le S e le Z sorde o sonore: un problema da risolvere, perché un buon canto è un canto nella parola. 

Ascoltato di recente come buffo rossiniano [leggi la recensione], Simone Del Savio se la cava egregiamente anche come padre verdiano, di cui rende il ruvido cinismo con canto saldo e sicuro. Più frastagliata la linea vocale di Angelo Veccia, che il 4 maggio ricerca una varietà di colori e dinamiche che non sempre l'emissione sostiene a dovere. 

Non variano nelle due serate la Flora di Aloisa Aisemberg e l'Annina di Maria Caballero, il Gastone di Rosolino Claudio Cardile e il Barone di Paolo Marchini, il Dottor Grenvil di Francesco Leone, nonché le collaudatissime prime parti del coro, in buona forma sotto la guida di Alberto Malazzi, Enrico Picinni Leopardi (Giuseppe), Sandro Pucci (Commissionario) e Raffaele Costantini (Domestico di Flora).

Varia, invece, la reazione del pubblico. Venerdì sera, gli abbonati del turno A gradiscono, salutano con calore soprattutto Sicilia e Del Savio, ma per il resto non sembrano troppo coinvolti e non si entusiasmano particolarmente; viceversa, sabato alle 18, gli spettatori del turno FA, cui si uniscono volti e idiomi che fanno immaginare una presenza di turisti internazionali, si mostrano decisamente più generosi, festeggiando tutti gli interpreti.

Il cast del 3 maggio

Il cast del 4 maggio


 

 

 
 
 

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