L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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"Son certo che se lo sentiste vi piacerebbe"

 di Roberta Pedrotti

 

Con queste parole Rossini riferisce alla madre della sua nuova opera dalla musica "spuntanea ed immitativa all’eccesso", vale a dire accattivante e teatrale come non mai. L'opera che era andata in scena per la prima volta il 20 febbraio 1816, viene sempre chiamata Il barbiere di Siviglia, ma debuttò come Almaviva ossia l'inutil precauzione. Con essa il suo autore fu identificato al punto che Beethoven lo invitò a lasciar perdere l'opera seria dopo aver dato al genere buffo tale immortale capolavoro, tuttavia, si dice, alla prima fu un fiasco clamoroso, funestato dai più improbabili incidenti. Forse, però, non tutte le leggende hanno un saldo fondo di verità, e se i fischi effettivamente vi furono, non tutto quel che si crede di sapere sul Barbiere ha un effettivo fondamento una delle opere più famose al mondo ha ancora dei misteri da svelare, delle realtà nascoste, varianti e travestimenti che si potrebbe non finir mai di esplorare.

Per questo omaggio al Barbiere di Siviglia la bibliografia fondamentale è costituita, oltre che dai volumi delle Lettere e documenti a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, dalle edizioni critiche della Fondazione Rossini/Casa Ricordi e della Berenreiter, dai saggi di Bruno Cagli, Alberto Zedda e Mario Marcarini nei programmi di sala del Teatro alla Scala e del Rossini Opera Festival, dagli studi di Saverio Lamacchia pubblicati dal Bollettino del Centro rossiniano di studi e dal Saggiatore musicale.

Fu vero fiasco?

Le leggende e le testimonianze sul debutto del Barbiere pagina 1

Al solito un dramma semiserio

L'Avvertimento al pubblico e il "barbaro gusto" del "secolo corrotto" pagina 2

Quale rivoluzione?

Reazione e rivoluzione fra Almaviva e Il barbiere di Siviglia pagina 3

Cambi di registro

Le molte vite di un'aria e le metamorfosi di una primadonna pagina 4

La terza donna

Il fantasma di Lisa pagina 5

Calunnie e fucine

Giochi di scambi e autoimprestiti pagina 6

Largo al Factotum!

L'inesorabile fama multiforme pagina 7

 


Fu vero fiasco?

Non è raro che i grandi capolavori, in quanto tali spesso rivoluzionari, al debutto risultino incompresi e vadano incontro a clamorosi insuccessi, come nel caso del Sacre du printemps di Stravinskij, sommerso da improperi alla prima parigina del 1913. È, però, altrettanto comune che l'esito non felice all'esordio s'ammanti di un'aura di leggenda che ne ingigantisca le dimensioni e ne alteri le motivazioni in proporzione diretta con i successi posteri.

Con i fiaschi di Tannhäuser e della Traviata sta, in ottima compagnia, quello del Barbiere, reso dal mito colossale quanto la fortuna successiva.

Ma fu vero fiasco? Ai posteri fa comodo sentenziarlo, ma uno sguardo più attento ridimensiona e di molto i fatti.

Rossini così rende conto alla madre della prima:

Ieri sera andò in scena la mia opera e fu sollennemente fischiata. Oh che pazzie che cose straordinarie si vedono in questo paese sciocco.

Vi dirò che in mezzo a questo la musica è bella assai e nascono di già sfide per questa soré seconda recita dove si sentirà la musica cosa che non accape ieri sera mentre dal principio alla fine non fu che un immenso sussuro che accompagnò lo spettacolo.

Sì, ci fu indubbiamente un dissenso, tuttavia non sembra preoccupare troppo il giovane autore, che sembra guardare con consapevole sufficienza una claque ben definita, cui fa riferimento con maggiore rammarico in una lettera del 26 febbraio anche il librettista Sterbini:

Non credevo io, e dico la verità, che dopo tante fatiche, dopo il carico che mi sono dato oltre ogni dovere e oltre la sfera delle mie attribuzioni perché il tutto andasse in piena regola e colla maggiore sollecitudine, si venisse poi per un vilissimo interesse ad aggiungere nuovi disgusti a quelli rilevantissimi che ho dovuti incontrare per parte d’un’udienza mercenaria e indiscreta.

