L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

Genova, Teatro carlo felice

Opera & Balletto

STAGIONE

2016 / 2017

 

La rondine (IV versione)

Giacomo Puccini

Novembre 2016 – 9 (20.30 A), 12 (15.30 F), 13 (15.30 C), 15 (20.30 B), 20 (15.30 R)

Nuovo Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice

Direttore d’Orchestra Andrea Battistoni

Regia Giorgio Gallione

Scene e costumi Guido Fiorato

Personaggi e interpreti principali

Magda Svetla Vassileva (9, 13, 15)

Lisette Mihaela Marcu (9, 13, 15)

Ruggero Giuseppe Filianoti (9, 13, 15)

Rambaldo Stefano Antonucci (9, 13, 15)

Prunier Marius Brenciu (9, 13, 15)

Magda de Civry è una bella ed elegante protagonista della vita mondana della Parigi del Secondo Impero. Ha un protettore, il ricco Rambaldo. Ma una sera conosce Ruggero, giovane aristocratico di provincia. Ed è un colpo di fulmine. Magda si finge una donna di umili origini, una grisette, una Mimì insomma, e come tale conquista Ruggero. Abbandona il lusso dei salotti parigini e si rifugia con lui in un angolo remoto della Costa Azzurra. Ma quando Ruggero ottiene dalla famiglia il permesso di sposarla, Magda non se la sente di ingannarlo e gli rivela la verità sul proprio passato. E per non costringerlo ad un matrimonio sconveniente, lo lascia, pur soffrendone, e torna alla vita frivola di prima. Se Traviata non fosse un dramma, ma una commedia sentimentale con un finale amaro, non c’è dubbio: sarebbe La rondine di Puccini. Un sentimento sincero contro un legame di interesse, la spazio isolato del nido d’amore contro quello affollato e superficiale delle feste mondane (perché gli innamorati, si sa, sono sempre soli): come in Traviata, appunto, ma senza tragedia, senza la coincidenza tra Amore e Morte. Nella Rondine il binomio è Amore e Rinuncia, e il registro del racconto è disincantato, ironico, talvolta cinico e, sotto sotto, profondamente malinconico. Del resto, inizialmente, l’opera avrebbe dovuto essere un’operetta da mettere in scena al Carltheater di Vienna (il contratto saltò con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale). E dell’operetta La rondine ha la leggerezza, sia nella vicenda (il libretto è di Giuseppe Adami, lo stesso del Tabarro e di Turandot) che nella musica, apoteosi del valzer (come nella Vedova allegra e nel Rosenkavalier) e omaggio di un compositore colto, curioso e cosmopolita ai balli americani che all’inizio del Novecento conquistarono Parigi (fox-trot, one-step, ecc.). Con raffinatezze armoniche e strumentali degne di Ravel.

La rondine, composta tra il 1913 e il 1915 tra molti dubbi e ripensamenti, debuttò con successo al Théâtre de l’Opéra di Montecarlo il 23 marzo 1917. Al Carlo Felice va in scena in un nuovo allestimento affidato a Giorgio Gallione, attore e regista attivo sia nel campo della prosa che della lirica e storico direttore del Teatro dell’Archivolto di Genova.

 

Compañía Nacional de Danza de España

Novembre 2016 – 24 (20.30 A), 25 (20.30 B), 26 (15.30 F – 20.30 L), 27 (15.30 C)

Don Quijote

Ludwig Minkus

Coreografia José Carlos Martínez (dalla versione di Marius Petipa e  Alexander Gorski)

Scene Raúl García Guerrero

Costumi Carmen Granell

Direttore d’Orchestra Manuel Coves

Don Quijote rappresenta una svolta nella storia del balletto classico: i protagonisti della vicenda non sono più personaggi fiabeschi come nella Bella addormentata o creature sovrannaturali ed eteree come nel Lago dei cigni, ma i popolani di un villaggio. Dalle fantasticherie inconsce e dal mondo dei sogni, che sono tutt’uno con la nascita della danza sulle punte in tutù di mussola bianca, il balletto ottocentesco, con Don Quijote, torna alla realtà. Il soggetto è tratto da un episodio della seconda parte del Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, in cui si narra dell’amore tra due giovani del villaggio, Quiteria e Basilio, ostacolato dal padre della ragazza, che vuole darla in sposa al ricco Camacho (cap. XXI, “Dove si continua a parlare delle nozze di Camacho con altri piacevoli avvenimenti”). Le coreografie originali sono dell’allora idolatrato Maître de Ballet dei Balletti Imperiali dello Zar a S. Pietroburgo, Marius Petipa, che affidò le musiche a Ludwig Minkus, un compositore austriaco, trasferitosi in Russia, che si dedicò interamente alla musica per balletto e che da quel momento diventerà un collaboratore abituale di Petipa. La prima assoluta, al Teatro Bol’šoj di Mosca il 26 ottobre 1869, fu un successo clamoroso.

