L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sant'Ambrogio e l'assenza

di Roberta Pedrotti

Il Teatro alla Scala reinventa il rito di Sant'Ambrogio ai tempi della pandemia. Lo fa con uno spettacolo ricchissimo, sfolgorante di divi del canto e della danza, attori di prosa, effetti visivi, abiti d'alta moda e che, tuttavia, fa percepire ancor più il dramma dell'assenza del teatro fisico e condiviso, a partire dalla voce di Mirella Freni che, sulle note di "Io son l'umile ancella", apre e chiude la serata.

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Approfondimento: A riveder le stelle - la danza, 07/12/2020

MILANO, 7 dicembre 2020 - Sant'Ambrogio. Non è una prima come tutte le altre, lo sappiamo. Se non ci si fa troppo abbagliare dalle passerelle di vip, dalle ciance televisive, dalle superfici patinate, si vedrà che c'è molto di più a rendere unica questa data. E, sì, c'è anche tutto quell'apparato antropologico mondano e folcloristico, che va dalla signora con la crinolina che non passa dalla porta del palco all'ultimo rimasuglio di contestazione che diffonde gli Inti Illimani a tutto volume in un angolo di Piazza della Scala. C'è l'albero di Natale Swarowsky in galleria con accanto lo schermo che diffonde di continuo note e immagini dell'opera in cartellone, c'è la città illuminata a festa, gli Obej Obej, c'è tutta quell'ebrezza di festa che orbita verso un unico centro: la Scala, il suo palco, l'opera. Anche chi non sa chi ha scritto La traviata o pensa che Figaro canti “La donna è mobile” per un giorno sente parlare ed entra in familiarità con cantanti, direttori d'orchestra, compositori, intercetta i dibattiti sulla scelta del titolo e l'esito dello spettacolo, chiede un parere o una consulenza all'amico “che sa”.

Sant'Ambrogio è un po' il Natale del melomane, è un rito, può esser questione di fede profonda o di pura abitudine, di spensierato divertimento o di riflessione e ricerca, di affetti e (o) diletti, ma anche di rifiuto e critica aspra. Sant'Ambrogio, semplicemente, è.

Nell'anno della pandemia, in cui è tutto è sospeso, il ciclo della vita attende di ripartire e perfino a Siena non si è corso il Palio, anche Sant'Ambrogio non può essere il solito Sant'Ambrogio, deve essere diverso perché non è una prima come le altre, è un rito.

Abbiamo visto tanti teatri proseguire la propria attività reinventandosi con recite e concerti a porte chiuse in streaming o tv, con creazioni originali come Il barbiere di Siviglia firmato e filmato da Martone e Gatti a Roma. Ciascuno ha risposto all'emergenza con le sue risorse e personalità.

La Scala, dunque? Con il sovrintendente Dominique Meyer, il direttore musicale Riccardo Chailly e il regista Davide Livermore ha fatto La Scala, ha fatto le cose in grande, ha puntato sul simbolo, sul rito, sulla grandezza di un nome che è un punto di riferimento. Ha deciso di dire, con il suo stile, che questo è l'anno sospeso, senza opera il 7 dicembre, ma senza che il teatro il 7 dicembre taccia. Dunque, solo in tv (e streaming correlati) con uno spettacolo composito e molteplice pensato – in tempi evidentemente brevissimi – per l'occasione.

Rai1 e il Foyer. La Rai sembra aver fatto il suo dovere di servizio pubblico: trasmissione su Rai1 come ogni anno più o meno alla solita ora – le 17 invece delle 18, anche per ragioni di palinsesto – video subito disponibile su Raiplay, accordi internazionali con Arte. Come ogni anno presenta Milly Carlucci. Come ogni anno. C'è chi si lamenta, e soprattutto si può ragionevolmente sbuffare per la non freschissima new entry Bruno Vespa, ma si tratta solo dei soliti pochi minuti per aprire e chiudere il collegamento, ci sono risparmiate anche le chiacchiere nel foyer, bandite come ogni mondanità. Dell'intervallo ci mancano semmai i simpatici camerieri che attraversano infaticabili il ridotto Toscanini con panettoni e bollicine: anche loro lavoratori del teatro, un po' di 7 dicembre che speriamo di ritrovare operoso.

