Amore e morte a Firenze
di Roberta Pedrotti
Wilde e Dante, Zemlinsky e Puccini, una morbosa vicenda di Eros e omicidio e una macabra beffa che costa la dannazione eterna ma garantisce la felicità di una giovane coppia: Eine florentinische Tragödie e Gianni Schicchi si presentano in coppia al pubblico del teatro Regio di Torino. Trascinano al trionfo l'intera produzione il geniale Alessandro Corbelli e gli splendidi Serena Gamberoni e Francesco Meli nell'opera di Puccini.
TORINO, 23 marzo 2014 - Dopo l'impegnativo 2013 verdiano e wagneriano, e prima dei due attesissimi appuntamenti con il monumentale Rossini del Guillaume Tell e l'ironico neoclassicismo di Stravinkij e The rake's progress, il Teatro Regio di Torino ha consacrato i mesi di febbraio e marzo a Puccini, in un percorso certamente assai popolare, ma non privo di raffinatezze. Madama Butterfly nel raggelante, intelligentissimo, allestimento di Damiano Michieletto (una delle realizzazioni teatrali più acute e terribili, rivelatrici e profonde del capolavoro pucciniano) e Turandot secondo lo sfarzoso immaginario fiabesco e orientale di Giuliano Montaldo hanno declinato due aspetti dell'Oriente sognato dal melodramma italiano di un secolo fa, e lo ha fatto, giustamente, mostrando due modi di far teatro che solo a superficiali appaiono come i vessilli della modernità o dell'innovazione. Il buon teatro si distingue – sembrerà a qualcuno banale e stucchevole ripeterlo, ma l'esperienza conferma che non è mai vano – dalla capacità di creare uno spettacolo efficace, coerente, ben recitato, ben gestito in tutti i suoi aspetti, a prescindere dall'iconografia di riferimento o dalla chiave di lettura proposta. Completava la trilogia tragica la ripresa di Tosca, resa quest'anno particolarmente appetibile dalla direzione di Renato Palumbo e dal debutto di Anna Pirozzi nel ruolo della cantatrice romana su un importante palcoscenico.
Come nell'antichità classica, alle tre tragedie (fra le quali, per i copioso sangue sparso a dispetto del lieto fine inseriamo serenamente in questo contesto anche Turandot) segue la commedia: Gianni Schicchi, che dopotutto fu concepita come sorridente chiusa dopo l'efferatezza disperata del Tabarro e il lirismo doloroso di Suor Angelica. Ancora una volta, la breve opera ispirata a Dante non trova la compagnia delle sorelle, bensì di Eine florentinische Tragödie di Zemlinsky.
Una scelta in primo luogo conveniente in termini di attrattiva sul pubblico, perché, si sa, una larga fetta di melomani si mostra ancora diffidente verso ciò che non conosce e già in passato a Torino si erano affiancati con profitto i Pagliacci e Der Zwerg (sempre di Zemlinsky), Cavalleria rusticana ed Oedipus Rex di Stravinskij. Al suo debutto sabaudo, l'atto unico tratto da Wilde, ha goduto così, se non dell'esaurito dei titoli di maggior richiamo, di un pubblico comunque piuttosto folto e, soprattutto, attento e soddisfatto. Al di là del fine pragmatico, poi, e dell'affinità dell'ambientazione in una Firenze medievale o rinascimentale, il confronto diretto fra Puccini e i contemporanei è sempre stimolante e foriero di riflessioni sul valore e la collocazione storica del grande Toscano.
Il sipario si leva dunque dapprima sulla tragedia, estetizzante e decadente, che se non fosse stata scritta Wilde potrebbe essere parto di D'annunzio o di un epigono parimenti imbevuto di Nietszche maldigerito: Bianca disprezza il marito mercante, il tipico inetto borghese, e intreccia una sensualissima relazione con il principe Guido Bardi; scopertili, il tradito fa buon viso e, anzi, da grottesco affarista propone la sua merce e cerca l'amicizia di un potente utile ai suoi commerci, ma, di fronte alla sprezzante superiorità del gagliardo Guido, infine lo uccide a mani nude. Proprio questo gesto riaccende la passione fra i coniugi: Bianca riconosce finalmente nell'omicida Simone un superuomo fisicamente potente, Simone in Bianca, proprio in virtù del suo tradimento, una donna dal forte richiamo erotico. Per questo lascia perplessi la scelta del regista Vittorio Borrelli di far strangolare entrambi gli amanti: l'uxoricidio vindice è senza dubbio coerente con la situazione, ma meno con la perversa, morbosa poetica cui appartiene a tutti gli effetti questo testo. Per il resto il lavoro dello storico, preziosissimo collaboratore del Regio è lineare, chiaro, accurato, appropriato sia nell'ambientazione novecentesca, sia nell'atmosfera teterrima e nell'utilizzo della simbologia espressionista della Luna (luci ed effetti video a cura di Luca Zilovich).