La versione della Compañía Nacional de Danza (già Ballet Nacional de España), che ha debuttato al Teatro de La Zarzuela di Madrid il 16 dicembre 2015, segna il ritorno della compagnia, dopo oltre venticinque anni, ad un balletto classico completo. Il coreografo José Carlos Martínez, direttore artistico della CND dal 2010, spiega così i criteri con cui ha lavorato: “Ho usato come base la coreografia originale di Marius Petipa, insieme con le varie versioni che ho avuto occasione di danzare (Nureyev, Baryshnikov, Gorski). Mi sembrava importante mantenere la struttura coreografica del balletto. Ma volevo anche dipingere un Don Chisciotte più poeticamente sfumato nella sua ricerca dell’amore perfetto, incarnato da Dulcinea. Al tempo stesso, avevo il bisogno di ricondurre tutto all’essenza della nostra danza. Penso che sia molto importante per un Don Chisciotte prodotto da una compagnia di danza spagnola, anche se si tratta di un classico franco-russo, rispettare la nostra cultura e la nostra tradizione.”

 

Balletto dell’Accademia del Teatro alla Scala

Dicembre 2016 – 2 (20.30 A), 3 (15.30 F – 20.30 B), 4 (15.30 C)

Cenerentola

Sergej Prokof’ev

Coreografia Frédéric Olivieri

Scene Angelo Sala

Luci Andrea Giretti

Orchestra del Teatro Carlo Felice

Frédéric Olivieri, direttore della Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala, prestigiosa istituzione fondata nel 1813, ha realizzato una nuova coreografia di Cinderella di Prokof’ev su misura per i suoi allievi. Una versione molto rispettosa del libretto originale di Nicolai Volkov e delle atmosfere suggerite dalla partitura di Prokof’ev, i cui intenti Olivieri sembra aver fatto propri: «Ciò che più mi premeva – dichiarò infatti Prokof’ev presentando la composizione – era rendere con la musica di Cenerentola  l’amore poetico tra la protagonista e il principe, la nascita e il fiorire del sentimento, gli ostacoli su questa via, la realizzazione di un sogno. Ho cercato di far sì che lo spettatore non rimanesse indifferente alla sventura e alla gioia.» Una coreografia classico-romantica all’insegna della grazia e dell’eleganza, che lascia spazio alla manifestazione dei sentimenti e alla dimensione fiabesca, pensata per mettere in luce e valorizzare le doti dei giovani interpreti. Lo spettacolo ha debuttato con grande successo al Piccolo di Milano – Teatro Strehler il 29 aprile 2015.

 

La traviata

Giuseppe Verdi

Dicembre 2016 – 15 (20.30 A), 17 (15.30 F), 18 (15.30 C), 20 (15.30 G), 21 (20.30 B), 27 (20.30 L), 28 (20.30 F.A.), 29 (15.30 F.A.)

Nuovo Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice

Direttore d’Orchestra Massimo Zanetti/Alvise Casellati (27, 28 e 29)

Regia Giorgio Gallione

Scene e costumi Guido Fiorato

Personaggi e interpreti principali

Violetta Desirée Rancatore (15, 18, 21, 28)

Alfredo Stefan Pop (15, 18, 21, 28)

Giorgio Germont Vladimir Stoyanov (15, 18, 21, 28)

Nella Traviata di Verdi e Piave non ci sono re, regine, intrighi di corte o monumentali scenografie pseudostoriche. La protagonista, Violetta Valery, non è una figura nobile, è una donna di facili costumi. Il coro è un’incarnazione di quella stessa società a cui apparteneva il pubblico che il 6 marzo del 1853 andò al Teatro La Fenice di Venezia per assistere alla prima. E la vicenda non è un’invenzione letteraria, ma è ispirata a fatti realmente accaduti nella Parigi di una decina d’anni prima, così come li aveva raccontati Alexandre Dumas figlio nel romanzo La signora delle camelie. Portare la contemporaneità in scena non è mai stato facile, oggi come ai tempi di Giuseppe Verdi. La censura si scandalizzò già a partire dal titolo, che propose di sostituire con Amore e morte, imponendo, in più, una retrodatazione settecentesca, in modo che il pubblico non si sentisse chiamato in causa in prima persona. Le precauzioni censorie, però, non servirono a granché: la prima di Traviata fu un diluvio di fischi e proteste e rimarrà una della “cadute” più clamorose nella storia del teatro d’opera.

