L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dove finiscono tutte le cose

di Isabel Ferrara

Al Teatro Bellini va in scena David, uno spettacolo di Vuccirìa Teatro con drammaturgia e regia di Joele Anastasi.

NAPOLI, 25 novembre 2021 - David è il fanciullo che sconfigge il gigante, è la bellezza e la perfezione di una scultura di marmo che immobile resiste al tempo. È un’assenza ingombrante, sempre presente in tutti i giorni, in un dolore in bianco e nero, continuamente in contrasto con i colori della vita, mai in sintonia tra il vuoto lasciato e l’ingombro di giornate riempite di faccende vane. David è quell’uomo adulto che per sempre rimarrà fanciullo nei ricordi di chi non vuole e non può dimenticare.

Assistiamo allo svolgersi di un racconto, su un palcoscenico scarno ma simbolicamente pieno: tutto è preso dall’acqua del mare, delle lacrime, del grembo materno; così come dal fuoco della lava, che si pietrifica all’incontro col mare, dal fuoco dell’amore che si è lentamente raffreddato nel silenzio e nella distanza che occhi che non guardano e voci che non parlano scavano nelle persone.

È uno spettacolo difficile; è coraggioso portare in scena il dolore nudo e crudo, con il suo carico poetico, un fardello che molti fuggono. La rappresentazione di una realtà, senza fronzoli e senza pause crea momenti carichi di passione, che ti strappano dalla comoda poltrona di spettatore e ti trascinano in un disagio emotivo che non ti aspetti, ti ritrovi di fronte alla sofferenza e a chi soffre, e sono così bravi Joele Anastasi, Federica Carruba Toscano, Eugenio Papalia, Enrico Sortino, che con i loro corpi e poche parole ripetute, quelle giuste, nel modo giusto ti fanno vivere una perdita, o il timore della perdita. L’azione è come le onde del mare, come il trascorrere del tempo scandito dallo spostamento sulla scena dei pochi oggetti presenti, voluminosi e pesanti come se contenessero davvero le vite di una intera famiglia. Il pathos che come un artiglio ti graffia l’animo, si sfilaccia subito dopo scorrendo tra l’agire indaffarato di chi cerca cosa fare, pur di non essere costretto a fermarsi a parlare e a ricordare, ma è così che non sappiamo “dove finiscono tutte le cose che il vento si porta via”, è così che il silenzio ci tiene lontani e ci rende ancora più soli. Un ricordo si possiede di più se si racconta, un’esperienza resta vivida se si condivide; e una persona che abbiamo amato e perso ci parlerà di nuovo attraverso gli occhi e la voce di chi è rimasto, di chi come noi lo ha vissuto. La morte spaventa, perché non esserci più è una strada di cui mai vedremo la fine, ma quello che forse spaventa ancora di più è la perdita di chi amiamo, che non avremo più accanto in carne e sangue, che resterà dentro di noi a urlare inascoltato nel vuoto che ha lasciato. Trasformare quell’urlo in una voce che ci narra il tempo che fu, che immaginiamo reagire, ridere e soffrire ancora accanto a noi, potrebbe salvarci dalla solitudine di un dolore inaccettabile, ma talmente sacro da restare intatto, indiviso e per questo insormontabile.

Le trovate sceniche, e anche musicali, collaborano tutte a creare una quotidianità non estranea, possibile e quindi condivisibile e comprensibile. Una notevole forza poetica riveste l’intero spettacolo, una fisicità che non lascia spazio a interpretazioni. Un senso di adesione emotiva e rispetto ci pervade, le riflessioni rivolte all’esterno della narrazione suonano come possibili nuovi modi di sopravvivere alla morte, questa innominabile che non si addomestica, se non forse tenendoci stretto quello che da vivi ricordiamo e raccontiamo.

Isabella Ferrara


 

 

 
 
 

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