L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Uno Schumann energico

 di Stefano Ceccarelli

Il ciclo schumanniano iniziato da Daniele Gatti – e che si iscrive all’interno di una serie di concerti romani promossi dalle maggiori istituzioni di cultura e divulgazione musicale (Accademia, IUC, Filarmonica Romana) che hanno come minimo comun denominatore Schumann – viene terminato all’Accademia di Santa Cecilia da Marc Albrecht, che sostituisce Gatti costretto al forfait per problemi di salute. Se ci si dispiace per il mancato completamento di un ciclo organicamente diretto da un’unica mente, l’abbandono coatto di Gatti ha forse, paradossalmente, giovato al pubblico: si è infatti potuto notare come Schumann possa essere diretto in maniera totalmente differente, come un direttore possa notare elementi affatto diversi rispetto a un altro. In tal senso, la Seconda e la Quarta di Albrecht si caratterizzano per una direzione quasi agli antipodi rispetto a quella di Gatti – e per certi versi, a mio avviso (e al di là del gusto meramente personale) anche più condivisibile. Fra i due capolavori di Schumann ancora un pezzo per coro di Brahms, lo Schicksalslied op. 54. Il concerto registra un’ottima affluenza di pubblico, a dispetto del cambio di direttore, e una degna riuscita.

ROMA, 22 marzo 2016 – Michele Dall’Ongaro, presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, sale sul palco, prima dell’inizio del concerto, per leggere una lettera di Gatti indirizzata al pubblico romano in cui il milanese si scusa per il forfait della seconda parte del ciclo sinfonico schumanniano, adducendo serie motivazioni di salute e dando appuntamento alla prossima stagione dell’Accademia. Dall’Ongaro non manca di ricordare le vittime dell’attentato belga e richiede un minuto di silenzio per i morti di Bruxelles. «Alle bombe rispondiamo con Schumann, con la bellezza»: come non essere d’accordo? Dall’Ongaro, poi, fa i complimenti a Marc Albrecht: l’Accademia è stata celermente pronta nel saper ovviare al problema e oltremodo fortunata, giacché Albrecht ha onorato come meglio non si poteva il programma.

Il ciclo sinfonico schumanniano riprende con le due sinfonie pari. La Seconda sinfonia in do maggiore op. 61 è quasi una sublimazione psicanalitica di un periodo di forte depressione di Robert Schumann, nata in lui dalle insoddisfazione per un mancato successo personale in una tournée russa che gli aveva visto preferita la consorte Clara. Marc Albrecht dimostra notevole polso e sensibilità per la musica schumanniana. È un peccato che in apertura del Sostenuto assai vi siano problemi di amalgamazione timbrica e d’intonazione nella compagine degli ottoni; s’aggiunga, poi, che l’agogica è forse un tantino troppo sostenuta. Dall’Allegro ma non troppo si comincia a percepire la vera firma del sinfonismo schumanniano secondo Albrecht, un esplicito vitalismo ritmico. Certo, qualche sfavillio è perso – quella brillantezza timbrica che Gatti venerava come idolo supremo – ma tant’è: il finale è perentorio, ottimo, e Albrecht sa rendere bene il concetto di disorientamento anti-classico delle strutture sinfoniche che Rostagno mette perfettamente in evidenza nel programma. Nel II movimento questo disorientamento impellente è reso con un polso e accenti agogici invidiabili; m’è parso, inoltre, che Albrecht fosse molto più a suo agio con la tessitura orchestrale (in tal senso i due trii sono fenomenali, un vero idillio per le orecchie), montando poi un finale II al cardiopalma. Nell’Adagio espressivo (III), la «voragine di melanconia accidiosa» (Rostagno), Albrecht fa bene a stare attento alle palpitazioni ritmiche, agli improvvisi cambi di volumetrie; e fa ancora meglio a concentrare la sua attenzione sonora sulla scrittura degli archi alti: sono infatti il nerbo dell’idioma sonoro con cui Schumann dipinge questo pezzo: le arcate lamentose, i trilli corali, le entrate stesse tremolano di colori sinistri. Del finale Albrecht sa donarci tutto: potenza, titanismo, melanconia, un pot-pourri di sentimenti contrastanti, in una parola romantici. Dirige tutto d’un fiato: qui si sente la vera differenza fra lo Schumann di Gatti e quello di Albrecht, venato di vive pulsazioni, veemente, voluminoso, cangiante nelle colorazioni. Questa direzione è sancita nel potentissimo finale IV, che raccoglie meritati applausi. Dall’Ongaro ha ragione: non ci pentiamo di questo Schumann.

Altro discorso si deve fare per la musica corale tedesca di Johannes Brahms, dove ha probabilmente più sensibilità Gatti, anche se Albrecht certo non sfigura. Lo Schicksalslied riesce bene anche e soprattutto per la presenza del magnifico Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, fiore all’occhiello della musica non solo italiana, ma mondiale. Proprio il coro femminile attacca con tiepida dolcezza la prima strofa, seguito dalla compagine maschile; ottimi gli acuti sopranili nella seconda strofe, conclusasi con un pianissimo mozzafiato; la terza rappresenta la svolta emotiva della tragedia umana della morte cui gli dèi sono beatamente indifferenti: l’enfasi corale si accede fin dal potente attacco, la tensione sale soprattutto dal «Die leidenden Menschen»e va scemando in un finale che sembra ritornare alla serena indifferenza divina.

È ora la volta della Quarta sinfonia in re minore op. 120. Albrecht marca troppo la prima sezione Un poco lento del I, sia per l’intensità degli accenti che per la speditezza agogica; infatti, lo stacco col Vivace, pur essendo ben eseguito, non lascia quell’eccitante stupore d’improvviso coup de théâtre che dovrebbe essere la sensazione naturalmente preludente alla monumentale seconda parte, composta di nobili altezze, energici spiriti, che ne fanno un manifesto della musica romantica. Della Romanze (II) si nota una certa morbidezza, non certo aiutata da un’agogica ancor troppo marcata e sostenuta; l’assolo del violino di González-Monjas nel finale è tra i momenti migliori del concerto. Albrecht incontra di nuovo sé stesso appieno, e Schumenn, nello Scherzo (forse il movimento meglio diretto della serata): rende incisivamente le cavalcate ritmiche e con trasognata chiarezza il dolcissimo trio. Albrecht sceglie, finalmente, per il finale (IV) un Lento cavernoso e indugiante che fa esplodere proprio nella congiunzione con il Vivace, questa volta ottenendo un effetto teatrale alla Karajan. Il resto del movimento riesce magnificamente dionisiaco, nelle sue imponenti volumetrie architettoniche. Grandi applausi sugellano il concerto. Complimenti all’eccellente performance dell’orchestra migliore d’Italia (e fra le migliori al mondo): ha saputo armonizzarsi con un nuovo direttore in pochissimo tempo e con ottimi risultati.


 

 

 
 
 

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