Se il soggetto era troppo scabroso per i melomani di allora, la musica non era meno spiazzante. L’audacia della trama mise in moto la creatività di Verdi che, sull’onda di quanto appena sperimentato con Rigoletto, si lanciò in un’altra avventura musicalmente innovativa. Il Preludio a sipario chiuso, ad esempio, non è solo una sintesi dei temi conduttori che si ascolteranno in seguito (quello della morte di Violetta e quello del suo amore per Alfredo). A questa prassi consolidata Verdi dà un significato emotivo nuovo, come se rappresentare fin dall’inizio l’umanità della protagonista, prima ancora che entri in scena, fosse più importante che rispettare i canoni operistici. Le tante anime della personalità di Violetta – spensierata cocotte nel primo atto, compagna fedele di Alfredo nel secondo, capro espiatorio del perbenismo borghese nel terzo – hanno inoltre portato Verdi a tre trattamenti vocali differenti, per i quali, come è noto, occorre una interprete di grande elasticità. E poi, il vero miracolo dell’opera: da un libretto in cui i personaggi si esprimono più in prosa che in poesia, Verdi estrae le sue melodie più cantabili, come nel lungo dialogo in cui il padre di Alfredo, Giorgio Germont, costringe Violetta a rinunciare all’amore per il figlio in nome dell’onore della famiglia: la musica, in questa scena memorabile, porta a galla le emozioni nascoste dietro le parole. E così Verdi dimostra una volta per tutte, modernissimo, che una situazione prosaica può essere fonte di poesia non meno di un mito.

Il Carlo Felice propone Traviata in un proprio nuovo allestimento con la regia di Giorgio Gallione, che, parallelamente alla sua trentennale attività di direttore artistico del Teatro dell’Archivolto di Genova, ha realizzato numerose regie di opere liriche, spaziando dai titoli di repertorio a quelli contemporanei.

 

Falstaff

Giuseppe Verdi

Gennaio 2017 – 20 (20.30 A), 21 (15.30 F), 24 (20.30 B), 28 (20.30 L), 29 (15.30 C)

Allestimento FondazioneTeatro di San Carlo, Fondazione Teatro Petruzzelli Bari, Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino

Direttore d’Orchestra Andrea Battistoni

Regia LucaRonconi (ripresa da Marina Bianchi)

Scene Tiziano Santi

Costumi Maurizio Millenotti                                                                                        

Personaggi e interpreti principali

Sir John Falstaff Carlos Álvarez (20, 24, 29)

Ford Alessandro Luongo (20, 24, 29)

Fenton Pietro Adaìni (20, 24, 29)

Mrs Alice Ford Rocío Ignacio (20, 24, 29)

Nannetta Leonor Bonilla (20, 24, 29)

Mrs Quickly Elisabetta Fiorillo (20, 24, 29)

Alle soglie degli ottant’anni, dopo una vita dedicata al tragico musicale, Verdi riscopre l’opera comica, sorprendendo tutti. E compone il suo ultimo, eccezionale capolavoro teatrale. Eccezionale non solo per la qualità della musica in sé, ma anche per la modernità della partitura e della drammaturgia musicale. Falstaff non è l’opera di un anziano compositore ottocentesco che, giunto al limite del nuovo secolo, si bea con nostalgia del proprio glorioso passato: è un’opera che guarda al futuro, un testamento lasciato ai compositori che verranno, un estremo sforzo creativo. Gli strumenti nella buca dell’orchestra sono protagonisti quanto le voci sul palcoscenico, le seguono tratteggiando per ogni personaggio e situazione dei bozzetti psicologico-musicali perfetti. La melodia e il declamato si alternano senza soluzione di continuità dando origine a un’azione che scorre fluida secondo i tempi, trattenuti o accelerati, dell’intreccio teatrale (come in Wagner, ma all’italiana e con una leggerezza ignota al grande operista tedesco). È già teatro musicale novecentesco, prefigurato in forma di commedia. Molto merito va anche ad Arrigo Boito, autore di una gemma librettistica – sia per i versi colti e raffinati che per la “sceneggiatura” innovativa – tratta da due testi di Shakespeare, Enrico IV (prima e seconda parte) e Le allegre comari di Windsor. E shakespeariana rimane, anche nell’adattamento, la morale: gli uomini non sono tutti dei santi, c’è chi vive per ingannare l’altro, ma attenzione che costui può ritrovarsi ingannato a sua volta. E non si perda la speranza: in mezzo a tante miserie umane, piccole e grandi, si possono ancora incontrare sentimenti disinteressati, come l’amore tra Fenton e Nannetta.