Mercenari che uno sfogo epistolare dell'impresario dell'Argentina, duca Sforza Cesarini, in occasione dell'Italiana in Algeri del 13 febbraio, sembrano poter individuare in emissari del teatro rivale:

Si è dovuto superare ieri sera un partitaccio terribile che era del Teatro Valle, che non faceva altro che procurare di far star zitti tutti quelli che volevano applaudire.

Della claque avversa fu invece ingiustamente incolpato Paisiello, o, per lui, supposti sostenitori del suo onore leso dal cimento di un giovane in ascesa con un soggetto già musicato dal maestro pugliese. Una vera e propria calunnia, giacché Il barbiere di Paisiello a Roma non era noto (Lamacchia suppone non vi fosse mai stato rappresentato) e il compositore era anziano, a pochi mesi dalla morte, prostrato dalla scomparsa dell'amata moglie ma gratificato dall'ottima posizione come maestro della cappella palatina partenopea. Quale motivo avrebbe mai avuto per accanirsi contro la nuova opera romana di Rossini quando l'uso di mettere in musica non solo intrecci, ma anche libretti già noti era serenamente in vigore fin dagli albori del melodramma? Quando Rossini era sotto contratto a Napoli con l'impresario Barbaja e avrebbe potuto essere più facilmente colpito dalle invidie del collega più anziano, che invece diede addirittura senza problemi al rinomato divo Manuel Garcia, di fatto alle sue dipendenze alla corte borbonica, il permesso di partecipare alla stagione dell'Argentina. Certo, la disfida fra vecchia guardia e nuove generazioni, parallela a quella fra l'anziano Bartolo e i giovani amanti, poteva sortire un effetto ben più forte nell'aneddotica che non la rivalità spicciola fra due impresari.

È vero che l'Avvertimento al pubblico di Cesare Sterbini annuncia un cambiamento di titolo (Almaviva invece del Barbiere) in ossequio a Paisiello, ma Saverio Lamacchia ha ben argomentato come la formalità nascondesse, con un vanto d'originalità teso ad accattivarsi l'interesse del pubblico, la vera ragione della consacrazione del Conte a protagonista en titre: il prestigio dominante di Manuel Garcia nella stagione dell'Argentina e il non irrelato peso drammaturgico dell'aristocratico ben altrimenti determinante rispetto a quello di Figaro.

Fors'anche proprio in reazione al predominio del collega, Gertrude Righetti Giorgi, da brava primadonna, pensò bene di arricchire nelle sue memorie (Cenni di una donna già cantante sopra il maestro Rossini...") il racconto di dettagli difficilmente verificabili, che rendono più sapida la vicenda, le attribuiscono gli unici applausi e le più alte aspettative della serata, ammantano di una sorta d'aura eroica e leggendaria gli artefici originali di un capolavoro immortale (fugando anche il legittimo dubbio di una prima in cui, in realtà, la compagnia avrebbe potuto non presentarsi preparatissima).

Fischi ci furono eccome, sono registrati unanimemente da più fonti, ma di gatti che attraversano la scena e di altre amenità di cui si è arricchito l'immaginario comune non c'è traccia attendibile, come non restano – fuor del racconto tendeziosetto della prima Rosina – prove delle canzonette spagnole intonate da Manuel Garcia e che avrebbero irritato il pubblico smanioso di una grande cavatina della Righetti Giorgi (più verosimile che abbia ecceduto in variazioni e improvvisazioni che tuttavia non alterassero la struttura generale della sua parte: dove avrebbe altrimenti potuto rispondere coerentemente Rosina “Segui, oh caro, deh segui così”, come la stessa interprete racconta d'aver fatto?).

Di certo, la claque non impensierì Rossini, che dopo essersi compiaciuto delle calorosissime accoglienze romane in numerose missive alla madre (anche per quell'Italiana che Cesarini Sforza racconta disturbata da emissari dei rivali, se non per Torvaldo e Dorliska) così, con il solito italiano zoppicante, testimonia l'esito delle repliche del Barbiere (lettera del 27 febbraio):

Io vi scrissi che la mia opera fu fischiata, ora vi scrivo che la sud:a ha avuto un esito il più fortunato mentre la seconda sera e tutte le altre recite date non hanno che applaudita questa mia produzione con un fanatismo indicibile faccendomi sortire cinque e sei volte a ricevere applausi di un genere tutto nuovo e che mi fece piangere di sodisfazione.

A momenti riceverete del denaro il quale farete fruttare.

