Ute il camaleonte
di Roberta Pedrotti
Ute Lemper ospite del Bologna Festival per il consueto concerto straordinario di beneficenza in collaborazione con ANT. Un viaggio affascinante nel XX secolo attraverso i suoni di diverse città.
BOLOGNA 29 novembre 2015 - Il sodalizio fra Bologna Festival e ANT porta con sé quella che è ormai un'irrinunciabile e attesa consuetudine dell'autunno bolognese, nella quale l'occasione di far del bene e sostenere la meritoria onlus unisce il pubblico alla generosità di artisti spesso un po' eccentrici rispetto alle orbite consuete della rassegna felsinea. Se, infatti, lo scorso anno fu il jazz di Stefano Bollani e Hamilton de Holanda [leggi], quest'anno è la voce di Ute Lemper a levarsi in un concerto di beneficenza che è anche un viaggio personalissimo in cui lingue e canzoni si rincorrono echeggiando ora la voce interiore di sensi e sentimenti, ora i drammi della storia.
Canta il dolore e la speranza in Yiddish, rende omaggio a Edith Piaff e a Jacques Brel, fonde un tango asprigno di Brecht-Weill con quello sensuale di Piazzolla, canta l'inno di Maria de Buenos Aires, divina santa e puttana, morta, risorta, vergine e madre di se stessa, anima della città; canta le imprese criminali di Mackie Messer. Ricorrono, come un filo conduttore, le città: Parigi, Berlino, New York con i loro suoni e le loro voci. Ute Lemper canta in più lingue, parlando alterna senza soluzione di continuità l'inglese e il il francese, è come un camaleonte, che sa mimetizzarsi in diversi ambienti, cambiar tinte e pelle, ma non fisionomia: nessuna metamorfosi in Marlene, Edith o Lotte, Ute cambia colori ma non forma e se si fa attenzione, si aguzza la vista la si riconosce sempre, inconfondibile per come morde il testo, vive le consonanti arrotandole, affilandole, sibilandole, graffiandole. Ci sono i nervi scoperti, gli spigoli dell'espressionismo, le ferite aperte del Secolo Breve in questo canto, ma anche improvvisi, inaspettati momenti di dolcezza, come quando scioglie una Lili Marleen particolarmente soffusa e intimista. All'opposto, talora, i brani sorgono, s'immergono o si incontrano in ampie sezioni scat, di spericolato virtuosismo tecnico quando queste articolatissime cadenze esplorano tutte le sfaccettature timbriche, con un tratto quasi fauve talora, talora divertendosi in una prodigiosa imitazione della tromba o del sassofono, che arriva a sviluppare una sorta di trio strumentale a tutti gli effetti con il piano di Vana Gierig e il bandonéon di Victor Villena.
Fra una pezzo di Friedrich Hollaender e uno di Georges Moustak, fra Ilse Weber e Léo Ferré inserisce anche un personale e originale omaggio a Pablo Neruda, nonché quello, raro ma non inedito, al pubblico dei suoi concerti nella Penisola: fa tanto girovagare, in questo cosmopolitismo in cui le lingue si alternano rapidissime sfiorando il grammelot, mancava il repertorio italiano, che l'artista non frequenta abitualmente. Che la nostra lingua non le sia familiare come le altre si è inteso, ma non ha impedito di apprezzare la finezza musicale con cui ha affrontato Amarcord, rendendo giustizia senza leziosaggini al tema di Nino Rota. Fosse un'altra, forse, il suo modo di danzare cantando, il suo sussurrare amichevolmente nella conversazione con gli spettatori, potrebbe diventar lezioso. Ma quando c'è il carisma, la tecnica, la padronanza di un'artista a tutto tondo come in questo caso, capace poi di far ciò che vuole con la voce ed evocare un'epoca, i suoi mondi, i suoi drammi, il cabaret e la tragedia, allora, davvero, sul palco può permettersi qualunque cosa. Il camaleonte sa farsi riconoscere e sa incantare, anche quando preferisce giocare su tutte le sfumature di un universo in bianco e nero o in ombre seppiate.
Il pubblico si scalda, si scioglie, acclama, e quando viene invitato a fischiettare con lei il tema della ballata di Mackie Messer l'atmosfera nell'Arena del Sole si fa davvero magica. Come se il mito del coltello che luccica nella nebbia londinese serpeggiasse anche nelle foschie felsinee, sinistro ma non terribile, una leggenda e un eroe, per quanto neri, cui non ci si può non affezionare sorridendo in attesa del surreale lieto fine della Dreigroschenoper.