Il Falstaff presentato dal Carlo Felice in questa stagione è l’ultimo messo in scena da Luca Ronconi, uno dei più grandi registi italiani di prosa e lirica del secondo dopoguerra, scomparso nel 2015. Una coproduzione del 2013 tra Fondazione Teatro di San Carlo, Fondazione Teatro Petruzzelli Bari, Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, ripresa da Marina Bianchi. Un Falstaff ambientato in un vago passato, con dei semplici teloni come quinte e lo spazio scenico disegnato dagli oggetti stessi distribuiti a gruppi, che Ronconi presentò così nei giorni del debutto: «Falstaff è un personaggio astorico. È vero che appare burlone, ma è anche burlato; vive di espedienti, ma è anarchico, è squattrinato e vuole fare soldi. È vecchio, ma si sente giovane, e quindi risulta un po’ mitomane. Insomma, è tantissime cose: a me non dispiace vedergli dentro anche una sorta di infantilismo, come quelli che passano da collere furibonde a folgorazioni immediate. Quindi un carattere non estremamente coerente.»

Così fan tutte

Wolfgang Amadeus Mozart

Febbraio 2017 – 17 (20.30 A), 18 (15.30 F), 19 (15.30 C), 21 (15.30 G), 22 (20.30 B)

Allestimento FondazioneTeatro Regio di Torino

Direttore d’Orchestra Jonathan Webb

Regia Ettore Scola ripresa da Marco Scola Di Mambro

Scene Luciano Ricceri

Costumi Odette Nicoletti

Personaggi e interpreti principali

Fiordiligi Ekaterina Bakanova (17, 19, 22)

Dorabella Raffaella Lupinacci (17, 19, 22)

Guglielmo Michele Patti (17, 19, 22)

Ferrando Matteo Macchioni (17, 19, 22)

Despina Barbara Bargnesi (17, 19, 22)

Don Alfonso Gabriele Sagona (17, 19, 22)

2° cast Solisti dell’Accademia del Teatro alla Scala

Quintessenza dell’opera buffa”. Così Massimo Mila ha definito Così fan tutte, terzo titolo – e terzo capolavoro – della trilogia italiana di Mozart e Da Ponte. Ed in effetti nel libretto ci sono tutti gli ingredienti dell’opera comica di tradizione nostrana: i sentimenti nobili, ma ingenui, dei personaggi altolocati, la saggezza pratica dei servi, il cinismo dei filosofi, gli equivoci e i travestimenti. E la morale conclusiva, riassunta nel titolo ormai proverbiale, tipica della visione razionale del mondo di stampo illuminista: non c’è da illudersi, la fedeltà, in amore, è una promessa verbale puntualmente smentita dai comportamenti. Ma a ben guardare il senso di questa storia, che la musica di Mozart ci racconta in modo spiritoso quanto amaro, frivolo quanto profondo, disilluso quanto accorato e inquieto, è ancora più sottile. E non necessariamente negativo. Alla fine, Ferrando e Guglielmo sposeranno, rispettivamente, Dorabella e Fiordiligi, come doveva essere fin dall’inizio. Ma lo faranno dopo aver sperimentato la forza della tentazione a tradire, grazie alle astute macchinazioni del burattinaio Don Alfonso e della sua complice Despina. E la presa d’atto che l’amore non è eterno per definizione, ma può esserlo solo attraverso un impegno faticoso e quotidiano dei due amanti, è un bene o un male per le due coppie che, dopo tante peripezie e giochi incrociati, si ritrovano all’altare nella combinazione giusta, quella prevista all’aprirsi del sipario? Come sempre Mozart e Da Ponte non danno risposte, si limitano a fare domande, domande di cruciale importanza e ancora attuali. Ma coloro che oggi esercitano lo stesso mestiere del cinico Don Alfonso, i filosofi (e gli psicologi e i sociologi), dicono di sì: questa consapevolezza è un bene.

Il Carlo Felice presenta Così fan tutte nell’allestimento della Fondazione Teatro Regio di Torino che, nella stagione 2002-3, segnò il debutto di Ettore Scola nella regia lirica. Una produzione lodata per il garbo, l’eleganza, l’ironia, la fedeltà al testo. Un omaggio doveroso al grande regista, scomparso il 19 gennaio 2016, appena un mese dopo essere salito sul palcoscenico del Carlo Felice a raccogliere gli applausi per la sua regia di Bohème.

 

Les Ballets de Monte-Carlo

Marzo 2017 – 2 (20.30 A), 3 (20.30 B), 4 (15.30 F – 20.30 L), 5 (15.30 C)

Lac

(da Il lago dei cigni)