Da parte sua Stefan Anton Reck si concentra sull'aspetto puramente strumentale, lavorando sulla peculiarità descrittiva, quasi didascalica con cui Zemlinsky aderisce al preziosismo verbale di Wilde: ecco lo scintillìo dei ricami e delle pietre preziose, gli arabeschi dei tessuti, il suono del liuto, i vortici delle tenebre e degli amplessi, le ombre torbide nelle luci fioche delle candele e degli astri spettrali. Manca la ricerca di una tensione crescente, una vena più ironica e sarcastica che renda veramente insostenibile l'atmosfera di fasulla commedia (il cornuto che incassa compiacente il disprezzo dell'amante della moglie e ricambia con grottesche moine) destinata a esplodere in sanguinoso parossismo. Sia nella regia sia nella direzione pare ci si fermi alla correttezza di una buona lettura, anche con buoni spunti, senza però cercare di rendere una drammatugia più sottile, più inquietante, più livida e angosciosa, anche e soprattutto nelle sue divagazioni decorative, che dilatano vieppiù l'attesa della vendetta di Simone. Questi è interpretato da Mark Doss, al solito intelligente specialista di questo repertorio, attento a dosare un fraseggio misuratissimo, con un'emissione più lieve, quasi colloquiale, all'inizio, e più ruvida e tagliente nel finale. Zoran Todorovich presta il suo canto spinto e stentoreo al tracotante Guido, il cui prepotente erotismo si esprime comunque più con esplosioni muscolari che con sottigliezze musicali. Non dispiace che la parte di Bianca sia, per quanto impegnativa dal punto di vista teatrale, piuttosto esigua nell'impegno vocale, giacché Ángeles Blancas Gulín conferma un'emissione piuttosto disordinata, con una tenuta musicale non impeccabile.
Spenti i due amanti, il sipario si leva ora su un altro quadro macabro, con le lamentazioni funebri al capezzale di Buoso Donati. Siamo ancora nel Ventesimo secolo e alle nere librerie della dimora di Simone si sostituisce, sempre nelle scene di Saverio Santoliquido e Claudia Boasso, un salotto cremisi, elegante quanto allusivo ad atmosfere infere. Il gruppo dei parenti è ben assortito e ben caratterizzato, grazie ai costumi a cura di Laura Viglione oltre che alla salda mano registica di Borrelli. Silvia Beltrami è ormai la Zita per antonomasia dei nostri giorni, Luca Casalin porta la sua esperienza di veterano come Gherardo, Fabrizio Beggi si fa notare come Betto più simpatico e accattivante del solito (ha l'aria infatti del parente più povero e originale), Gabriele Sagona è un Simone distinto e altezzoso, così come suo figlio Marco, interpretato dall'omonimo Camastra. La fitta schiera, quasi corale, è completata degnamente da Maria Radoeva, Nella un tantino asprigna, Alessandro Busi, Spinelloccio e Amantio ben fraseggiati e differenziati, Ryan Milstead e Giuseppe Capoferri, Pinellino e Guccio, e Anita Maiocco, il piccolo Gherardino. Dispiace solo la vocalità fin troppo stridula di Laura Cherici, Ciesca visibilmente a disagio nella sua nuova veste mezzosopranile.
Nei tre ruoli principali, però, il Regio ha avuto l'accortezza di coinvolgere un tris d'assi d'assoluta eccellenza. Francesco Meli e Serena Gamberoni per Rinuccio e Lauretta sono un autentico lusso e un puro godimento [guarda l'intervista]. Il tratto spavaldo di lui - bravo ragazzo ma pur sempre della schiatta dei Donati e come loro interessato all'eredità, seppure per un'ottima ragione - viene temperato dalla dolcezza di lei, che però dimostra subito di non essere un'ingenua, lamentosa ragazzina, ma di saper gestire benissimo padre e fidanzato, con feminilissima consapevolezza. Davvero sarebbe difficile immaginare coppia meglio assortita, più complice in un gioco scenico naturalissimo, fatto di continui stimoli reciproci: la loro freschezza nel porgere canto e gesto resi indissolubili dà concretezza a quella gioventù tenera e poetica, ma anche volitiva e intraprendente, che i due innamorati rappresentano come speranza futura dopo la generazione meschina degli avidi Donati.
Il futuro d'altra parte è propiziato da un deus ex machina quale lo Schicchi di Alessandro Corbelli, che sembrerebbe quasi divertirsi costringendoci all'esercizio retorico della ricerca di superlativi adeguati alla sua arte. Al suo primo apparire pare sia entrato un gigante della scena, tuttavia un gigante così intelligente da non soffocare con il suo carisma la commedia, ma di porlo totalmente al servizio di un magnifico meccanismo teatrale collettivo di cui è inevitabilmente il cardine. La sua immensità d'attore, la capacità di giocare su dettagli quasi impercettibili lo renderebbero uno dei più grandi interpreti d'ogni tempo anche se rimanesse in silenzio: cosa mai possiamo aggiungere quando tanta arte e tanta intelligenza prendono forma in un canto così limpido, forte di una tecnica sopraffina e capace di piegare in ogni accento, in ogni colore, in ogni più sottile inflessione un timbro di rara bellezza e nobiltà, il timbro di un vero, elegantissimo cantante attore di classe superiore? Chiniamo la fronte al musicista e all'uomo di teatro che ci restituisce uno Schicchi autentico, concreto, simpatico, ma anche capace d'inflessioni sulfuree e inquietanti (dopotutto il finale rivela che l'opera non era altro che il racconto del dannato e Puccini in “In testa la cappellina” ben l'aveva fatto intuire), pronto di spirito, abilissimo, tuttavia non istrionico nel senso comune del termine. Molto di più. È la scaltrezza di un Figaro maturo, consapevole e pronto a “sfidar l'eternità”.
A trent'anni esatti dal suo debutto a Torino, con L'ajo nell'imbarazzo di Donzetti, Corbelli ci impartisce un'altra lezione d'intelligenza artistica e non possiamo non essergliene profondamente grati.
Così è grato il pubblico, che dimostra di gradire l'accostamento e applaude con entusiasmo tutti gli interpreti, riservando naturalmente il maggior calore all'entusiasmante terzetto di stelle impegnato in Puccini.