Purtroppo, però, la Rai un guaio l'ha fatto tagliando il duetto wagneriano con Camilla Nylund e Andreas Schager, disponibile invece subito per il pubblico estero. Il brano verrà recuperato su Raiplay e Rai 5. [leggi->Rai, gli ascolti della Prima della Scala e il mistero del Wagner scomparso]

A riveder le stelle.

La prima cosa che ci lascerà questa serata è il senso di assenza. Assenza del pubblico, del contatto, dei suoni, dei profumi, delle sensazioni tattili; assenza della diretta. Di primo acchito il montaggio lascia quasi disorientati, lo scarto palese rispetto ai reali tempi teatrali suscita quasi disagio quando ci si vorrebbe commuovere. Poi ci si rende conto che è meglio quasi così, anche questa è una strada possibile e ci ripete insistentemente che se l'arte vive in mille modi, il teatro è un'altra cosa e non lo stiamo sostituendo, né vogliamo, né possiamo, né dobbiamo.

A dire il vero, però, un brivido della diretta c'è: il teatro annuncia in programma un estratto da Die Walküre con Camilla Nylund e Andreas Schager, si sa che la registrazione avviene lo stesso 7 dicembre, ci sono perfino le fotografie nelle cartelle per la stampa, ma alla fine Wagner non c'è. Anche in registrazione, in teatro l'imprevisto dell'ultimo momento non manca mai. Meno male: dispiace moltissimo di non aver avuto l'inno primaverile di Siegmund, ma un'altra assenza imprevista è lo stimolo per colmarla quanto prima, è un altro monito dell'unicità bizzosa e meravigliosa dello spettacolo dal vivo. Così, almeno, pensiamo in diretta per consolarci. Poi scopriamo che al di là delle Alpi il duetto è stato trasmesso e allora veramente ci si indigna e ci si sente anche un po' presi in giro. Ma andiamo avanti, in attesa che il brano, come promesso, sia reso disponibile [Rai, gli ascolti della Prima della Scala e il mistero del Wagner scomparso]

Dall'assenza, con la voce di una grandissima che ci ha lasciati nel 2020, Mirella Freni, con la scena vuota e una donna delle pulizia che, sola, intona il Canto degli italiani per un Presidente che non arriverà, per un pubblico che non affollerà la sala, ecco la presenza: il coro, l'orchestra, Riccardo Chailly. Ecco l'inno, apertura canonica di (quasi) ogni 7 dicembre, eseguito in grande stile. Ecco, poi attori di prosa di diverse generazioni con testi i più diversi, altissimi o retorici (ma, sì, anche la retorica fa parte del rito), finalmente accostando a Montale anche Striggio e Badoaro, i librettisti dell'Orfeo e del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi. Fra tutti, attribuiamo la palma a Sax Nicosia e Giancarlo Judica Cordiglia. Ecco non un'attrice, ma una scrittrice, Michela Murgia, a raccontarci perché ama il modo con cui l'arte rappresenta e critica la società. Ecco, naturalmente, una serie di brani d'opera. Una serie non enciclopedica, non programmatica, per espressa dichiarazione di Riccardo Chailly modellata sulle caratteristiche di una rosa di artisti d'altissimo profilo, tutti legati, in un modo o nell'altro alla storia recente della Scala.