Pëtr Il’ič Čajkovskij

Coreografia Jean-Christophe Maillot

Scene Ernest Pignon-Ernest

Costumi Philippe Guillotel

Luci Jean-Christophe Maillot e Samuel Thery

DrammaturgiaJean Rouaud

Composizione Bertrand Maillot

Direttore d’Orchestra Nicolas Brochot

Lac, ovvero lago, semplicemente e sinteticamente. Così il coreografo Jean-Christophe Maillot, direttore de Les Ballets de Monte-Carlo, ha intitolato la sua rilettura del Lago dei cigni, un progetto meditato per dieci anni e per realizzare la drammaturgia del quale ha voluto accanto a sé lo scrittore Jean Rouaud, vincitore nel 1990 del Premio Goncourt (il massimo premio letterario francese). Da lotta tra il bene e il male, gli autori hanno trasformato la storia d’amore tra il principe Sigfried e la principessa Odette, vittima di un sortilegio che di giorno la costringe a vivere come cigno e solo di notte le fa ritrovare le sembianze umane, in uno scontro tra figure materne ambiziose e dominatrici. Le madri (anzi, le Madri) sono infatti le vere protagoniste di Lac, un Lago dei cigni che fonde balletto classico e danza moderna dando vita ad uno spettacolo drammatico, sensuale e attraversato dall’inizio alla fine da una tensione degna di un thriller.

Lac (che si avvale delle musiche originali di Čajkovskij, ma con aggiunte ad hoc di Bertrand Maillot) ha debuttato il 27 dicembre 2011 al Grimaldi Forum di Monaco, riscuotendo un grande successo sia di pubblico che di critica. L’ennesima prova della prestigiosa tradizione legata al balletto del Principato di Monaco, risalente ai primi decenni del Novecento, quando Diaghilev scelse Monte-Carlo come sede dei suoi leggendari Ballets Russes. Un’eredità mai dimenticata che, dal 1985, è stata idealmente raccolta da Les Ballets de Monte-Carlo.

 

L’elisir d’amore

Gaetano Donizetti

Marzo 2017 – 19 (20.30 A), 21 (15.30 G), 22 (20.30 B), 25 (15.30 F), 26 (15.30 C), 28 (20.30 L)

Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice

Direttore d’Orchestra Daniel Smith

Regia Filippo Crivelli

Scene Emanuele Luzzati

Costumi Santuzza Calì

Personaggi e interpreti principali

AdinaSerena Gamberoni (19, 22, 26, 28)

Nemorino Francesco Meli (19, 22, 26, 28)

BelcoreRoberto De Candia (19, 22, 26, 28)

DulcamaraAlfonso Antoniozzi (19, 22, 26, 28)

Un’opera comica e sentimentale insieme. Un melodramma giocoso (come lo definirono gli autori). Una commedia romantica (come la chiameremmo noi oggi). Nell’Elisir d’amore di Donizetti, oltre a pure maschere ereditate dalla commedia dell’arte (il soldato vanitoso e fanfarone Belcore e il dottore ciarlatano Dulcamara), ci sono infatti personaggi dotati di un cuore: Nemorino, giovane innamorato bloccato dalla timidezza, e Adina, donna consapevole della propria bellezza e del proprio fascino, ma non egocentrica né manipolatrice. Nel corso della vicenda, entrambi si metteranno in discussione e cambieranno. Cosa che alle maschere non accade, ma alle persone vere sì: Nemorino allenta i propri freni inibitori grazie a quello che crede essere un filtro d’amore (in realtà, nient’altro che una bottiglia di vino rosso), mentre Adina, alla fine, si lascia sedurre dal sentimento sincero di Nemorino, dal suo spirito di sacrificio in nome dell’amore. E scarta, saggiamente, il machismo superficiale di Belcore. Sullo sfondo di questo intreccio insieme comico e sentimentale, anche un pizzico di critica sociale: le fanciulle dell’immaginario paese dei Baschi in cui è ambientata la vicenda “perdono la testa” per l’impacciato Nemorino non grazie alla pozione magica di Dulcamara, ma perché attirate dalla fortuna economica che uno zio lascia provvidenzialmente in eredità al giovane. Il vero “filtro d’amore”, insomma, per loro è il denaro…

Il libretto, ispirato a Le philtre di Scribe, è firmato da un maestro della metrica e della rima, Felice Romani, che qui dà il meglio di sé. Anche per merito suo, l’opera ha sempre riscosso un grande successo fin dalla sua prima esecuzione, il 12 maggio 1832 al Teatro della Cannobiana di Milano. Lo stesso Donizetti fu stupito del trionfo. Probabilmente, data la solita fretta con cui lavorò alla partitura (completata in appena quattordici giorni), il compositore non si era reso conto di avere scritto una musica perfetta nel suo connubio tra levità e patetismo (di cui la celebre romanza “Una furtiva lagrima” rappresenta la summa), degna, in questo, del teatro mozartiano.

Il Carlo Felice mette in scena L’elisir d’amore in un proprio allestimento del 1994 amatissimo dalla critica e dal pubblico, conquistati fin dal debutto dello spettacolo dall’umorismo raffinato della regia di Filippo Crivelli e dall’atmosfera a metà tra la favola e il cartone animato d’autore creata dalle scene di Lele Luzzati e dai costumi di Santuzza Calì. Il carro di Dulcamara, frutto dell’inesauribile immaginazione di Luzzati, è una di quelle invenzioni scenografiche che non si dimenticano.

