L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il ritorno di Carmen

di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma riporta in scena una sua produzione: il balletto Carmen tratto dall’omonima novella di Prosper Mérimée, con la coreografia a firma di Jiří Bubeníček. A dirigere, Manuel Coves; come interpreti principali si distinguono Rebecca Bianchi (Carmen) e Javier Rojas (Don José).

ROMA, 30 gennaio 2025 – Torna al Costanzi il balletto Carmen a firma di Jiří Bubeníček, che era stato battezzato proprio nel maggior teatro romano nel febbraio del 2019: farò riferimento, dunque, a quanto da me già scritto in quell’occasione (leggi la recensione).

A distanza di qualche anno, il pastiche musicalecreato da Bubeníček risulta ancora abbastanza gradevole: le musiche, ben note, di Bizet si alternano a pezzi di de Falla, Albéniz e Castelnuovo-Tedesco, il tutto assemblato grazie all’opera di Gabriele Bonolis. L’intento di Bubeníček, dunque, è quello di parafrasare la celebre opera in linguaggio coreutico, ampliando la partitura del francese con inserzioni da compositori spagnoli (adatti, quindi, all’ambientazione, naturalmente) e una voce chitarristica contemporanea. Mi pare che – a livello musicale – la sua Carmen regga bene: le due ore di musica scorrono piacevolmente, riuscendo a coprire tutto l’arco cronologico della novella di Prospere Mérimée. La novità più interessante introdotta dal ceco, infatti, è che la narrazione coreografica segue da vicino la novella del francese più di quanto non avesse fatto, a suo tempo, Bizet, obbligato all’inserzione di taluni personaggi (Micaela ed Escamillo), in particolare per accondiscendere alle regole del genere dell’Opéra-comique.

La coreografia di Bubeníček, invece, segue letteralmente Mérimée: anzi, il poeta – qui impersonato da Manuel Zappacosta – è presente nei momenti nodali dell’azione, come un raccordo narratologico. L’idea di Bubeníček è quella di riprendere l’espediente della confessione di Don José al poeta, poco prima di morire, che nel balletto si realizza in due scene raccordate, in apertura e chiusura, in Ringkomposition, in cui l’uomo, alla fine, viene impiccato. Lo stile di Bubeníček è estremamente emotivo, a tratti frammentato, soprattutto nei pas de deux dei due protagonisti; se cura minuziosamente taluni numeri bozzettistici, lascia però andare qualche snodo narrativo. Insomma, la sua coreografia mi pare doversi apprezzare soprattutto per una serie di quadri, talvolta a sé stanti, dove regna uno stile fortemente classicheggiante nelle posizioni, ma naturalmente aperto alle infinite varianti delle flessioni del corpo, che sono l’elemento di innovazione più spiccato di tutta la danza contemporanea. La cifra di Bubeníček, infatti, risiede proprio nell’equilibrio fra la rottura delle linee e la sinuosità – che lega tutte le sue coreografie, come un fil rouge –, l’emozione della curvatura spaziale dei corpi dei danzatori. Quando non si concentri su dei bozzetti, come per esempio il quadro delle sigaraie, dove le ballerine/operaie vengono usate come un unico organismo, mimando il lavoro in fabbrica con movimenti ripetitivi e meccanici, ha qualche bella trovata, ma sporadica. Il finto cavallo (vi sono due attori all’interno) è una di queste, assolutamente bellissima, un vero e proprio coup de théâtre; la scena della cavalcata notturna di Carmen su questo cavallo, sotto una volta trapunta di stelle, è poetica e sublime. Un’altra coreografia assai riuscita è quella che apre la scena nella casa del Tenente, dove i costumi policromi, di ottima fattura, seducono gli occhi mentre i danzatori sono impegnati in evoluzioni eleganti. La cura degli assoli dei ballerini e dei vari pezzi d’insieme da parte del coreografo ceco è notevole: vige sempre – come ho già detto – una ricerca dell’emozione mediante movimenti flessuosi, posizioni inarcate e staccate, ma anche un grande psicologismo, che tenta di rendere i personaggi tridimensionali, a dar loro, quasi, una voce. Il problema è che non sempre Bubeníček ci riesce: complessivamente, infatti, la narrazione coreografica è lenta, rallentata soprattutto da qualche vuoto scenico di troppo. Mi riferisco soprattutto a talune scene d’assieme (come l’apertura e il covo dei banditi sui monti), dove si sarebbe potuto osare di più, in termini tanto di numeri, quanto di movimento. Val bene notare, pure, qualche coreografia meno d’effetto: mi viene in mente, in particolare, quella, ironica sì ma alquanto debole, dei toreri in apertura dell’ultimo quadro.