Si tratta, poi, di inanellare questi frammenti preziosi, di dargli corpo, farne spettacolo, e qui Livermore sfoga la sua fantasia, quella sorta di personale “grande stile” scaligero con cui il regista ama raccontare fra effetti speciali, proiezioni, animazioni. Alcune associazioni sono palesi ed essenzialmente estetiche, come le piume svolazzanti in realtà aumentata intorno a Vittorio Grigolo per “La donna è mobile” o le immagini siderali per Piotr Beczala che intona “Nessun dorma”, talora si tratta di scenografie più o meno letterali, come le vedute romane per “E lucevan le stelle” con Roberto Alagna” o gli acquerelli orientali per “Un bel dì vedremo” con Marina Rebeka, accorata quanto sottile nel fraseggio e nel legato. Ci sono però anche voli più ampi, come il monologo della Fedra di Racine che descrive l'innamoramento accostato al “Signore ascolta” di Liù/Aleksandra Kurzak con sullo sfondo una rivisitazione dell'Ofelia di Millais. Ovviamente c'è l'amore per il cinema felliniano, accostato a Donizetti (Rosa Feola, brillante nella sua bella pasta lirica, per “So anch'io la virtù magica” e Juan Diego Florez per “Una furtiva lagrima”), ma anche Hitchcock per uno dei quadri più riusciti ed emozionanti dell'intera serata, quello tratto da Un ballo in maschera. “Morrò ma prima in grazia” ed “Eri tu” sono interpretati da Eleonora Buratto e George Petean con un'intensità, una verità, un senso della parola cantata che fanno dimenticare ogni limitazione, mentre sullo sfondo li osservano uccelli minacciosi o scorrono corridoi vertiginosi; i volatili ricompariranno poi anche nello studio di Riccardo, dove Francesco Meli canta, ispiratissimo, “Ma se m'è forza perderti”. Un altro blocco tematico particolarmente avvincente è quello dedicato a Don Carlo con quelli che sono forse (o senz'altro) i migliori interpreti attuali dei rispettivi ruoli: su un treno in corsa Ildar Abdrazakov medita in solitudine disperata “Ella giammai m'amò”, Ludovic Tézier consuma gli ultimi momenti di vita del marchese di Posa con “O Carlo, ascolta” e “Io morrò”, Elina Garanca soffre e medita riscatto in “O don fatale”. Nell'accostamente audace con Lucia di Lammermoor che difende il suo amore fra oscuri presagi (davvero vibrante e magnetica l'incarnazione di Lisette Oropesa) sui flutti di un mare impressionista, la morte di Madama Butterfly (Kristine Opolais) in abito da sera ma doppiata dall'ombra proiettata in abiti nipponici sembra rappresentare i continui rispecchiamenti fra realtà e finzione di cui il teatro, come ogni arte, si alimenta. D'altra parte, molti di questi brani, trovandosi forzosamente estrapolati dal naturale contesto dell'opera da vivo, non diventano semplicemente arie da concerto, ma catalizzatori di affetti e suggestioni i più diversi.

Quel che più conta, forse l'elemento scenico più importante, nascosto benché sotto gli occhi di tutti, qui sembra essere proprio il palco. Il palco che recupera l'impianto geniale di Robert Carsen per Kat'a Kabanova e diventa superficie liquida, precaria, mobile, che offre agli artisti lo spazio sottile di una passerella di legno, una zattera per resistere al naufragio.

Alla fine, tutto si può discutere, e guai se non fosse così, ma tutto ha un senso. Anche Placido Domingo, che canta “Nemico della patria” (sullo sfondo scorrono idealisti da Gandhi a Falcone e Borsellino a Greta Thunberg) con tempra senz'altro invidiabile per la sua età, nulla del baritono che la parte vorrebbe ma carisma indubbio e, soprattutto, portando con sé decenni di storia del teatro, lui che è forse il cantante vivente e attivo con più inaugurazioni scaligere al suo attivo.

E nei tre momenti dedicati alla danza abbiamo visto la storia con il più classico dei classici (Lo schiaccianoci nella coreografia di Nureyev), una coreografia contemporanea nella musica e nell'allestimento ma di rigorosa formazione accademica nella tecnica (Waves con Roberto Bolle), una creazione del nuovo direttore del corpo di ballo scaligero (Verdi Suite di Langris). La presenza sul podio di Michele Gamba è un valore aggiunto, giovane bacchetta in alternanza con quella del direttore musicale.

Se Abdrazakov affascina come Filippo II, non dimentichiamo l'intervento di Mirco Palazzi come Walter nel Finale da Guillaume Tell. Se abbiamo lodato il magnifico Marchese di Posa di Tézier e il non meno entusiasmante Renato di Petean, nondimeno il parterre baritonale poteva vantare anche il Rigoletto energico e incisivo di Luca Salsi, il multiforme e irresistibile Jago di Carlos Alvarez, entrambi poi chiamati a condividere anche l'epilogo rossiniano. Fra i tenori, la defezione di Jonas Kaufmann è stata ben compensata dall'eccellente doppia prova di Piotr Beczala come Don José e Calaf saldo in acuto e abile nelle sfumature. Abbiamo, poi, già nominato Grigolo, Florez, Meli e Alagna, cui si aggiunge anche l'ottimo Benjamin Berhneim, Werther poetico e appassionato. Elina Garanca ha il suo trono sull'Olimpo, ma, complici Chailly e uno splendido abito rosso di Armani, Marianne Crebassa ha saputo ammaliare con una raffinata Habanera. Una solidissima Sonya Yoncheva, come Maddalena di Coigny sullo sfondo di una Libertà che guida il popolo vivente, completa il panorama sopranile con Opolais, Kurzak, Feola, Rebeka Oropesa e Buratto. E se gli uomini partano per lo più frac impeccabili, le signore sfoggiano creazioni sartoriali che le valorizzano a meraviglia e si sposano benissimo sia con il contesto delle varie scene sia con costumi provenienti, come tutta l'attrezzeria, dai magazzini scaligeri. A partire proprio dai laboratori scaligeri, sarebbero molti, moltissimi i nomi da elencare per uno spettacolo