Io parto domani per Napoli e dopo torno a Roma il venturo Carnevale ed ho già fatta la scrittura. Il mio Barbier di Siviglia è un capo d’opera e son certo che se lo sentiste vi piacerebbe essendo questa una musica spuntanea ed immitativa all’eccesso. Baciatemi mio Padre e dittele che da Zamboni riceverà il pachetto contenente i diversi oggetti ch’ei mi cerca. Vogliatemi bene, scrivetemi a Napoli e credetemi di tutto cuore

il vo figlio

Gioachino Rossini


"Al solito un dramma semiserio..."

“...un lungo, malinconico, noioso, poetico strambotto! Barbaro gusto! secolo corrotto!” sbotta Don Bartolo immaginando che L'inutil precauzione, il nuovo “dramma in musica” cui fa riferimento Rosina, appartenga al genere semiserio di gran moda. Certo, derivata dai generi larmoyant e dal romanzesco avventuroso, l'opera semiseria è la favorita della nuova borghesia, è avvincente e realistica: il nostalgico dell'epoca di Caffariello non può che guardarla con sospetto, con il suo carico di malinconie e di acrobazie vocali, c'è però qualcosa di più. È un ammiccamento del librettista al pubblico, avulso dalla finzione scenica: nemmeno due mesi prima del Barbiere i romani avevano assistito al teatro Valle – il diretto concorrente dell'Argentina – alla prima non proprio felice di Torvaldo e Dorliska, dramma semiserio. Chiaramente Sterbini gioca la carta dell'autoironia per marcare la differenza rispetto al lavoro precedente, con piena volontà di riscatto, consapevole di come il meccanismo perfetto del Barbiere non abbia molto a che spartire con le traversìe polacche degli sposi insidiati fra boschi e castelli da un duca libertino e senza scrupoli, tipico prodotto alla moda la cui forza risiederà unicamente nella qualità sempre elevata della scrittura rossiniana.

Le preoccupazioni di Sterbini, librettista occasionale le cui spalle non erano sufficentemente larghe per reggere la pressione del teatro e delle sue alterne fortune, si riflettono naturalmente nel citato Avvertimento, tutto teso non a prevenire una reazione dei tradizionalisti, bensì ingentilire con un pizzico di umiltà e reverenziale rispetto la proclamazione dell'originalità e della modernità del trattamento di un tema collaudato. Fa dunque il paio con la battuta di Bartolo nell'avvisare che la nuova opera di Rossini e Sterbini non sarà come il prodotto convenzionale poco apprezzato nemmeno due mesi prima, bensì qualcosa di del tutto nuovo, con un grande ruolo per il cantante più atteso della stagione e, comunque, un soggetto di già provata efficacia.

Avvertimento al pubblico

La commedia del signor Beaumarchais intitolata Il barbiere di Siviglia, o sia L'inutile precauzione si presenta in Roma ridotta a dramma comico col titolo di Almaviva, o sia l'inutile precauzione all'oggetto di pienamente convincere il pubblico de' sentimenti di rispetto e venerazione che animano l'autore della musica del presente dramma verso il tanto celebre Paisiello che ha già trattato questo soggetto sotto il primitivo suo titolo.

Chiamato ad assumere il medesimo difficile incarico il signor maestro Gioachino Rossini, onde non incorrere nella taccia d'una temeraria rivalità coll'immortale autore che lo ha preceduto, ha espressamente richiesto che Il barbiere di Siviglia fosse di nuovo interamente versificato, e che vi fossero aggiunte parecchie nuove situazioni di pezzi musicali, che eran d'altronde reclamate dal moderno gusto teatrale cotanto cangiato dall'epoca in cui scrisse la sua musica il rinomato Paisiello.

Qualche altra differenza fra la tessitura del presente dramma, e quella della commedia francese sopraccitata fu prodotta dalla necessità d'introdurre nel soggetto medesimo i cori, sì perché voluti dal moderno uso, sì perché indispensabili all'effetto musicale in un teatro di una ragguardevole ampiezza. Di ciò si fa inteso il cortese pubblico anche a discarico dell'autore del nuovo dramma, il quale senza il concorso di sì imponenti circostanze non avrebbe osato introdurre il più piccolo cangiamento nella produzione francese già consagrata dagli applausi teatrali di tutta l'Europa.

