L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Una farfalla su uno spillo

 di Stefano Ceccarelli

Nella suggestiva cornice del Circo Massimo torna in scena Madama Butterfly di Giacomo Puccini; l’allestimento è quello, già ammirato nel 2015/16, di Àlex Ollé (La Fura dels Baus), mentre la direzione è affidata a Donato Renzetti. Fra i cantanti, Corinne Winters (Butterfly) ottiene un notevole successo personale; la affiancano Saimir Pirgu (Pinkerton), Andrzej Filończyk e Adriana di Paola (Suzuki).

ROMA, 16 luglio 2021 – Seconda opera nel cartellone estivo dell’Opera di Roma, Madama Butterfly di Giacomo Puccini torna dopo un quinquennio ad allietare (meglio dire commuovere) il pubblico romano. Il Costanzi ripropone il titolo, intelligentemente, nell’allestimento curato da Àlex Ollé, membro del gruppo de La Fura dels Baus. Avevo già avuto modo di esprimermi riguardo a questa regia: ripropongo, dunque, le mie considerazioni del 2015 (Leggi la recensione).

Il reale pregio di questa edizione romana di Madama Butterfly è la geniale regia di Àlex Ollé: intelligentemente anticonformista, dal forte impatto visivo, la regia di Ollé ha tutte le caratteristiche di un direttore artistico de La Fura dels Baus (1979). Dopo le prime sperimentazioni personali (negli anni ’80) e l’inizio della collaborazione con La Fura, Ollé esordisce come regista nel 2013. E la sua firma è chiaramente intrisa dei colori della Fura. Si sa: la Fura dels Baus è un perfetto esempio di un tipo di approccio al teatro che può fermamente sconvolgere. In sintesi, può accadere che o si amino, o si odino le loro regie (loro, giacché la Fura è un’associazione di sette direttori artistici). Ma chi le odi, non dovrebbe mai farlo di stomaco: del resto, «penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista» (P. P. Pasolini). La “furana” regia di Ollé, anzi, abbandona taluni eccessi “scandalosi” e si adatta alle peculiarità drammaturgiche della Butterfly. È soprattutto questo che ammiro nella Fura: tutte le loro regia hanno sempre un’idea intelligente che le impernia e le struttura, non mostrando mai grossolane illogicità e stimolando sempre l’attenzione e la curiosità del pubblico – o, perlomeno, di quel pubblico che sappia, o voglia, coglierne le continue allusioni, in un gioco perenne di raffinato alessandrinismo. Ollé immagina che B. F. Pinkerton divenga, una volta stabilitosi a Nagasaki, un imprenditore-squalo nel campo dell’edilizia. Sulle celeri, energiche (e pur “nipponicamente” aggraziate) note del brevissimo Allegro in preludio, un operaio sta tracciando le strisce per una nuova abitazione su un campo vedere, curato, dove frattanto eleganti camerieri apprestano il ricevimento nuziale che F. B. Pinkerton ha preparato per celebrare il matrimonio con il suo nuovo acquisto: la bella e giovanissima Madama Butterfly. Il sensale Goro fa anche il geometra, discutendo dei piani di costruzione con Pinkerton. Un Giappone in cui si intravedono ancora talune «figure da paravento», come un grazioso ed esile boschetto di bambù, ma che sta per essere brutalmente violentato dallo sciacallaggio imprenditoriale occidentale. Butterfly, ultima, estrema epicorica effigie, fa la sua entrata imbozzolata in un abito candidamente bianco, con le compagne, fra il canneto di bambù, esaltata da una tenue luce alle spalle. Il momento è assai poetico: un vero coup de théâtre. È Pinkerton che la svelerà al pubblico, che la renderà farfalla – nomen omen – e ne «infrangerà l’ale». I costumi classici di Butterfly e delle sue damigelle (con un modernizzato e stilizzato chimono rosso, non certo esente dalle influenze della cultura manga) sono l’unico elemento realmente giapponese della scenografia – se si prescinde dal boschetto di bambù; un prato verde, ampio, con dei tavolini sulla destra e una semplice struttura effimera a mo’ di decorazione (qualche palo bianco con morbidi veli rossi svolazzanti al vento e delle sedie) sono gli unici altri scarni elementi. La gaia atmosfera del matrimonio è interrotta dall’arrivo di Bonzo, secondo coup de théâtre: Bonzo è il capo di un’associazione mafiosa e lo accompagnano i suoi scagnozzi, con tanto di bastoni (sorta di moderni ninja in occhiali da sole). La scena è sapientemente giocata fra l’aspetto comico della citazione tarantiniana (alla Kill Bill) e l’opposizione fra un prepotente occidente e un oriente occidentalizzato nella foggia degli abiti. L’occidente, dunque, ha già vinto: l’elegiaco duetto amoroso, finale del I atto, rappresenta una Butterfly conquisa, ammaliata, in balia di Pinkerton, in un’atmosfera trasognata. Il secondo atto sancisce uno stravolgimento totale. Pinkerton ha deturpato Nagasaki con i suoi abusi edilizi: Ollé proietta sullo schermo che fa da sfondo grattacieli in costruzione, che andranno, mano a mano che l’opera arriverà alla conclusione, in rovina. Al centro della scena v’è una baracca che svetta in un inferno di cemento – degli operai entrano in scena e lavorano a degli scheletri di fondamenta: l’effetto dei tableaux vivants è perennemente cercato da Ollé. Cio-Cio-San è diventata una sorta di Harajuku-girl: veste con abiti kitsch occidentali, ostentando sul petto la bandiera Stars and Stripes. La sua fede è incrollabile, indefessa: Ollé gioca, volutamente, con le tensioni naturalmente scaturite dal testo e della musica, dalla drammaturgia in sé, mescendovi elementi trash e di ostentata pacchianeria, come l’ingresso del ricco Yamadori. Ollé tesse sapientemente le fila di una continua inventiva registica, giocando con i diversi registri drammaturgici. Il finale è straziante, pur non rispettando le volontà librettistiche: durante l’estrema aria di Butterfly, il figlioletto, trattenuto dalle braccia di Suzuki, chiama la madre, che si andrà a uccidere proprio dentro la baracca – Butterfly non benda il figlio per poi uccidersi. Io non ho retto alle lacrime: avevo il cuore in gola. Ollé ha creato, con un linguaggio del tutto innovativo, una Madama Butterfly moderna, intelligente, drammaticamente trascinante. Le scene di Alfons Flores e i costumi di Lluc Castells hanno coronato questa incredibile atmosfera. Un’atmosfera che ha la sua matrice originale, e sintesi, nella vittoria colonialista dell’occidente sull’oriente: «proponiamo un significato definitivo dell’opera come perdita del paradiso, e il personaggio di Pinkerton diviene simbolo di uno tsunami neoliberista – ultima conseguenza del feroce colonialismo –, capace di distruggere ogni cosa», afferma Ollé (programma di sala).