La Carmen di Rebecca Bianchi si conferma assai convincente: la ballerina è sensuale, precisa, leggera. Riguardando l’esecuzione della sua entrée, sulla celebre musica dell’habanera, si nota che la difficoltà tecnica del turbinio di prese, del cambio repentino di posizioni, insomma dello sforzo fisico cui è demandata l’interprete, tolgono un po’ di sensualità alla scena. Ciononostante, Bianchi esegue assai bene, come il resto della parte, riuscendo a donare quella sfacciata leggerezza, quella volontà di volare sempre senza pesi morali sulla coscienza, e la traduce in un recitar danzando molto sensuale. Anche nei pas de deux si nota un lavoro certosino sulla parte: il più bello, in tal senso, è quello del I atto, che gioca su una fisicità e sensualità particolarmente spinte. Il Don José di Javier Rojas è altrettanto riuscito: dotato del perfetto physique du rôle per la parte, Rojas, a una prima occhiata, può apparire un danzatore pesante, ma è fisicamente assai prestante, fluido, in grado di esprimere tensione delle forme e, se lo vuole, notevole espressività. Se manca un po’ di esplosività, non è gran danno: la parte non lo richiede, poi, molto. L’assolo di José in cui cerca Carmen (che, al solito, lo ha abbandonato dopo una notte d’amore) appare uno dei momenti migliori della serata. Simone Agrò sostituisce Rezza nella parte del torero, Lucas, regalando una buona performance. Claudio Cocino convince, ancora una volta, nella parte del bandito Garcia, marito di Carmen, uscendo fuori dai ruoli che in genere lo caratterizzano e dando prova di versatilità. Infine, complimenti allo straordinario corpo di ballo dell’Opera di Roma, che danza bene negli insiemi, alcuni dei quali – come ho detto – risultano (in parte) l’esperimento più interessante della serata.

L’ottimo stato dell’orchestra del Costanzi si può godere anche in questa serata, diretta da Manuel Coves, dotato di buona sensibilità e attento al rapporto fra la buca ed il palcoscenico. Le scene sono a firma di Gianni Carluccio, che fa un buon lavoro. L’idea di base è funzionale: un fondale a mezzo-palco, decorato in arabeschi, ammiccante, naturalmente, alla cultura moresca ispanica, che rimane fisso e viene completato con elementi che calano dall’alto. Talune scene sono apprezzabili, come, nel secondo atto, in particolare, il passaggio dalla foresta montuosa (indicata con tronchi a mezz’aria sul palco) al palazzo del ricco inglese amante di Carmen, dove si dispongono arredi settecenteschi, e alla successiva fuga di Carmen sotto un cielo stellato. Carluccio firma anche una regia luminosa che restituisce l’atmosfera andalusa, di una luminosità mediterranea. I costumi, a firma dell’atelier di Anna Biagiotti, variano per qualità, raggiungendo risultati ottimi in qualche caso (il già citato ballo nella casa del Tenente e quelli, candidi, ispirati alla Feria de Abril in apertura di II atto). Gli applausi accordano a questa produzione, ancora una volta, il gradimento del pubblico.

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