Una cosa è, comunque, certa: il "secolo corrotto" tanto inviso al vecchio tutore ripete regolarmente una sorta di cahier de doléance dei soprusi dei signorotti ancien régime - dal Duca d'Ordow di Torvaldo e Dorliska al Podestà della Gazza ladra al Pizzarro del Fidelio - regolarmente sconfitti dalla giustizia che, per quanto sempre benedetta infine da un benevolo potere supremo, rispecchia i sentimenti della nuova borghesia post rivoluzionaria. Uno schema politico cui il Barbiere, nato nella Roma papalina in piena Restaurazione, non può affiliarsi in toto, nonostante l'immagine tradizionale affermatasi delle imprese di Figaro.


Quale rivoluzione?

Figaro è stato elevato quasi unanimemente a prototipo del mondo nuovo che emerge dopo la Rivoluzione francese, di colui che, senza titoli nobiliari, forte del proprio ingegno e del proprio spirito d'iniziativa si fa strada e trionfa sull'antico regime. Questa, però, è un'eredità che il Figaro rossiniano riceve da Beaumarchais e da un contesto bisognoso di un così accattivante eroe letterario non meno che del criticato retaggio aristocratico. In breve: Figaro è simpatico, ha sempre la risposta pronta, è dinamico e brillante, ma le sue idee non funzionano come dovrebbero, se non quella di stabilire un primo contatto con Rosina cercando una risposta a una “canzone alla buona” più che a una sofisticata serenata. Poi propone di introdursi in casa nei panni di un soldato ubriaco, stratagemma che Bartolo potrebbe subito neutralizzare godendo dell'esenzione dal dovere di ospitalità per i militari. La soluzione viene dall'autorità del Conte che si fa riconoscere dall'Ufficiale, esattamente come saranno il denaro e il grado a rimuovere ogni ostacolo quando la fuga notturna fallirà. Certo, Figaro procura la chiave della gelosia, ma il suo ruolo più che di risolutore è di motore comico: basta il Conte a far sì che, alla fine, Rosina coroni il suo sogno d'amore, ma serve Figaro perché ciò avvenga in maniera avvincente, per dare energia alla commedia, come quando s'inserisce nella sospensione di “Freddo ed immobile” con il lazzo di “Guarda Don Bartolo!” o sdrammatizza l'idillio virtuosistico di “Alla fin dei miei sospiri tu sentisti, amor, pietà! ” con l'incalzante “Se si tarda i miei raggiri fanno fiasco in verità”. A ben guardare, questo nobile che si spaccia per uno studente povero per sedurre una giovane tenuta sotto stretta custodia potrebbe ricordare molto da vicino un certo duca verdiano. Il barbiere di Siviglia si dà a Roma, nel teatro di proprietà di un Duca e a meno di un anno dalla chiusura dei lavori del Congresso di Vienna: poteva forse essere innervato di spregiudicati contenuti giacobini? Una novità, però, c'è, ed è costituita dal potere del denaro, un potere che è nelle salde mani del Conte, ma che fa già capire che la ricchezze più che i titoli faranno la differenza d'ora in poi. Come la farà il dinamismo musicale di Figaro, che l'avrà vinta, affermandolo quale protagonista, fra le alterne fortune del grande virtuosismo tenorile. Anche l'amoroso Florville, nel Signor Bruschino, aveva ottenuto la reclusione del rivale promettendo al lcoandiere Filiberto "Io denari vi darò", ma il frizzante duetto non aveva assunto i toni di vero inno al potere del capitale che è "All'idea di quel metallo".

Il protagonismo del Conte, la piena giustificazione della sua consacrazione nel titolo, è oggetto di fondamentali e approfonditi studi di Saverio Lamacchia. D'altra parte basterebbe anche osservare la distribuzione dei numeri musicali che rispecchia anche la gerarchia dei personaggi: fra i principali, riuniti nel quintetto centrale del secondo atto, Rosina e Figaro si trovano in una sostanziale equivalenza, la prima con due arie e un duetto, il secondo con un'aria e due duetti, ma la parte predominante è quella del Conte, cui spetta l'assolo più prestigioso dell'opera, quello che conclude l'opera o precede immediatamente un finaletto collettivo. Il taglio di "Cessa di più resistere" dal punto di vista della drammaturgia musicale non è meno significativo, in realtà, di quanto non sarebbe il taglio di "Pensa alla patria", di "Nacqui all'affanno" o di "Tanti affetti in tal momento".