Alla fine tornano alla ribalta Buratto, Feola, Crebassa, Florez, Salsi, Alvarez e Palazzi con il coro e l'orchestra della Scala, con Chailly sempre guida presente, affettuosa ed esatta nella varietà di affetti e repertori. Sullo sfondo, un volo notturno su Milano illuminata ma deserta. Nell'aria le note del finale di Guillaume Tell, in italiano perché così fu quando Toscanini riaprì il teatro dopo la seconda guerra mondiale. E così ci lasciano le note rossiniane, a intrecciarsi infine con quelle di Cilea, con Mirella Freni, ancora, a ricordare “un soffio è la mia voce...”

Una serata perfetta? No, certo, ma non sentiamo il bisogno di perfezione: la perfezione è compiuta, intoccabile, mentre noi vogliamo continuare a vivere, a fare, rifare, reinventare, interpretare, pensare e creare.

Avrà accontentato l'amico "che non sa" e che il 7 dicembre di ogni anno si incuriosisce per qualche ora? Non lo sappiamo, ma crediamo che non sia necessario far piacere l'opera a tutti. È importante che possa raggiungere tutti e che tutti abbiano la possibilità di accedere all'arte e alla cultura, come può ben avvenire con uno spettacolo di questo tipo in tv e online, ma che ciò non vuol dire che poi tutti debbano amarle e coltivarle. L'accessibilità non significa mancanza di impegno e riflessione.

C'era molto, moltissimo, questa sera. Troppo forse? Forse, ma anche questo è Sant'Ambrogio, è esagerato, è un insieme di estremi, di contrasti, di discussioni che partono almeno dal primo annuncio e possono protrarsi oltre il dicembre successivo. Tutto e il contrario di tutto, come questo 7 dicembre 2020, che non ha potuto avere Sant'Ambrogio, e alla fine ha avuto lo stesso Sant'Ambrogio.

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala Direttore Riccardo Chailly; Direttore per il Balletto Michele Gamba; Maestro del Coro Bruno Casoni

Ildar Abdrazakov, Roberto Alagna, Carlos Álvarez, Piotr Beczala, Benjamin Bernheim, Eleonora Buratto, Marianne Crebassa, Plácido Domingo, Rosa Feola, Juan Diego Flórez, Elīna Garanča, Vittorio Grigolo, Aleksandra Kurzak, Francesco Meli, Camilla Nylund, Kristine Opolais, Lisette Oropesa, Mirco Palazzi, George Petean, Marina Rebeka, Luca Salsi, Andreas Schager, Ludovic Tézier, Sonya Yoncheva

Roberto Bolle, Nicoletta Manni, Martina Arduino, Virna Toppi, Timofej Andrijashenko, Claudio Coviello, Marco Agostino, Nicola Del Freo

Musiche di Georges Bizet, Pëtr Il’ič Čajkovskij, Davide Boosta Dileo, Gaetano Donizetti, Jules Massenet, Giacomo Puccini, Gioachino Rossini, Erik Satie, Giuseppe Verdi

Coreografie di Manuel Legris, Rudolf Nureyev, Massimiliano Volpini

Regia Davide Livermore

Scene a cura di Davide Livermore, Giò Forma

Costumi a cura di Gianluca Falaschi

Scenografie digitali D-Wok

Luci di Marco Filibeck

Collaboratori per la drammaturgia Davide Livermore, Paolo Gep Cucco, Andrea Porcheddu, Alfonso Antoniozzi, Gianluca Falaschi, Chiara Osella

 

 


 

 

 
 
 

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