L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Al tramonto dell'opera buffa

di Roberta Pedrotti

G. Verdi Un giorno di regno

Loconsolo, Antonacci, Bordogna, Porta, Marianelli, Magrì

direttore Donato Renzetti

regia scene e costumi di Pierluigi Pizzi

Orchestra e coro del teatro Regio di Parma

Parma, Teatro Regio, 31/I/2010

DVD Unitel Classic 720208, collana TUTTO VERDI, 2012

Circolano tante leggende intorno al preteso fallimento di Un giorno di regno, come se un insuccesso al debutto possa considerarsi vero indice della qualità di un'opera. Si è disquisito del difficile momento vissuto da Verdi in coincidenza con la morte della prima moglie e dei figlioletti, del fatto che il libretto fosse datato e già noto, che il genere buffo sia poi stato abbandonato dal compositore fino al ritorno alla commedia con Falstaff. Tuttavia basta soffermarci sull'opera in sé per riconoscere semplicemente un buon lavoro, musicato con talento acutissimo sui versi di uno dei più grandi librettisti del primo Ottocento italiano, Felice Romani, ma storicamente collocato già al tramonto di un genere che non incontrava più il favore del pubblico e, almeno in parte, il temperamento dell'autore quanto invece il dramma romantico. La contingenza storica le fu avversa, ciò nonostante, se anche non sarà un capolavoro, Un giorno di regno è una bella opera, di buona costruzione teatrale, con personaggi ben caratterizzati, scrittura raffinata e senza cadute di tensione. Convenzionale, forse, ma sempre ad alto livello e tendente a un'idea di commedia umana e di carattere che si iscrive nella naturale evoluzione della migliore opera buffa. La marchesa del Poggio è una vedova di spirito, ovvero una giovane donna con alle spalle un matrimonio di convenienza con un uomo ricco e anziano che dispone ora pienamente del patrimonio, della propria esperienza e della propria indipendenza, come Norina nel Don Pasquale o Clarice nella Pietra del paragone, ma non manca di esprimere anche incertezze e malinconie. La seconda donna, Giulietta, esordisce come timida fanciulla innamorata, ma il piglio deciso della cabaletta della cavatina, “Non vo' quel vecchio, non son sì sciocca”, anticipa già la dimostrazione di temperamento che non sente ragioni fuor dalla sua volontà del duetto con Edoardo nel secondo atto. Quest'ultimo è un giovanotto serio e onesto, anche ardimentoso, ma in fin dei conti meno risoluto e volitivo dell'amata. La bonomia galante e gaudente del Cavalier Belfiore, la sua disinvolta nonchalance, non escludono un sentimento d'onore che dallo spirito cavalleresco ci trasporta direttamente a un'idea moderna di responsabilità e senso dello Stato e fa il paio con i tipi caratteristici dei due buffi, che delineano però anche l'orgoglio di casta reazionario già aristocratico e ora borghese e il concreto opportunismo del capitalista. Purtroppo nel caso di questa edizione l'interesse è pressoché circoscritto all'efficacia dell'esperta bacchetta di Donato Renzetti e al bellissimo allestimento di Pierluigi Pizzi, ormai un classico che non sa di maniera, ma profuma di foschia invernale e caldi aromi di cucina, che scintilla di costumi dagli splendidi colori puri e complementari, monocromi o con dettagli e accessori in raffinato contrasto. L'eleganza del miglior Pizzi delinea un gioco scenico chiaro e saporito, un allestimento di gusto, leggiadria e piacevolezza rare, in cui l'estetica va di pari passo con la teatralità. Unica superstite del bel cast originale della prima produzione del 1997 è Anna Caterina Antonacci, e risulta anche a distanza di anni difficile immaginare un'altra Marchesa, soprattutto in una lettura come questa, pensata su misura per la bella e carismatica artista. Forse la sua voce potrà aver perso un po' di smalto, ma mantiene intatto tutto il suo fascino di primadonna (e somma tragédienne) anche brillante, introspettiva o autoironica. La scena del bagno è ormai un simbolo di questa produzione, ma tutta l'opera conferma l'Antonacci come Marchesa di riferimento senza tema di rivali. L'altro buon elemento in campo è Paolo Bordogna, un Tesoriere ancora piuttosto giovane, non ancora al pieno della maturità artistica, ma già attore gustosissimo, cantante di ottima resa in una parte di buffo già proiettata verso una vocalità più piena e schiettamente baritonale. Chi invece proprio non riesce a soddisfare è il protagonista, il Cavalier Belfiore e finto Stanislao, ovvero il baritono Guido Loconsolo: emissione costretta, adenoidea, costantemente indietro e per questo limitatissima musicalmente financo nell'intonazione. Pena assai già nella cavatina che dovrebbe invece dispiegarne con disinvoltura il carattere franco d'uomo d'onore e di buon cuore ma non insensibile ai piaceri della vita, né si rinfranca in seguito, siglando una prova ampiamente insufficiente. Non migliora le cose l'altro giovane amante fortunato, il tenore Ivan Magrì che presta a Edoardo un'emissione spinta e monocorde, afflitta da un fastidioso vibrato e, anche nel suo caso, da un'intonazione poco cristallina. Più riuscita, almeno per quanto riguarda la definizione del personaggio, la prova di Alessandra Marianelli come Giulietta, anche se il canto difetta di morbidezza e legato e gli acuti già mostravano il fianco facendosi taglienti. Il di lei padre, e altro buffo nella distribuzione, Barone di Kelbar è Andrea Porta, sostanzialmente corretto, anche se un pizzico di personalità in più avrebbe certo giovato alla prosopopea dell'orgogliosissimo nobiluomo bretone, baritono oggetto d'ironia più che comico tout court. Davvero un'occasione perduta, perché la scrittura vocale non è proibitiva, ma richiede comunque a tutti gli interpreti di saper combinare tratti d'intensità romantica con lo spirito dell'opera buffa rossiniana e donizettiana, di render la commedia con un retrogusto nuovo e diverso, leggermente malinconico, ma pure con sorridente senso del gioco. Un cast migliore, che faccia dell'eccellenza teatrale la regola e non l'eccezione, che risponda con scioltezza alle esigenze della partitura per sensibilità musicale più che per atletismo, avrebbe pienamente riscattato un'opera ingiustamente negletta. Così ci restano isolate prove interessanti in una cornice visiva magnifica, e null'altro. Un vero peccato nell'ambito di una così importante celebrazione verdiana. La realizzazione è comunque assai curata, con regia video e comparto tecnico sempre soddisfacenti e sottotitoli in italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, cinese, giapponese e coreano.


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