Don Carlo

Giuseppe Verdi

Aprile 2017 – 21 (19.00 A), 26 (19.00 B), 29 (15.30 F) 30 (15.30 C)

Maggio 2017 – 2 (15.30 G), 7 (15.30 R)

Allestimento in coproduzione tra FondazioneTeatro Carlo Felice e FondazioneTeatro Regio di Parma

Direttore d’Orchestra Valerio Galli

Regia Cesare Lievi

Scene e costumi Maurizio Balò

Personaggi e interpreti principali

Filippo IIRiccardo Zanellato

RodrigoFranco Vassallo (21, 26, 30, 7/5)

Elisabetta di ValoisDaniela Dessì (21, 26, 30, 7/5)

EboliVeronica Simeoni (21, 26, 30, 7/5)

Il Grande InquisitoreMarco Spotti

Forse in nessun’altra opera come in Don Carlo Verdi ha concentrato tutti i temi portanti del suo teatro musicale: il potere, con i suoi onori e oneri, l’amore contrastato, al punto da essere un amore impossibile, il conflitto tra il mondo dei padri e quello dei figli, il popolo oppresso che rivendica la propria libertà. E una questione delicatissima tanto nell’epoca in cui è ambientato il libretto (l’Europa della seconda metà del Cinquecento) quanto in quella contemporanea a Verdi: la ragion di stato contro quella dell’altare – da una parte l’Impero, insomma, e dall’altra la Chiesa. Filippo II, potentissimo re di Spagna, sposa in seconde nozze Elisabetta di Valois, per rinsaldare i rapporti del suo paese con la Francia. Ma Elisabetta era promessa al figlio di Filippo, Carlo, e continuerà ad amare il giovane, ardentemente ricambiata, di un amore che non può essere vissuto. La situazione genera un conflitto fortissimo, lacerante, tra il padre e il figlio, acuito dalle posizioni politiche di Carlo, Infante illuminato schierato dalla parte del popolo. Filippo arriva persino a progettare l’eliminazione fisica del figlio, con l’avvallo del Grande Inquisitore, figura inquietante già nell’aspetto fisico (cieco e nonagenario), degna di un graphic novel dalle atmosfere gotiche. Una vicenda tesa, come fatti che si susseguono e come dinamiche psicologiche in atto, dalla prima all’ultima scena. E con anche, alla fine, un tocco di sovrannaturale…

In una partitura in cui l’orchestra è protagonista non meno dei cantanti (e che, da questo punto di vista, apre la strada all’ultimo stile verdiano), i momenti memorabili, teatralmente e musicalmente, non si contano: “Ella giammai m’amò”, soliloquio in cui Filippo II da re diventa uomo come tutti nel momento in cui si rende conto di essere vecchio, solo e non amato dalla moglie; il dialogo tra Filippo e il Grande Inquisitore, incontro-scontro tra due bassi il cui colore scuro (e oscuro) è trattato da Verdi come l’incarnazione vocale delle rispettive autorevolezze; il duetto finale tra Carlo ed Elisabetta, mistico e visionario, in cui i due protagonisti si rendono conto che solo nell’immaginazione possono realizzare i desideri che la realtà nega loro. Un’opera potente, fiera, e, al tempo stesso, toccante e commovente: le emozioni del melodramma al loro apice.

Tratto dal dramma di Schiller Don Carlos, Infante di Spagna, il Don Carlo di Verdi debuttò all’Opéra di Parigi (in lingua francese) nel 1867 e fu poi sottoposto dall’autore a numerose revisioni in vista delle riprese italiane (Milano, Scala, 1884; Modena, Teatro Comunale, 1886). Al Carlo Felice va in scena in un allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Parma affidato al regista, poeta, traduttore e drammaturgo Cesare Lievi.

 

Maria Stuarda

Gaetano Donizetti

Maggio 2017 – 17 (20.30 A), 18 (20.30 L), 20 (15.30 F), 21 (15.30 C), 24 (20.30 B), 28 (15.30 R)

Allestimento in coproduzione tra FondazioneTeatro Carlo Felice e FondazioneTeatro Regio di Parma

Direttore d’Orchestra Andriy Yurkevych

Regia Alfonso Antoniozzi

Scene Monica Manganelli

Costumi Gianluca Falaschi

Luci Luciano Novelli

Personaggi e interpreti principali

Elisabetta Sonia Ganassi (17, 21, 28)

Roberto, Conte di Leicester Celso Albelo (17, 21, 24, 28)

Giorgio Talbot Andrea Concetti (17, 21, 24, 28)