Cambi di registro

Privare il Conte di "Cessa di più resistere" fa vacillare la sua autorità, ne facilita l'assimilazione agli amorosi languidi e sentimentali della tradizione. Un giovanotto innamorato che ha bisogno di qualche aiuto, più che un baldanzoso Grande di Spagna con le idee chiare, i mezzi per realizzarle, voglia d'amare e di divertirsi. Un Conte della cui sincerità non dubitiamo, ma che non ci sembra così improbabile come il futuro impenitente libertino delle Nozze di Figaro (il passo da “Amore e fede eterna si vegga in noi brillar” a “Contessa, perdono” sarà poi così lungo?).

I tenori belcantisti, però, hanno vissuto oltre un secolo di eclissi, mentre sempre più numerosi sono stati i baritoni ansiosi di impugnare il rasoio di Figaro e scippare il protagonismo al Conte. Lo stesso Manuel Garcia si mostra presto disposto a cedere le armi della grande aria finale, mentre pochi mesi dopo la prima, nell'estate del 1816, Gertrude Righetti Giorgi coglie l'occasione, con il debutto bolognese dell'opera, per appropriarsi del ghiotto boccone: qualche aggiustamento testuale ed è Rosina a intimare a Bartolo di non resistere e ai “lieti istanti” di non “fuggire”, esempio seguito poi nel XX secolo da Beverly Sills. È il preludio inevitabile alla più sfolgorante seconda vita del rondò di Almaviva: il 25 gennaio 1817, a Roma, ma questa volta al Teatro Valle, la Righetti Giorgi è la prima Cenerentola e intona “Non più mesta accanto al fuoco” sulle note che un anno prima erano state composte per Il barbiere di Siviglia. Il percorso di "Cessa di più resistere" attraverso diverse voci e diverse opere è, però, più articolato e tortuoso: lo sintetizziamo in una tabella che evidenzia le sezioni riprese senza sostanziali variazioni e indica in corsivo, fra parentesi quadre, quelle differenti.

Almaviva

(Il Barbiere di Siviglia) Roma, 20/2/1816

Le nozze di Teti, e di Peleo

Napoli, 24/4/1816

La cenerentola

Roma, 25/1/1817

Adelaide di Borgogna

Roma, 27/12/1817

Almaviva (Tenore)

Manuel Garcia

Cerere (Soprano)

Isabella Colbran

Angelina (Contralto)

Gertrude Righetti Giorgi

Adelaide (Soprano)

Elisabetta Manfredini

Tempo d'attacco

     

Cessa di più resistere

Ah non potrian resistere

 

Cingi la benda candida

Cantabile

     

E tu infelice vittima

Ah che d’umane lagrime

[Nacqui all’affanno]

Se grate son le lagrime

Tempo di mezzo

     

[Cari amici...]

Già sull’Orbe il sol prepara

[No no, tergete il ciglio]

Alla gioia il cor prepara

Cabaletta

     

Ah il più lieto, il più felice

E d’Imene intorno all’ara

Non più mesta accanto al fuoco

[Temere un danno]

 

L'aria principale del Conte passa per vie diverse a voci femminili gravi e acute, ma la stessa Rosina verrà frequentata con sempre maggior assiduità dai soprani: pur con differenze di gusto e stile il virtuosismo non è mai venuto a mancare in questa corda, né la propensione a incarnare giovani innamorate, mentre i mezzosoprani e i contralti veramente belcantisti, pur senza estinguersi, si fanno merce più rara con l'avanzare del XIX secolo. In generale, poi, se il Conte perde autorità, anche alla sua amata potrà convenire un alleggerimento e l'estetica amorosa farsi più leziosa. Non si tratta, però, solo di un'appropriazione posteriore da guardare con sospetto, di una moda superata: già nel 1819, in occasione di una ripresa veneziana, il soprano Joséphine Fodor- Mainvielle affrontò il ruolo di Rosina e ottenne da Rossini l'aggiunta di una nuova aria scritta appositamente per il registro più acuto. “Ah s'è ver che in tal momento”, collocata prima del temporale a esprimere i dubbi della giovane dopo le insinuazioni di Don Bartolo sull'amato Lindoro, rappresenta la giustificazione d'autore al cambio di registro. Lungi dai bamboleggianti ghirigori delle Rosine affidate a soprani di coloratura liberty, non sarebbe improprio, dunque, affidare il personaggio a una cantante consapevole dello stile e riprendere l'aria che conferisce alla pupilla un ruolo di primo piano non inferiore, anzi, a quello di Almaviva (oltre a un duetto e un terzetto, tre arie di grande estensione e articolazione teatrale e psicologica, una delle quali posta in posizione limitrofa a quella del Conte).

