L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Legno di Lipsia

 di Roberta Pedrotti

 

Il cambio improvviso e forzato del primo violino non è certo una buona notizia per il Quartetto Leipziger, in concerto a Bologna. Tuttavia l'atmosfera della Regia Accademia Filarmonica conferisce a ogni serata di musica e a ogni visita un fascino impagabile.

BOLOGNA 6 maggio 2015 - Una premessa è d'obbligo, quando ci si affaccia alle attività dell'Accademia Filarmonica di Bologna, tuttora fregiata del titolo di Regia, retaggio dovuto a una nobiltà autentica, a un prestigio che non dimentica la sua storia, non ne fa un fardello, ma un retaggio cui si guarda con affetto pari alla sua altezza. A ogni passo, nella storica sede di via Guerrazzi, si sente una stretta al cuore, leggendo i nomi e incontrando le tracce di quanti, dal 1666 a oggi, ci hanno preceduti un quelle sale: Perti, Colonna, Farinelli, padre Martini, Mozart, Rossini, Verdi, Wagner, la famiglia Puccini, Liszt, Brahms, solo per citarne alcuni. Non ci sentiamo, però, intimoriti come al cospetto d'autrevoli spettri, ma parte della storia, di una storia viva che non è fatta solo di nomi e date, che non è passata ma ci accompagna ogni giorno nel segno dell'arte.

La sala Mozart al pianterreno non è solo un luogo perfetto per i concerti da camera, ma vibra ancora dell'emozione che assale quando, varcando la soglia, si rammenta che proprio lì il quattordicenne Wolfgango Amadeo sostenne l'esame per l'aggregazione con il famoso compito poi corretto da padre Martini, che aveva riconosciuto il talento formidabile del ragazzo a dispetto di alcune soluzioni accademicamente scorrette.

Come in una fiaba, rispetto agli ideali repubblicati della quotidianità, l'Accademia Filarmonica di Bologna è Regia perché veramente Regina, d'antichissima e aurea nobiltà, Regina benevola e accogliente, orgogliosa nonostante le alterne fortune cui – innegabilmente – negli ultimi tempi un'istituzione culturale deve far fronte.

La stagione concertistica è discreta ma ricca di appuntamenti alcuni dei quali davvero preziosi; fra questi un breve ciclo di tre appuntamenti con il Quartetto d'archi.

In quest'ambito si esibisce, dunque, il Quartetto Leipziger e la curiosità è moltissima, trattandosi di ex prime parti dell'Orchestra della Gewandhaus, della quale recano in eredità una materia prima sonora di fascino indiscutibile. È legno caldo, pregiato, accarezzato da quell'umidità che ancora non lo guasta, ma ne esalta la fragranza. Un legno talora dorato, ma non scintillante, bensì come sabbiato, che non abbaglia ma avvolge di morbida, lieve luce.

Questa la materia prima che abbiamo sentito levigare e plasmare dall'Orchestra e dai suoi migliori direttori. Questa la materia prima che nel Quartetto sembra invece presentarsi in forma più grezza, dai tratti rudi, lasciando trasparire schegge, venature, una lavorazione ancora dura, spigolosa, energica. Una tensione continua, quasi ansiosa, nella luce che si poggia ed enfatizza tutte le irregolarità della pregiata materia prima al suo stato originale, perfino un po' ribelle, appena incalzato da pialle e scalpelli.

Una scelta estetica decisa, anche suggestiva e che, in ogni caso, non può lasciare indifferenti, ma che, purtroppo, è stata colpita dalla peggiore avversità che possa capitare a un quartetto d'archi: la necessità di sostituire in extremis il primo violino. Impossibilitato a essere presente per cause di forza maggiore il titolare Stefen Arzberger, infatti, si è convocato il collega Conrad Muck, già in forze al Quartetto Petersen, ma di cui non risultano precedenti collaborazioni con i Leipziger. È ovvio che in una situazione del genere nessuno possa dare il meglio di sé e come l'aspetto materico di questo suono possa esporre a più di un rischio là dove non sia gestito e domato con perfetto affiatamento, condivisione, profonda esperienza comune.

Emerge soprattutto il suono di Mathias Moosdorf, violoncello e vero alfiere timbrico della peculiarità sassone di questo legno denso, pregiato e robusto. Con lui Ivo Bauer alla viola e Tilman Büning, secondo violino. Muck sembra talora colto dall'emozione, con qualche impaccio che fa mancare un saldo punto di riferimento all'insieme, ma è facile imputare la difficoltà a una situazione anche psicologicamente dura da affrontare per tutti i musicisti. Un Quartetto è, in fondo, come una famiglia, e sostituirne un membro improvvisamente e contro la volontà di tutti i diretti interessati è senza dubbio un peso per superstiti, sostituto e sostituito. Speriamo davvero che, dopo queste giornate convulse, ogni vicenda si componga nel modo più giusto e felice per tutti.

Il programma è variato rispetto a quello previsto in origine con Arzberger e la Grande fuga di Beethoven prende il posto del Quartetto n. 6 in Fa minore op.80 di Mendelssohn, il Quartetto il La maggiore op. 41 n.3 di Schumann sostituisce quello in Mi bemolle maggiore op. 109 di Max Reger, mentre di Brahms invece del Quartetto n. 1 in Do Minore abbiamo il n. 2 in La minore. Brano quest'ultimo che chiude ufficialmente la serata e ne risulta il più riuscito, forse per maggior consuetudine dei singoli e per un crescente affiatamento nel corso del concerto seppur in situazione d'emergenza.

Con grande compostezza il Quartetto ringrazia il pubblico con un fuoriprogramma bachiano. Applausi e quindi uno splendido momento di ospitalità nelle sale storiche dell'Accademia. Cordialissima cena in piedi – con quel pizzico di calore casalingo sempre apprezzabile – per pubblico, Accademici e artisti, fra cimeli, ricordi, aneddoti che costituiscono il vero sapore materiale e immateriale che rende la storia e l'arte vive ed eterne.


 

 

 
 
 

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