L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Verdi con la testa e con il cuore

 di Roberta Pedrotti

 

Il Festival Verdi coglie nel segno con la celebrazione del compleanno del compositore eponimo con il trionfo di un concerto che è insieme una lezione di stile, intelligenza e musicalità come ci si aspetterebbe da un Festival e una festa emotivamente coinvolgente anche per l'animo loggionistico più viscerale.

PARMA 10 ottobre 2015 - Anche quando il Verdi Festival si svolgeva in primavera avanzata, il 10 ottobre restava appuntamento irrinunciabile e fondamentale su cui concentrare idee ed energie. Nemmeno quest'anno è mancata un'attenzione speciale al giorno del compleanno di Verdi, distribuita fra il debutto del Rigoletto dei giovani a Busseto (protagonista Hayato Kamie, già Conte di Luna nel Festival 2011 e Stankar nello Stiffelio della primavera seguente, Carlos Cardoso come Duca e Daniela Cappiello come Gilda diretti da Fabrizio Cassi con la regia di Alessio Pizzech) e il concerto di Gregory Kunde e Vittorio Vitelli al Regio. Concerto, questo, che, per quanto fosse accompagnato dal solo pianoforte, ha costituito il migliore coronamento dell'anniversario, confermando tutte le attrattive destate dalla locandina, sia per le voci sia per il programma, che spaziava in tutto l'arco della produzione verdiana, da Ernani a Otello.

Apre la serata Vittorio Vitelli, con l'aria di Ezio dall'Attila ed è un piacere ritrovare il baritono piceno nella piena maturità dei suoi mezzi, decisamente sottoutilizzati dai nostri teatri, per i quali sarebbero una preziosa risorsa nel repertorio verdiano. Il timbro è schietto, naturalmente virile, l'impostazione salda, convincente per proiezione, estensione, autorità. “Pietà, rispetto, amore” e “Pari siamo” confermano il valore di Vitelli, così come i due grandi duetti con Kunde, “Invano Alvaro” e “Si, pel ciel marmoreo giuro”, mentre un po' inferiore risulta la resa in “O de' verd'anni miei”, anche a causa della prova di Beatrice Benzi, che non si annovera fra quei pianisti in grado di trasformare l'accompagnamento del canto in un'esperienza musicale di autentico sostegno e stimolo, oltre che d'intima collaborazione, per il cantante. E l'aria di Don Carlo dall'Ernani, invece, richiederebbe un'arcata mobile e calibratissima per volgere la malinconia pensosa della prima parte nella magnanimità – etimologicamente intesa – di “E vincitor de' secoli | il nome mio farò”; difficile per un cantante, pur bravo come Vitelli, renderne l'altezza poetica in una tessitura per di più particolarmente acuta e sovente scomoda. Ciò nulla toglie alla bontà della prova complessiva del baritono, interprete su cui fare affidamento anche se magari non fuoriclasse di portata storica.

Ricordato che alla Benzi sono state affidate anche due brevi pagine pianistiche verdiane (Romanza senza parole e il Valzer in fa maggiore reso celebre dall'orchestrazione di Nino Rota per Il Gattopardo) a mo' d'intercalare nelle due parti del concerto, l'attenzione si concentra prepotentemente sulla prova Gregory Kunde, ormai, e a ragione, non meno di una leggenda vivente nell'ambiente dei melomani.

Ci sono bellissime ragazze le cui attrattive, anche se ben collocate e messe a frutto nei primi anni, sfioriscono malamente o perché forzate da ritocchi artificiali o perché lasciate sole senza la compagnia di fascino, intelligenza, arte. Ma ci sono anche casi come quello di Jessica Lange, splendida in gioventù ed egualmente, naturalmente splendida oggi, perché è una grande attrice che con il tempo non ha perso un millesimo del suo fascino (anzi!) anche se con la luce giusta le sue naturalissime rughette si possono notare (nessuna punturina, nessun tiraggio, nessun bisturi, Deo gratias!). E se, d'altra parte, si nota pure che le gambe restano fra le più belle del mondo, l'artista gioca abilmente sulle sue caratteristiche fisiche nella definizione delle sfumature dei personaggi che interpreta.