La Fodor, peraltro, prima Rosina soprano, inseriva come aria della lezione, in luogo di “Contro un cor che accende amor”, “Di tanti palpiti” da Tancredi, brano in origine contraltile: una bizzarria per i moderni che ai tempi, ben più elastici quanto a trasposizioni e registri vocali, non dovette turbare nessuno e si inserisce nella consolidata pratica di fare della lezione il momento in cui la primadonna poteva sfoggiare, talora in una sorta di vero e proprio mini concerto, le sue arie di baule favorite. Cominciò proprio Gertrude Righetti Giorgi, nella ripresa bolognese dell'estate 1816, inserendo un'aria dal titolo “La mia pace, la mia calma” di autore ignoto ma nella quale, per mantenere il legame drammaturgico, fu comunque innestato il tempo di mezzo rossiniano “Ah Lindoro, mio tesoro”.

Innumerevoli sono i cambi, i tagli, le interpolazioni che costellano la bicentenaria fortuna del Barbiere. Forse il più celebre non ancora qui citato è l'aria “Manca un foglio” di Pietro Romani inserita nell'autunno del 1816 a Firenze da Paolo Rosich, interprete di Bartolo, in luogo di “A un dottor della mia sorte”. La Righetti Giorgi scrisse che “Essa è una bell’aria, e non ispiace a Rossini, che sia stata introdotta nella sua opera". Possibilissimo che Rossini non si preoccupasse di queste consuetudini teatrali, cui egli stesso non si sottraeva fornendo all'occorrenza arie alternative per opere altrui; certo che “Manca un foglio” rimase in repertorio fino al Novecento.


La terza donna

Merita una parola il caso di Lisa, la – vera o presunta – seconda serva di Don Bartolo su cui abbiamo due scuole di pensiero ben distinte.

I fatti sono (apparentemente) lineari: nell'autografo del Barbiere nel rigo corrispondente ai versi “Il barbiere… quanta gente” è attribuito a Lisa e non a Berta.

Non altrettanto lineare l'interpretazione: Philip Gossett e Patricia Brauner nella loro edizione critica per Berenreiter sostengono che, semplicemente, nella rapida gestazione dell'opera vi fu un'indecisione sul nome della cameriera, facendo notare che in altri due punti la parola Lisa pare scritta, cancellata e sostituita con Berta. Alberto Zedda per la Fondazione Rossini sostiene invece che il nome di Lisa sia rimasto di proposito nell'autografo per indicare sostanzialmente la lavandaia che permette lo scambio della lista del bucato, notando sia la chiarezza della grafia, sia la tessitura più bassa nella frasi attribuite a Lisa rispetto a quelle di Berta.

Per gli studiosi statunitensi, dunque, si tratterebbe di una semplice stratificazione di diverse stesure, per gli italiani di un personaggio vero e proprio che nella prassi, ma non nelle intenzioni originali, si è fuso con un altro.


Calunnie e fucine

Fra le leggende relative alla genesi dell'opera c'è quella della sinfonia perduta e di fretta e furia sostituita con quella preesistente già utilizzata per Aureliano in Palmira ed Elisabetta, regina d'Inghilterra: nulla vi è di strano o inusuale in questa pratica, non è l'unico momento in cui Rossini fa ricorso a musica già utilizzata e, benché sia il solo a veder ripreso pressoché letteralmente un intero numero, la collocazione “avanti l'opera” giustifica già ampiamente l'autoimprestito nella prassi di un'epoca avida di novità e poco interessata all'assoluta originalità, anzi, ben disposta a giocare di allusioni e citazioni. Viceversa, della sinfonia “su temi spagnoli” composta in origine non si sente parlare fino a Ottocento inoltrato: forse perché l'autoiprestito stava passando di moda e l'idea che un capolavoro universalmente riconosciuto condividesse l'ouverture con altri titoli ormai desueti necessitava di una motivazione in linea con la caricatura del Rossini indolente e gaudente?