L’opera, da sempre, mette in scena sentimenti vigorosi e passioni assolute. Maria Stuarda di Donizetti ne è un esempio estremo. Nel confronto tra le due regine del secondo atto, il momento di massima tensione della vicenda, Elisabetta I d’Inghilterra rimprovera alla cugina Maria Stuarda i suoi comportamenti privati e politici e questa le risponde con una violenza verbale che non ha paragoni nella librettistica dell’epoca: epiteti che Maria Malibran, prima interprete del personaggio di Maria Stuarda nel debutto dell’opera alla Scala (1835), insistette per cantare, scatenando la reazione delle autorità, che cancellarono il titolo dal cartellone dopo appena sei repliche: uno dei casi più celebri di censura nella storia dell’opera. La trasgressione linguistica alle buone norme del linguaggio librettistico era dovuta, probabilmente, all’inesperienza dell’autore del testo (tratto dalla tragedia omonima di Schiller), Giuseppe Bardari, appena diciassettenne. Un’incoscienza giovanile provvidenziale, perché, grazie a Bardari (che diventerà un magistrato e un patriota ammirato da Garibaldi), Maria Stuarda contiene la scena più forte tra due figure femminili in tutta la storia dell’opera: uno di quei momenti in cui Donizetti, capace di leggerezza come nell’Elisir d’amore e nel Don Pasquale, precorre il Verdi più drammatico. Già verdiana è anche l’opposizione tra i sentimenti privati e le cariche pubbliche, così come la messa in gioco, nelle vicissitudini dei singoli, di valori collettivi di importanza storica: la protestante Elisabetta contro la cattolica Maria Stuarda. Ma Maria Stuarda è soprattutto l’ennesimo omaggio di Donizetti alla donna, alla sua profondità emotiva e alla sua ricchezza caratteriale, tradotte in musica attraverso lo stile del belcanto: Maria come Anna Bolena, come Lucia, come l’Elisabetta del Roberto Devereux.

Il capolavoro di Donizetti va in scena in un allestimento coprodotto dal Teatro Carlo Felice e dal Teatro Regio di Parma ed è il secondo capitolo del ciclo delle “tre regine” donizettiane, iniziato nella scorsa stagione con Roberto Devereux, la cui regia è interamente curata da Alfonso Antoniozzi.

 

Turandot

Giacomo Puccini

Giugno 2017 – 16 (20.30 A), 17 (15.30 F), 18 (15.30 C), 20 (20.30 L), 21 (20.30 B), 22 (20.30 F.A.), 25 (15.30 R)

Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice

Direttore d’Orchestra Giuseppe Acquaviva/ Alvise Casellati (20, 21 e 22)

Regia Giuliano Montaldo

Scene Luciano Ricceri

CostumiElisabetta Montaldo Bocciardo

Luci Luciano Novelli

Personaggi e interpreti principali

Turandot Norma Fantini (16, 18, 21)

CalafRudy Park (16, 18, 21, 25)

Liù Serena Gamberoni (16, 18, 21)

Timur Bálint Szabó (16, 18, 21, 25)

Turandot, il testamento di Giacomo Puccini, è anche la sua opera più innovativa, quella con cui il compositore cercò di tenere il passo con ciò che di più avanzato stava accadendo nel teatro musicale europeo a lui contemporaneo (a partire da Richard Strauss), di cui era perfettamente a conoscenza grazie alla sua inesauribile curiosità musicale. Già l’argomento è inconsueto per Puccini: una fiaba “cinese” che i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni trassero dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi (1762), con protagonista non una donna reale, come Mimì, Manon o Butterfly, ma un’algida principessa che dispensa morte per due terzi dell’opera. Il nuovo, ultimo viaggio è talmente inconsueto che, per affrontarlo, Puccini si rimette a studiare: scova inedite suggestioni orientali diverse da quelle di Butterfly, meno ammalianti e seducenti, più aspre e dure. Scopre le possibilità espressive della dissonanza emancipata sperimentate da Schönberg. E si aggiorna sullo stile dei compositori italiani successivi a lui di una generazione, Malipiero e Casella in particolare. Il risultato è una partitura in cui l’orecchiabile “Nessun dorma” è controbilanciata da intere sezioni in cui l’orchestra assume il colore del ferro. E dove alle dolcezze vocali di Liù, la vittima che si sacrifica per il bene dell’amato principe Calaf, risponde il canto tortuoso di Turandot. O dove macchiette fumettistiche come i ministri dell’imperatore Ping, Pong e Pang sono subito sostituite da scene musicali di luminosità siderale. Una partitura che, per questi motivi, ha sempre esercitato su tutti, amanti e non di Puccini, un fascino quasi stregonesco.