Bene, se la voce di Gregory Kunde fosse una donna, sarebbe Jessica Lange. Ha le sue rughe, certo, e in alcuni momenti si notano bene, per esempio quando la tessitura scende o in alcune mezzevoci, ma son rughe naturali, opacità dovute al tempo senza il concorso di abusi di sorta. Ha ancora tutto lo splendore e la facilità del registro acuto già punto di forza della sua gioventù di tenore contraltino. E ha l'arte, il fascino, l'intelligenza, in sommo grado, tali da regalarci la lezione emozionante che dal Verdi Festival ci aspettiamo, quella per cui una manifestazione del genere ha senso, ossia un lavoro di cesello musicale sul senso del testo, del canto, della vocalità. Sentire lo squillo che la natura può aver dato a un giovanotto che di null'altro si preoccupa è effimero godimento di pochi istanti; sentire, come è avvenuto a Parma, il recitativo di Don Alvaro cantato da Kunde è un'esperienza che lascia il segno. Le parole “La vita è un inferno all'infelice. Invano morte desio” esprimono finalmente tutto il senso di scoramento, di sconfitta, tutta la profondità esistenziale che costituisce, per dirla con Rossini, “l'atmosfera morale” della Forza del destino, assumono un senso di estremo anelito all'annientamento, un nichilismo che da Leopardi guarda già alla fine del secolo e che si dibatte nel contrasto con impulsi vitalistici puntualmente delusi. Pochi versi e già l'essenza dell'opera è colta, metabolizzata, sintetizzata e restituita al pubblico. Forse mai s'era udito un fraseggio, un accento, un senso della parola scenica e del dramma più intimamente compenetrato con la musica in questa pagina. Più eloquente, altrettanto perfetto nel soppesare l'espressione. Una vera e propria lezione sull'autentica grandezza verdiana.

Il discorso si potrebbe ripetere per il grande duetto sempre dalla Forza del destino, come per “Quando le sere al placido”, in cui alla tornitura squisita delle strofe parallele unisce un sapore teatrale che con gusto ed equilibrio restituisce il senso originario di un soggetto di mezzo carattere: quel “ben la conobbe il padre” ha quella nota di sdegno che, senza toccare la volgarità, intinge un istante la punta del pennello nella concretezza popolare della commedia, nel sarcasmo crudele del vero amante deluso, che tuttavia non cessa di essere aristocratico per natura, educazione, scrittura musicale. Lo stesso si può dire per l'aria di Alfredo della Traviata (opera nel repertorio anche del giovane Kunde belcantista), ancora una volta detta e cesellata nella perfetta comprensione del carattere di questo giovanotto innamorato, che ha assaggiato un po' della dissolutezza parigina ma viene da una quieta provincia borghese e scopre, per esempio, un tenero pudore nel pronunciare “vedea schiavo ciascun di sua… bellezza”. Oppure per Manrico, cui sottende sempre un'idea musicale compiuta ed elegante, per cui le quartine della cabaletta sono scandite e differenziate secondo la loro funzione espressiva (figurazione del rogo, fremito di sdegno e impellenza all'azione, fremito di orrore e timore), per cui il cantabile è articolato con intelligente eloquenza e chiara idea dinamica nel legato.

Con Il trovatore Kunde dà anche prova eloquente della sintesi che rende straordinario ed esemplare questo concerto: non solo abbiamo l'altezza interpretativa, la lucidità e profondità musicale magistrali, ma anche la capacità di comunicarle, di cogliere con fare accattivante, da vero generosissimo animale da palcoscenico, anche gli umori più istintivi e viscerali del pubblico. Il sofisticatissimo Kunde dimostra simpatia, passione, condivisione e attenzione per il pubblico. Si fa amico il loggione non solo perché canta un Verdi di rara intelligenza, non solo perché non manca all'appuntamento con l'acuto, sempre forte e fiero, ma perché anche quando qualcosa non funziona, come nella Pira, chiusa con un po' di stanchezza senza il fulgore desiderato, si ferma, si scusa (come se, con un programma così impegnativo, ci fosse da scusarsi per un Do un po' più breve e meno perentorio) e ripete le ultime battute, saettando questa volta una puntatura di tutto rispetto. Il teatro è suo, l'atmosfera gioiosamente d'altri tempi, ma con un fraseggio più moderno che mai.

Inutile dire che il finale, con "Dio mi potevi scagliar" (indiscusso cavallo di battaglia, già bissato lo scorso anno nel concerto Fuoco di gioia, leggi la recensione e guarda i VIDEO) e la stretta del duetto con Jago, suscita un entusiasmo al calor bianco. Ci si rifà ampiamente delle perplessità destate dall'Otello inaugurale del Festival [leggi la recensione] e si gode del Moro musicalissimo e intelligentissimo di Kunde, del gusto e del buon canto dello Jago di Vitelli (non c'era un ruolo per lui in questo Festival? Speriamo di rivederlo ospite frequente al Regio in futuro!).

Le mura del teatro sembrano tremare di fronte all'uragano di applausi, delle richieste di bis, delle voci che implorano un “Esultate” o anche solo “Un acuto!”. L'acuto non sarà quello di Otello, ma quello del Duca di Mantova, che appare fuori programma a completare la trilogia con Alfredo e Manrico. “La donna è mobile” conferma, per la cura della singola parola e del senso complessivo, scanzonata e analitica insieme, quanto già ammirato in precedenza; tutto si dovrebbe concludere con un festoso e disimpegnato “Tanti auguri a te” dedicato a Verdi cui Kunde – che è anche maestro di coro – invita a partecipare tutto il pubblico, ma è difficile convincere i parmigiani a lasciare il teatro, con tanta adrenalina in corpo. Un ultimo “Dio vendicator!” è d'obbligo per accontentare tutti prima di uscire nella sera parmigiana con un sorriso beato di piena soddisfazione.

foto Roberto Ricci


 

 

 
 
 

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