Oltre alla Sinfonia, molta musica dell'Aureliano, fra cui la stessa ouverture, era già confluita in Elisabetta Regina d'Inghilterra, questa e altre si ritroverà nel Barbiere. Fra queste la cabaletta di Arsace, “Non lasciarmi in tal momento”, affidata alla sovrana inglese come “Questo cor ben lo comprende”, diverrà “Io sono docile” grazie anche agli spunti delle variazioni di Giovan Battista Velluti, primo interprete dell'Aureliano [Per approfondire leggi della conferenza di Will Crutchfield a pesaro nel 2014]

Non si tratta degli unici casi in cui Rossini attinse a suoi lavori precedenti, come L'occasione fa il ladro e La pietra del paragone, in cui già compare il temporale del secondo atto, o la citata aria per Rosina soprano “Ah s'è ver che in tal momento”, che mutua la cabaletta da Sigismondo e dalla cantata Giunone. Uno dei casi più interessanti di autoimprestito è, però, quello costituito da un tema di crescendo che compare nel Duetto fra Aldimira e Ladislao nel primo atto del Sigismondo. La donna, già regina scampata a una condanna ingiusta e ora celata sotto mentite spoglie, incontra, senza svelarsi ma in un clima di crescente tensione, il ministro che, seduttore deluso, l'aveva calunniata:

Ladislao
E come sai?.. che intendi!..

Aldimira
Non domandarlo a me.

Ladislao
Chiederlo! e a chi degg’io?

Aldimira
(colla più gran forza)
A te lo chiedi, a te.

Ladislao
A me! qual tuo deliro!

Aldimira
No, ch’è martiro in me.

Ladislao
E chi ti dà tormenti?

Aldimira
A te lo chiedi, a te!

Ladislao
Follia ti detta accenti;
non troverai mercé.

Aldimira
Ragion mi detta accenti;
sì, troverò mercé.

 

In questo momento il tema principale in orchestra è esattamente quello del crescendo che si innesca nell'aria di Don Basilio dalle parole “Piano, piano, terra terra”.

Lo stesso tema s'affaccia oggi in filigrana in un altro momento cruciale legato a una calunnia. Nel duetto fatale del terzo atto di Otello. È chiaro che in questo caso Rossini non riutilizza, come in altre occasioni, un tema quale puro materiale asemantico, bensì identificandolo, seppur in registri espressivi differenti fra dramma e commedia, con uno stesso, preciso significato. Proprio questo passaggio trasversale dalla calunnia di Ladislao a quella di Don Basilio fino a quella di Iago si rivelò, però, difficile da gestire e presentare al pubblico ottocentesco: il Radiciotti parla di “infelice idea” che sciupa l'effetto del duetto, altrimenti “magnifico”. Sparito rapidamente dal repertorio il Sigismondo, sopravvivente Otello a fronte del successo universale e inarrestabile del Barbiere, l'associazione comica nel precipitare della catastrofe tragica costrinse Rossini a celare il tema, dando al duetto la forma stabilizzatasi poi nel repertorio.

Parimenti, non fu facile inserire allusioni al Barbiere in lavori successivi man mano che quest'opera si affermava come la più celebre di Rossini: fu ripreso e rielaborato "Cessa di più resistere", da subito scomodo ai tenori e quindi destinato a più salde fortune nel trionfo mezzosopranile di Cenerentola; la citazione del tema della calunnia non fu ben digerito.

Un caso recentemente riscoperto, però, mostra un autoimprestito a distanza di pochi mesi dalla prima romana: nel settembre dello stesso 1816 va in scena a Napoli, al teatro del Fondo, La gazzetta l'unica opera buffa partenopea di Rossini, che le destinò, invero, ben poca musica originale, ricorrendo ampiamente alla Pietra del paragone e al Turco in Italia (ma componendo una sinfonia che, in buona parte, troverà gloria qualche mese dopo anteposta alla Cenerentola). A metà del primo atto si colloca un importante quintetto solo recentemente recuperato i cui versi, nella stretta, recitano:

Mi par d’esser con la testa
in un’orrida fucina,
ove cresce e mai non resta
un continuo susurrar.
Alternando questo e quello
pesantissimo martello,
che coi colpi d’ogni intorno
fanno l’aria rimbombar.

L'idea musicale è la medesima del finale primo del Barbiere, diverso lo sviluppo sia per l'organico differente (quintetto e non sestetto, con una voce maschile grave in meno) sia soprattutto per la collocazione che esige, rispetto al finale d'atto, proporzioni e respiro assai meno ampi.