Turandot andò in scena per la prima volta alla Scala il 25 aprile 1926. Dopo “Tu che di gel sei cinta”, intonato da Liù morente nel terzo atto, Toscanini depose la bacchetta annunciando al pubblico che l’esecuzione si fermava in quel punto per la morte dell’autore. Il completamento più eseguito è quello di Franco Alfano, basato sugli appunti originali di Puccini, ma dal 2001 esiste anche il finale di Luciano Berio, che è partito dagli stessi schizzi, interpretandoli diversamente. Al Carlo Felice l’estremo capolavoro di Puccini va in scena nell’ormai classico, applauditissimo allestimento di Giuliano Montaldo.

 

Aterballetto

Luglio 2017 – 6 (20.30 A), 7 (20.30 B), 8 (20.30 L), 9 (15.30 C)

L’eco dell’acqua

Coreografia e ideazione scena Philippe Kratz

Musica Federico Albanese, Jonny Greenwood, Howling, Arvo Pärt,

SufjanStevens, The Haxan Cloak

Costumi Costanza Maramotti e Philippe Kratz

Sound design OOOPStudio

Luci Carlo Cerri

Non soltanto il tempo scivola via. Come l’acqua, secondo Goethe, anche l’anima dell’uomo. E il corpo? A volte i corpi piovono sui campi come le pesanti nuvole di polvere raccontate da Goethe in una delle sue più belle liriche, Canto degli spiriti sulle acque. Da questa lettura di Goethe e all’episodio dell’abbattimento di un aereo civile in Ucraina da parte di un missile militare nasce L’eco dell’acqua, nuova coreografia di Philippe Kratz per Aterballetto. Nella prima parte, è la folla inconsapevole che raggruma in simmetrie complesse l’idea di una esposizione alla confusione, al disordine. Nella frase finale, che ha al centro un soggetto che insiste sulla verticalità del suo spazio, la pluralità del gruppo si aggiunge liberamente al conteggio di questa moltitudine, destinata a seguire non più una logica lineare, ma forse evolvendosi in flussi di divenire come fossero spontanee auto-organizzazioni. La riflessione sul destino dell’uomo, associata all’immagine dei corpi inconsapevoli che precipitano per aria, ha il profilo di un monito allegorico. Non è possibile alcun accesso alla sintonia con il mondo per chi partecipa inconsapevole, soltanto con avidità e senza alcun amore, alle contingenze e alle parzialità dell’esistenza.

14’ 20’’

Coreografia, scene e costumi Jiří Kylián

Musica Dirk Haubrich

Scene Jiří Kylián

Costumi Joke Visser

Luci Kees Tjebbes

«Il titolo 14'20" deriva semplicemente dalla durata di questo pezzo. Si tratta, infatti, di una parte dell’opera originale intitolata 27'52". La nostra vita sembra essere scandita dal tempo, ma “tempo” è un termine astratto: non sappiamo cosa sia il tempo. Abbiamo creato macchine che misurano il tempo in maniera molto più accurata rispetto a prima. Questo aspetto è sicuramente molto importante, ma diversi filosofi ci dicono che il “tempo” non esiste, ci insegnano che il “tempo” è solo un’invenzione degli esseri umani. Tutto ciò è possibile, ma una cosa è certa: il nostro tempo è scandito da due brevissimi momenti, il momento in cui nasciamo e quello in cui moriamo. L’opera che ho realizzato non riguarda solo il “tempo”. Affronta anche altri temi quali la “velocità”, l’“amore” e l’“invecchiamento”. In effetti è tutto molto semplice, ma anche incredibilmente complicato e, di sicuro, totalmente inspiegabile.» (Jiří Kylián)

BLISS

Coreografia di Johan Inger

Musica Keith Jarrett

Scene Johan Inger

Costumi Johan Inger e Francesca Messori

Luci Peter Lundin

Assistente alla coreografia Yvan Dubreuil



«Il punto di partenza di questo nuovo spettacolo, Bliss, è la musica del Köln Concert di Keith Jarrett, che, oltre che il sottoscritto, ha inspirato e toccato milioni di persone grazie al suo perfetto tempismo nell’attirare una generazione che si muoveva da una parte all’altra della propria vita. Il mio compito, insieme a quello dei danzatori, è quello di raccontare come ci relazioniamo con questa musica iconica. Nel modo in cui incontriamo questa musica con gli occhi di oggi è presente sia una sfida compositiva che emotiva. Oggi mi è stato chiesto di dare un’idea di cosa sarà il mio lavoro, ma la verità dello spettacolo dovrà essere scoperta attraverso il mio incontro con i danzatori  e, insieme, dal nostro incontro con la musica del Köln Concert.  Quindi eccoci qui, tutti quanti, non importa quale sia la nostra esperienza. Siamo “principiante” l’uno nei confronti dell’altro e nei confronti della musica che darà voce a questo nuovo incontro.» (Johan Inger)


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.