Veniamo, ora, alla direzione. Donato Renzetti fa bene il suo mestiere, senza regalare – c’è da ammettere – momenti autenticamente mozzafiato nella direzione: eppure si sarebbe potuto giocare maggiormente di fino in alcuni punti, in alcuni passaggi atmosferici che rendono indimenticabile la partitura di Butterfly. In compenso, accompagna con attenzione le voci. Successo incondizionato, suggellato dai fortissimi applausi a chiusura dell’opera, ha meritato l’interpretazione di Corinne Winters nel ruolo del titolo. Il soprano, che pure non inizia benissimo (v’è da segnalare qualche problema di coordinazione con la buca dell’orchestra dopo il suo ingresso nel I atto), cresce d’intensità nel corso della recita, arrivando a un finale trascinante: la scena del suicidio, infatti, qualcuno direbbe che ha fatto aggrovigliare le budella (in inglese suonava leggermente diverso: “it was so good I almost peed my pants”). La Winters è dotata di una voce algida, tersa, uniforme nei registri, in particolare pronta nello svettare agli acuti; le sono congeniali filati e passaggi virtuosistici che esegue con mirabile eleganza. Il duetto con Pinkerton è delicatamente eseguito (I), mentre il carattere dolce ma risoluto di Cio-cio-san emerge tutto nell’aria «Un bel dì, vedremo», celeberrima. Indimenticabile, anche, l’esecuzione del ‘duetto dei fiori’ («Scuoti quella fronda di ciliegio», II), dove le voci della Winters e della Di Paola si armonizzano soavemente. Rimanendo in tema, Adriana Di Paola canta una Suzuki notevole, convincente, con voce piena, ma duttile alle diverse sfumature di un ruolo che richiede uno sforzo soprattutto nella sfera del colore vocale. Il Pinkerton di Saimir Pirgu sfoggia acuti centrati e precisi. Il problema sostanziale è che il ruolo di Pinkerton è di quelli alquanto ingrati: non permette, autenticamente, di brillare, è spesso giocato tutto sull’interpretazione e, improvvisamente, necessita di squillo ed energia. Pirgu certamente possiede lo squillo, ma ha brillato assai meno nell’interpretazione, se si eccettua il duetto che chiude il I atto. Si pensi agli ariosi «Amore o grillo, dir non saprei» e «Addio fiorito asil»: Pirgu è leggermente monocorde e la sua voce brunita non aiuta naturalmente a far risaltare il colorito fraseggio, qui necessario. Al netto di ciò, comunque, il Pinkerton di Pirgu ha tutte le note del ruolo. Straordinario lo Sharpless di Andrzej Filończyk, che ha la morbidezza vocale adatta a un ruolo serafico come quello del Console. Diafano il Goro di Pietro Picone. Gli altri comprimari sono abbastanza buoni: Sharon Celani (Kate Pinkerton), Raffaele Feo (Il Principe Yamadori), Luciano Leoni (Lo zio Bonzo).

La première di questo allestimento di Butterfly, dunque, è certamente piacevole e commovente. Si rimpiange, comunque, l’acustica delle Terme di Caracalla. Il Circo Massimo, infatti, è costantemente esposto al traffico romano e si presta poco all’esecuzione operistica.


 

 

 
 
 

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