Largo al Factotum!

Trionfo dell'aristocratico che gioca alla conquista della sua bella forte del rango e del censo, trionfo di un popolano dallo spirito rampante e concreto, trionfo di una giovane pupilla volitiva ma incapace di mettere in atto i suoi propositi viperini perdendosi perfino in dubbi e inquietudini. Trionfo del tenore belcantista, virtuoso e autorevole (quella grandinata di note a marcare la U di "crudeltà" nel suo rondò è la firma del Grande di Spagna), del baritono brillante franco e spavaldo, di una primadonna, soprano o mezzo che sia. Quale volto si voglia vedere nel Barbiere di Siviglia, tutti legittimi nelle varianti d'autore e nelle pieghe della sua penna, la commedia vincerà sempre, sempre perfetta e infallibile, purché non si ceda alla tentazione di trasformarla in farsa, di non credere nei suoi personaggi e nelle sue situazioni cercando una risata facile che subito, però, si spegne e necessita di altri effetti, gag e trovate che s'incalzino, soffocando la trama. Trama così forte da poter sopportare parecchi affronti, ma, proprio per questo, da meritare alta considerazione.

Abbiamo visto Figaro muoversi dalla Siviglia del tardo '700 fino all'America degli anni '60, aggirarsi in un immenso giardino incantato o in un'Andalusia arabeggiante, fra colori sgargianti, bianco e nero, forme essenziali, scene dipinte e ambienti realistici, proiezioni, cartoni animati, teatri anatomici, mobilio sospeso. La sua fama e la sua forza non si sono mai spente, anzi, hanno continuato a rinnovarsi all'infinito.

Se le trame che vedono trionfare l'amore dei giovani sulle brame di un vecchio sono il soggetto comico più antico e frequentato del mondo, quella musica "spuntanea e immitativa all'eccesso" non può fare a meno di piacere, spontanea finché si vuole ma incredibilmente raffinata, imitativa della finzione teatrale al punto da divenir metafisica. E capace così di delineare caratteri così chiari e pure così ambigui, dolci e piccanti, fra apparenza, propositi e azione: Rosina che si promette vipera e resta spettatrice pressoché passiva, il bieco Bartolo reso così spesso credibilmente simpatico, l'amoroso Lindoro che è un conte decisamente sicuro di sé, l'astuto Figaro che combina più pasticci che altro, il sinistro Don Basilio che sembra anche un povero diavolo... Ancora, il Conte (il Secondo Stato) si allea con il Barbiere (il Terzo Stato), ma anche i giovani contro i vecchi, e non è facile stabilire definitvamente come si bilancino le forze in campo, il potere del denaro, del rango, dell'età.

Il Barbiere vive di mille sfaccettature, psicologiche e sociali, in un intreccio dosato a meraviglia, che lascia aperte mille porte agli interpreti, che suggerisce diverse vie parallele, tutte nello stesso percorso. Comunque sia, fidandosi di Rossini, tutto andrà bene. Anzi, benché Il barbiere ridotto ai lazzi buffoneschi di chi vuol far ridere ad ogni costo con vecchi stereotipi veda evaporare tutta l'arguzia eterna che lo rende sempre moderno, elegante, gustoso, è un fatto che l'opera abbia retto anche le prolungate ingiurie e alterazioni del tempo. Un Barbiere costipato di vocette, battute interpolate, caricature di innamorati zuccherosi, vecchietti avari e musici grifagni perde il suo fascino sottile e autentico, ma ha saputo mantenere, tanta è la sua forza intrinseca, intatto il favore del pubblico, intatta la sua fama.

Questa fama ha oscurato, per lunghi decenni, quella di tanti altri capolavori usciti dalla stessa penna, ma questa fama ha saputo anche ben ripagarli, quando un giovane medico pesarese, Gianfranco Mariotti, si trovò alla Scala per assistere al Barbiere che Claudio Abbado (pur senza "Cessa di più resistere") aveva riproposto con tanta cura, affidandosi al genio registico di Jean Pierre Ponnelle e al lavoro filologico di Alberto Zedda, per liberare il genio dalla polvere del tempo. Allora nacque l'idea di un Festival a Pesaro. Allora nacque l'idea che avrebbe fatto risorgere anche Ermione e Maometto Secondo, anche Aureliano in Palmira e Sigismondo.


 

 

 
 
 

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